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Roland Barthes, quarant’anni dopo – di Fabio Libasci

Roland Barthes, quarant’anni dopo
di Fabio Libasci

 

È raro che un critico possa assicurarsi una memoria duratura presso un vasto pubblico, ancor più raro che questa memoria assuma i colori e i contorni del mito. Eppure è quello che è successo a Roland Barthes dall’indomani della sua morte, il 26 marzo 1980, quarant’anni fa. Un incidente banale all’uscita dal Collège de France un sabato pomeriggio alla fine della sua lezione lo lasciò sospeso tra la vita e la morte per un mese; poi, di colpo, i suoi polmoni indeboliti dalla tubercolosi giovanile lo lasciarono andare. Molti in quel mese seguirono con apprensione la sua lotta con la morte, o la sua serena accettazione a seconda degli amici che andavano a trovarlo e indugiavano sul suo sguardo muto, chiuso come una sfinge.
Chi era Roland Barthes, perché è stato così importante e perché esiste e persiste, se davvero poi è cosi, il suo mito?
Nato in un paesino della Normandia nel 1915 e orfano di padre ad appena un anno, si aggrappa alla madre e alle parole che lo cullano nello spazio beato di Bayonne dove si trasferiscono subito dopo. Bayonne è una cittadina di provincia bagnata da una luce particolare, quella del sud-ovest della Francia che ricorderà sempre con affetto. Tornato a Parigi è uno studente brillante al Liceo Louis-le-Grand ma poco meno che ventenne è costretto a ritirarsi in un sanatorio per curare i suoi polmoni; il soggiorno forzato diverrà il primo tempo della scrittura: lì scopre Brecht, legge Gide e Mauriac, il suo amato Proust che non abbandonerà più e assorbe i classici, da Racine a Eschilo.
Negli anni del secondo dopoguerra sarà lettore di francese a Bucarest e Alessandria d’Egitto, in seguito ricercatore presso il CNRS e poi presso l’EHESS dove resterà fino al 1977. Intanto comincia a collaborare con importanti testate e a comporre le “mythologies” che poi raccoglierà in volume nel 1957. Barthes comincia a praticare una disciplina nuova, la scienza dei segni, la semiologia e la applica a “prodotti culturali” diversi: la pubblicità Panzani, le parrucche che indossano gli attori dei peplum tanto in voga, la Citroën. Miti d’oggi, come giustamente li chiamerà Einaudi nella sua traduzione italiana, che il semiologo prova a smontare mostrandone il funzionamento. Contemporaneamente scopre Robbe-Grillet e il “nouveau roman” e accanto continua a scrivere su Racine dandone una lettura profondamente intrisa di psicoanalisi. La pubblicazione dei saggi raciniani gli vale un duro attacco da parte della critica sorboniana, da quel Picard che chiamerà la “nouvelle critique”, “nouvelle imposture”. Barthes col suo attacco frontale, ma che non pensava così fragoroso, scopre che ci sono autori intoccabili, metodi non applicabili, oggetti non degni di indagine; la scoperta però lo rende più solitario e testardo nella sua ricerca e nella sua scrittura. Vicino fin dal principio al gruppo “Tel quel”, non ne abbraccerà mai del tutto l’ideologia e la deriva maoista alla fine degli anni’60; dallo strutturalismo si allontana prima che la parola diventi un’accusa e dopo averne esaurito il metodo in un’opera eccentrica e oggi dai più dimenticata: il Sistema della moda. In S/Z, la serrata lettura, parola per parola, della novella Sarrasine di Balzac, all’analisi strutturale aggiunge una parola eretica per quegli anni “scientifici”: l’interpretazione e forse recupera anche la funzione classica del commento. Quando tutti sembrano apprezzare la Rivoluzione culturale di Mao, Barthes volge poi gli occhi al suo oriente, il Giappone. L’impero dei segni è un viaggio nella cultura millenaria, nei riti e nei miti di un Giappone antichissimo e sconosciuto all’Occidente; la mappatura dei luoghi del desiderio che Barthes regala ambiguamente al suo lettore.
Stanco del codice strutturalista, del suo rigore e forse della sua ripetitività, introduce la nozione di piacere del testo, dividendo la letteratura in due categorie dai confini non perfetti: testi di piacere e testi di godimento; poi, l’autore che in pieno ’68 aveva proclamato la morte dell’autore scrive un libro che parla di sé alla terza persona, Barthes par Roland Barthes. Dell’autobiografia classica non ha nulla; è un discorso rarefatto, frammentario accompagnato dalle foto, dalla nostalgia; un testo che non pretende di spiegare niente né raccontare segreti ma piuttosto dire le passioni: la pittura e la musica, Proust e Stendhal.
