«Ridere della filosofia». Appunti sul rapporto Pascal-Leopardi
Il mio ingegno non va sempre avanti, va anche indietro. Non diffido meno dei miei pensieri perché sono secondi o terzi invece che primi, o presenti invece che passati. Ci correggiamo spesso altrettanto scioccamente come correggiamo gli altri. (…) Il mio io di adesso e il mio io di poco fa, siamo certo due. Ma quale sia migliore non posso davvero dirlo. [M. de Montaigne, Saggi]
La vera eloquenza ride dell’eloquenza, la vera morale ride della morale; la morale del giudizio, cioè, ride della morale dell’intelletto, che è senza regole. Il sentimento infatti appartiene al giudizio, come le scienze appartengono all’intelletto. La finezza è propria del giudizio, la geometria dello spirito. Ridere della filosofia è fare veramente filosofia. [B. Pascal, Pensieri]
Nessun maggior segno d’essere poco filosofo e poco savio, che volere savia e filosofica tutta la vita. [G. Leopardi, Pensieri]
Premessa
Il rapporto Leopardi-Pascal può essere inquadrato a partire da due punti di vista differenti. Il primo è di carattere filologico e consiste nell’individuare i luoghi testuali in grado di documentare l’effettiva familiarità del grande recanatese con l’opera pascaliana; il secondo ha natura più propriamente teoretica e comporta l’individuazione delle affinità e delle differenze che i due presentano sotto il profilo della riflessione filosofica.
Il primo – e meno praticato – approccio ha l’indubbio vantaggio di fondarsi su dati verificabili ma, al tempo stesso, corre il rischio di ridurre Leopardi a un mero ricettore della lezione di Pascal e di non considerare che i due pensatori possono presentare affinità e divergenze anche a prescindere da eventuali influenze del francese sull’italiano. Il secondo – e più fortunato – atteggiamento si mostra invece in grado di ampliare l’orizzonte del discorso ermeneutico esponendosi, però, ai continui agguati dell’impressionismo critico. Potrà essere dunque utile tentare un approccio integrato, teso a massimizzare i vantaggi di entrambe le prospettive.
Ovviamente non è mia intenzione esaurire, in questa sede, un tema di tale portata. Credo però opportuno individuare, partendo dai brani zibaldoniani in cui Pascal viene citato esplicitamente, un insieme di temi e problemi comuni ai due autori. L’auspicio è che un’operazione del genere possa porre le premesse per futuri e più approfonditi studi.
Leopardi lettore di Pascal
Potrà essere opportuno iniziare il nostro discorso partendo da un pensiero zibaldoniano del 2 dicembre 1820. In esso Leopardi, dopo aver negato qualità stilistiche alla moderna prosa francese, si sofferma sulle virtù dei suoi autori “classici”:[1]
Filosofi, oratori, scienziati, scrittori d’ogni sorta, non sanno essere e non si chiamano eleganti, se non per uno stile enfatico, similitudini, metafore, insomma stile continuamente poetico, e montato principalmente sul tuono lirico. (…) Anche i loro scrittori de’ buoni secoli, sebbene la lingua francese ha sempre inclinato a questo difetto, nondimeno hanno un gusto e un sapore di prosa molto maggiore e più distinto (eccetto pochi), hanno non dico austerità, neanche gravità né verecondia (pregi ignoti ai francesi) ma pur tanta posatezza e castigatezza di stile quanta è indispensabile alla prosa: come la Sévigné, Mme Lambert, Racine e Boileau nelle prose, Pascal ec. Anzi letto Pascal, e passando ai filosofi e pensatori moderni, si nota e si sente il passaggio e la differenza in questo punto.[2]
Questo pensiero contiene forse l’unico indizio («letto Pascal») che ci consente di dire che il grande recanatese doveva aver letto lo scienziato-filosofo d’Oltralpe già all’inizio degli anni ’20. La copia dei Pensieri presente nella biblioteca di Recanati non presenta infatti segni certi di lettura,[3] mentre delle quattro citazioni dirette di brani pascaliani presenti nello Zibaldone tre sono di seconda mano e una è un richiamo a memoria.
