In una poesia – in ogni poesia – si scopre sempre un verso capace di imprimersi nella mente del lettore con particolare singolarità e immediatezza. Pur amando una poesia nella sua totalità, il lettore troverà un verso cui si legherà la sua coscienza e che lo accompagnerà nella memoria; il verso sarà soggettivato e anche quando la percezione della poesia cambierà nel tempo, la memoria del verso ne resterà quasi immutata (o almeno si spera). Pertanto nel nostro contenitore mentale conserviamo tanti versi, estrapolati da poesie lette in precedenza, riportati, con un meccanismo proustiano, alla superficie attraverso un gesto, un profumo, un sapore, contribuendo in tal senso a far emergere il momento epifanico per eccellenza. Perché ispirarsi alle bustine di zucchero? Nei bar è ormai abitudine zuccherare un caffè con le bustine monodose che riportano spesso una citazione. Per un puro atto spontaneo, non si va a pescare la bustina con la citazione che faccia al proprio caso, è innaturale; si preferisce allora fare affidamento all’azzardo per scoprire la ‘frase del giorno’ a noi riservata. Alla stessa maniera, quando alcuni versi risalgono in un balenio alla nostra coscienza, non li prendiamo preventivamente dal cassettino della memoria. Sono loro a riaffiorare, da un punto remoto, nella loro imprevista e spontanea vividezza. (D.Z.)
L’atto di scrivere libera ed elabora il pensiero; la scrittura lo trasforma, lo definisce, raffina l’oggetto della riflessione. Sulla scia di questo principio di derivazione vygotskijana, si può affermare che la scrittura poetica non solo intercetta, pur lasciando il suo margine di mistero e ambiguità, i movimenti di un pensiero, ma affina pure i termini-chiave fondamentali che si originano dal pensiero stesso. Ma perché ciò avvenga, pensiero e linguaggio non possono non considerare l’alterità, l’Altro, ciò che è diverso da sé stessi, diversità in cui il sé si riflette. Per questo il linguaggio, per lo psicologo russo Lev Vygotskij, in ambito di sviluppo cognitivo possiede principalmente una funzione sociale e comunicativa. Il linguaggio è un ponte fra due persone, si costituisce, si realizza se ci si rivolge all’altro; ragion per cui si ha consapevolezza del linguaggio in rapporto all’interlocutore. Il linguaggio “è” l’altro. Nel caso di Nella bellezza altrui del poeta Adam Zagajewski, oltre ai temi che edificano il telaio di quest’architettura umana e semantica che è la sua poetica, la parola diviene linea di confine da cui ricaviamo il senso di una storia capace di coinvolgere a più riprese l’altro. Quindi, se per la psicologia e la pedagogia lo sviluppo del linguaggio risiede nel contatto sociale, per Zagajewski la salvezza sta nella bellezza altrui, nella musica, nei versi che non sono i nostri, e questo perché il mancato contatto col mondo o il rapporto solo con il proprio sé rischierebbe di generare un solipsismo vuoto ed esasperato. Abbiamo, pertanto, coscienza di noi stessi non solo nei momenti di una meditazione rivolta all’io, ma talvolta in funzione del nostro rapporto con l’alterità, una diversità che si trasfigura in un’occasione di arricchimento. Tale rapporto comporta l’apertura, e di conseguenza l’atto determinante dell’ascolto per trarre giovamento dalla bellezza altrui. I momenti, le cose, le persone si vivono perché si ascoltano. È, questa, una conferma della nota lezione lévinasiana espressa in Totalità e infinito: l’altro mi riguarda e, sotto alcuni aspetti, ne divento responsabile. L’altro, per Zagajewski, è il volto a cui ambire per costruire il dialogo. Perché nell’incontro risiede la possibilità di salvarsi.
Bibliografia in bustina
A. Zagajewski, Dalla vita degli oggetti. Poesie 1983-2005, Milano, Adelphi (a cura di K. Jaworska), 2012, p. 59.
L.S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, Roma, Laterza, 2008.
E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Milano, Jaca Book, 2010 (ristampa 2018).
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