Nella seconda metà degli anni ’70 il suo lettore assiste a un ritorno “sentimentale” dell’io, un io fragile, frammentario, quasi neutro; scopre una scrittura che non è ancora romanzesca ma neppure squisitamente saggistica, lascia dialogare il proprio io con gli autori, confronta i propri fantasmi con quelli di carta. Nascono così i Frammenti di un discorso amoroso, un viaggio in ordine alfabetico nelle figure dell’innamorato seguendo I dolori del giovane Werther e la psicoanalisi lacaniana. Barthes diventa all’improvviso famoso, la sua scrittura raggiunge un pubblico nuovo, giovane, in cerca di una nuova guida. Una voce neutra racconta le attese, le ansie, la delusione di un amante nei confronti dell’amato distratto, in ritardo, non innamorato. Anni dopo Umberto Eco e Arbasino tra gli altri ricorderanno che i Frammenti non erano che la forma che Barthes aveva dato al proprio dolore d’amore e che dietro quell’amante senza genere si nascondeva un ragazzo. Barthes era omosessuale ma solo negli ultimi anni aveva cominciato a parlarne e poi sempre più apertamente lo aveva fatto dopo la morte della mamma, il suo dolore più grande. La depressione che seguì l’immenso lutto, i due avevano vissuto come innamorati per più di mezzo secolo, lo rese più fragile ma più convinto di dover iniziare a scrivere il suo romanzo: Vita nova, omaggiando Dante. Il romanzo non vide mai la luce, interrotto dalla morte prematura del 26 marzo 1980 o forse dal fatto che il romanzo in realtà l’aveva giù scritto e si chiamava La camera chiara che pubblica solo qualche mese prima di morire. Il testo, che dovrebbe essere una nota, modesta, sulla fotografia, è in realtà un omaggio, proustiano, il solo possibile, alla madre. Il ritrovamento di un’immagine della madre bambina gli fa ritrovare l’essenza che credeva perduta per sempre: la bontà che ha conosciuto sul suo volto era già lì in quella fotografia dai contorni cartonati e sciupati. La camera chiara è costituito da due parti distinte, 32 piccoli capitoli o fotogrammi di un rullino che si chiude sulla sua origine: la madre. Quella sincerità dello sguardo deve averla notata il giovane Guibert recensendo il volume per “Le monde”.
Dalla sua morte sono passati quarant’anni; il mondo che aveva conosciuto non esiste quasi più e oggi un saggio di critica letteraria non fa più moda o tendenza e se suscita polemica lo fa per quattro irriducibili; i maestri si omaggiano subito per scordarli il prima possibile e i libri non si ristampano quasi più. Barthes, al contrario, dal 1980 non ha smesso di essere tradotto e ristampato; molti inediti sono venuti fuori con la cura paziente e innamorata dei suoi allievi e persino l’edizione in cinque volumi delle sue opere complete è stata pubblicata. Parallelamente Barthes è stato omaggiato e romanzato dai suoi ex allievi e amici, da Philippe Sollers a Julia Kristeva, da Renaud Camus a Antoine Compagnon e fino al recente La settima funzione del linguaggio di Binet dove al centro del plot c’è l’indagine romanzesca sulla fine troppo tragica, troppo banale del critico: investito da una camionetta della lavanderia. Tutti cercano di raccontare l’essenza di Barthes, la verità di quell’uomo schivo che trovava consolazione nel chiuso del suo studio dopo essersi bagnato nella folla di St.Germain.
Molti oggi si ispirano alla sua figura di critico eccentrico, battitore libero, eretico; molti in lui trovano conforto quando si trovano davanti a oggetti poco identificati e sono anche troppi quelli che saccheggiano la sua sterminata scatola degli attrezzi, alcuni senza ammetterlo; molti gli innamorati che trovano conforto nelle sue parole. Tanti allievi, molti gli imitatori per un critico che voleva essere scrittore, maestro di stile e antimoderno secondo le parole di Compagnon; un uomo che vivendo intensamente la modernità, la contemporaneità, alla sera trovava pace leggendo Proust, Dante e Chateaubriand e trovando in loro forse la forza per lasciarsi andare, in punta di piedi ma lasciandoci in compagnia della sua opera, tutta da leggere, rileggere, con piacere, con godimento, per quarant’anni ancora.

© Fabio Libasci


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