Un altro segnale dell’importanza avuta da Pascal nelle letture e nei progetti leopardiani viene dalle Memorie e disegni letterari del 1828, dove le Provinciali del genio francese vengono menzionate due volte, la seconda delle quali addirittura per ipotizzare la stesura di un libro con caratteristiche analoghe.[4] Quest’elemento, opportunamente evidenziato da Giuseppe Savoca,[5] ci consente di stabilire che la lettura di Pascal, da parte di Leopardi, non fu limitata ai Pensieri e, inoltre, ci lascia intuire che l’importanza avuta dal genio francese nell’immaginario leopardiano fu tale da influenzarne anche i progetti letterari.
Leopardi allo specchio
Il primo pensiero zibaldoniano in cui compare il nome di Blaise Pascal risale, in ogni caso, all’11 agosto 1820. In esso Leopardi cita lo scienziato-filosofo francese mostrando di considerarlo uno degli emblemi del genio moderno, ovvero di quella peculiare forma di genialità in cui l’acume intellettuale si intreccia alla debilitazione fisica:
Oggidì è cosa molto ordinaria che un uomo veramente singolare e grande si distingua al di fuori per un volto o un occhio assai vivo, ma del resto per un corpo esilissimo e sparutissimo e anche difettoso. Pope, Canova, Voltaire, Descartes, Pascal. Tant’è: la grandezza appartenente all’ingegno non si può ottenere oggidì senza una continua azione logoratrice dell’anima sopra il corpo, della lama sopra il fodero. Non così anticamente, dove il genio e la grandezza era più naturale e spontanea, e con meno ostacoli a svilupparsi, oltre la minor forza della distruttrice cognizione del vero inseparabile oggidì dai grandi talenti, e il maggior esercizio del corpo riputato cosa nobile e necessaria, e come tale usato anche dalle persone di gran genio, come Socrate ec.[6]
Si tratta, con ogni evidenza, di un pensiero dal forte sapore autobiografico. Poco più di un anno prima Leopardi aveva infatti vissuto quel violento abbassamento della vista che, privandolo della «continua distrazione della lettura»,[7] lo aveva gettato in uno stato di profonda prostrazione da cui avrebbe preso il via la sua lenta ma progressiva «conversione filosofica». È dunque lecito pensare che il poeta recanatese avvertisse, pensando a Pascal, il senso di una vicinanza.
Del resto quest’atteggiamento emerge anche in un altro paio di occasioni. La prima risale al 17 giugno 1821, in un pensiero in cui Leopardi riflette sulla fragilità del genio:
Questi tali geni sommi hanno consumato rapidamente il loro corpo e le stesse loro facoltà mentali, lo stesso genio. La soverchia delicatezza de’ loro organi li rende e più facili a consumarsi, e più facili a guastarsi, rimanendo inferiori di facoltà agli organi i meno delicati, e i più imperfetti. Testimonio Pascal, morto di 39 anni, ed era già soggetto a una specie di pazzia. Testimonio Ermogene (…).[8]
La seconda occasione è invece datata 23 agosto 1823 ed è una riflessione sul nesso inscindibile tra grande intelligenza e grande immaginazione e sulle figure che da esso sono state interessate:
Fra gli antichi Platone, il più profondo, più vasto, più sublime filosofo di tutti essi antichi che ardì concepire un sistema il quale abbracciasse tutta l’esistenza, e rendesse ragione di tutta la natura, fu nel suo stile nelle sue invenzioni ec. così poeta come tutti sanno. V. il Fabric. in Platone. Fra’ moderni Cartesio, Pascal, quasi pazzo per la forza della fantasia sulla fine della sua vita; Rousseau, Mad. di Staël ec.[9]
