In una poesia – in ogni poesia – si scopre sempre un verso capace di imprimersi nella mente del lettore con particolare singolarità e immediatezza. Pur amando una poesia nella sua totalità, il lettore troverà un verso cui si legherà la sua coscienza e che lo accompagnerà nella memoria; il verso sarà soggettivato e anche quando la percezione della poesia cambierà nel tempo, la memoria del verso ne resterà quasi immutata (o almeno si spera). Pertanto nel nostro contenitore mentale conserviamo tanti versi, estrapolati da poesie lette in precedenza, riportati, con un meccanismo proustiano, alla superficie attraverso un gesto, un profumo, un sapore, contribuendo in tal senso a far emergere il momento epifanico per eccellenza. Perché ispirarsi alle bustine di zucchero? Nei bar è ormai abitudine zuccherare un caffè con le bustine monodose che riportano spesso una citazione. Per un puro atto spontaneo, non si va a pescare la bustina con la citazione che faccia al proprio caso, è innaturale; si preferisce allora fare affidamento all’azzardo per scoprire la ‘frase del giorno’ a noi riservata. Alla stessa maniera, quando alcuni versi risalgono in un balenio alla nostra coscienza, non li prendiamo preventivamente dal cassettino della memoria. Sono loro a riaffiorare, da un punto remoto, nella loro imprevista e spontanea vividezza. (D.Z.)
Françoise Carasso, nel suo saggio Primo Levi. La scelta della chiarezza, si domanda (pur se la risposta è implicita): «Ma rendere comprensibile, e persino tollerabile, ciò che di per sé è incomprensibile e intollerabile non significa forse, come diceva Adorno, oltraggiare la sofferenza?». Per Levi chimico e umanista non fu così. Quest’atteggiamento, questa scelta della chiarezza per raccontare l’abisso, Levi la confermò fino all’ultimo, così come riconobbe sempre più l’urgenza della scrittura per testimoniare la verità sull’uomo e dei suoi gorghi profondi e, di conseguenza, per interrogarsi su quei gorghi. E ancora, quando, in un servizio del 1984, la giornalista Lucia Borgia intervistò l’autore di Ad ora incerta, parlando di scrittura poetica, e riesumò la nota affermazione di Adorno, ovverosia che dopo Auschwitz non è più possibile fare poesia, Primo Levi rispose: «Ecco, io correggerei questo enunciato di Adorno. Direi che dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz o, per lo meno, tenendo conto di Auschwitz; qualcosa … con Auschwitz, qualcosa d’irreversibile è successo nel mondo». Lo stesso Adorno, a distanza di anni da quell’asserzione, rettificò la sua posizione, ammettendo di aver sbagliato. Forse, a voler riassumere il senso dell’opera leviana – attraverso la commistione dei due mondi cui apparteneva, cioè la scienza e la letteratura – troviamo questo: l’irreversibile ha bisogno di memorabilità, di essere ricordato fintantoché la memoria fa parte dell’uomo e, quindi, non ricordare vuol dire omettere quanto è accaduto, quasi come cancellarlo. Dal suo ritorno da Auschwitz, Levi, come tutti, ha cercato di rifarsi una vita, ma, data l’esperienza concentrazionaria, l’irreversibile era entrato nella vita dell’uomo e da allora non sarebbe stata la stessa cosa. Chi ha vissuto, non poteva dimenticare il comando che giungeva all’alba: alzarsi. Si è ritornati alla vita, al letto comodo, al pasto che sazia, ma con l’umanità ferita. Pur se una poesia non parla di Auschwitz, quando scandaglia gli abissi dell’uomo, non potrà non ricordare quale fra questi è stato consegnato dalla storia. Ha ancora senso scrivere poesie dopo la Shoah? Se consideriamo che la poesia rappresenta quello spazio simbolico e autentico entro cui recuperare l’umana dimensione e i valori di chiarezza e verità, certo ancor più è necessario e urgente scriverle.
Una replica a “Bustine di zucchero #27: Primo Levi”
L’ha ripubblicato su Matteo Mario Vecchio.
"Mi piace""Mi piace"