In entrambi questi brani è presente un riferimento alla quasi-follia dell’autore dei Pensieri che, se da un lato si rifà al motivo voltairiano di Pascal come fou sublime, dall’altro trova evidenti corrispondenze con ciò che assai di frequente, e a scopo talvolta autocelebrativo, Leopardi dice di sé in vari luoghi dell’epistolario («So che sarò stimato pazzo, come so ancora che tutti li uomini grandi hanno avuto questo nome»).[10] Accanto a questo elemento comune va inoltre rilevato che, mentre nel primo brano ricompare il motivo del contrasto tra facoltà intellettuali e salute corporea, nel secondo Pascal viene presentato come uno degli esiti di quel connubio tra immaginazione e ragione su cui il grande recanatese rifletteva almeno dall’autunno del 1821.[11]
Certo, tutto questo non ci autorizza, a mio giudizio, a pensare che Leopardi abbia riconosciuto di avere un «rapporto privilegiato»[12] con Pascal, né tantomeno lascia pensare che il poeta della Ginestra abbia visto la propria personalità rispecchiata in toto in quella del genio francese. Quelle su cui ci siamo soffermati sono, infatti, menzioni significative ma di numero esiguo – tre in tutto lo Zibaldone! -, e del resto in nessuna di esse Pascal ottiene l’esclusiva, venendo anzi sempre citato all’interno di elenchi di nomi di personalità affini. Tuttavia questi brani segnalano, indubbiamente, un’alta considerazione dell’autore delle Provinciali da parte di Leopardi, che senz’altro ravvisava in lui una significativa prossimità morale e intellettuale.
La questione dell’Infinito
Potrà essere utile, in materia di “concordanze” tra Leopardi e Pascal, soffermarsi sulla questione dell’Infinito. Negli anni Trenta, indipendentemente l’uno dall’altro, Luigi Tonelli e Paul Arrighi[13] notarono, infatti, una significativa somiglianza tra le parole contenute tra il secondo emistichio del v. 7 e il primo emistichio del v. 8 dell’Infinito – «ove per poco / il cor non si spaura» – e «uno dei pensieri più conosciuti e più disperati di Pascal: “Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa».[14] Questo dato suggestionerà molto gli studiosi, al punto che Giuseppe Ungaretti arriverà a parlare di una «testuale traduzione della frase pascaliana»[15] e Leone Piccioni sottoscriverà la sua intuizione attribuendole addirittura un valore di novità («Ungaretti fu il primo ad accorgersene»).[16]
Si tratta di un’impressione sostanzialmente infondata. Come giustamente osservato da Giovanni Macchia, infatti, il frammento pascaliano in questione è stato pubblicato per la prima volta nel 1844 nell’edizione dei Pensieri curata da Faugère, e dunque Giacomo Leopardi – morto nel 1837 – non poteva averlo letto.[17] Appare assai più verosimile l’ipotesi di Sergio Sconocchia, secondo il quale la prossimità lessicale e semantica dei due testi tradisce una comune origine nel tema lucreziano del naufragio.[18]
Questo rilievo, tuttavia, non nega – e, anzi, avvalora – l’idea di una vicinanza concettuale tra i due pensatori. Che ci sia o meno Lucrezio a fare da punto d’incontro, infatti, è del tutto evidente che Leopardi ha inteso esprimere, quasi con le stesse parole, lo stesso thauma testimoniato da Pascal circa due secoli prima.
Ragione e immaginazione
Per ciò che concerne la presenza dei Pensieri nello Zibaldone c’è da rilevare che i primi due brani zibaldoniani in cui Leopardi fa menzione diretta del testo pascaliano risalgono all’autunno-inverno del 1820 e presentano molti elementi comuni.
Il primo è datato 15 novembre ed è, come si accennava in precedenza, un rimando a memoria; il secondo è del 7 dicembre e, invece, è una citazione testuale. Entrambi prendono spunto dalla lettura del Saggio sull’indifferenza in materia di religione del Lamennais – dal quale è peraltro tratta la seconda citazione pascaliana – ed entrambi tendono a problematizzare la funzione della ragione a tutto vantaggio dell’immaginazione, mostrando con ciò il permanere di elementi già presenti nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica e, dunque, provenienti da quello che Bonaventura Zumbini ha definito «pessimismo storico»[19] leopardiano.
Il 15 novembre Leopardi svolge infatti delle considerazioni sull’importanza dell’opinione nell’orientare la vita collettiva sottolineando come essa possa abbia molta più incidenza sia rispetto alla pura ragione che rispetto alle illusioni:
Quello che ho detto altrove della necessità di una persuasione per le grandi imprese, è applicabile soprattutto alla massa del popolo, e combina con quello che dice Pascal che l’opinione è la regina del mondo, e gli stati dei popoli e i loro cangiamenti, fasi, rovesciamenti provengono da lei. (…) il popolo ha bisogno di un’opinione decisa, non dico vera, ma pur logica, e apparentemente vera, in somma conseguente e ragionata, perché tutto il resto non può essere un movente universale.[20]
Il 7 dicembre, invece, il grande recanatese opera un’acuta problematizzazione delle tesi di Lamennais circa la natura della conoscenza affermando che, più che alla verità, gli uomini mirano alla felicità e che, dunque, occorre, in sede filosofica, relativizzare l’importanza della ragione in favore dell’immaginazione. In questo contesto il pensiero 438 di Pascal[21] gli torna utile per affermare che il dubbio, essendo una dimensione intermedia tra conoscenza e ignoranza, non conduce – come invece avrebbe voluto il Lamennais – all’indifferentismo abulico:
E quanto al dubbio, cagione principalissima d’indifferenza, lo stesso libro ch’io discuto reca un passo di Pascal, dove fra le altre cose (degne d’esser lette) si dice: conviene che ciascuno prenda il suo partito, e si collochi necessariamente o al dogmatismo o al pirronismo… Sostengo che non ha mai esistito un pirronista effettivo e perfetto. La natura sostiene la ragione impotente, e l’impedisce di delirare fino a questo punto… La natura confonde i pirronisti, e la ragione confonde i dogmatizzanti (vale a dire quelli che ammettono e sostengono delle opinioni come certe). (Pensées del Pascal, Ch. 21).[22]
Un atteggiamento simile denota una grande prossimità al pensiero pascaliano. Anche il pensatore francese, infatti, pur rivendicando la dignità del pensare, afferma che «ridere della filosofia è fare veramente filosofia» e che le attività umane derivano da un intreccio asimmetrico di razionalità e facoltà immaginativa:[23]
Chi volesse seguire solo la ragione sarebbe pazzo nel giudizio della maggior parte della gente. Bisogna, poiché ad essa è piaciuto, lavorare tutto il giorno per beni riconosciuti come immaginari; e quando il sonno ci ha ristorati dalle fatiche della nostra ragione, bisogna immantinente alzarsi di soprassalto per correre a inseguire le chimere e sottostare alle impressioni di questa padrona del mondo. – Ecco uno dei principi dell’errore, ma questo non è il solo. L’uomo ha avuto buona ragione a congiungere queste due potenze, benché in questa pace l’immaginazione abbia un’ampia superiorità, perché nella guerra essa l’ha molto di più; la ragione non domina mai completamente l’immaginazione, mentre l’immaginazione sovente fa sloggiare completamente la ragione dalla sua sede.[24]
A differenziare, tuttavia, le due prospettive ci sono la valutazione che i due pensatori offrono dell’immaginazione e, soprattutto, l’intenzione ultima delle loro riflessioni. Secondo Pascal, infatti, l’immaginazione è fonte di errore e sviamento («maestra d’errore e falsità»),[25] mentre per Leopardi è il miglior surrogato esistente dell’irraggiungibile felicità:
L’uomo non desidera di conoscere, ma di sentire infinitamente. Sentire infinitamente non può, se non colle facoltà mentali in qualche modo, ma principalmente coll’immaginazione, non colla scienza o cognizione, la quale anzi circoscrive gli oggetti, e quindi esclude l’infinito.[26]
Questa differenza è direttamente connessa all’assai divergente intenzione ultima delle rispettive riflessioni. La problematizzazione della ragione, per Pascal, è infatti funzionale a mettere in evidenza la misera condizione dell’uomo privato di Dio – e non per nulla queste considerazioni sono inserite in una sezione dei Pensieri appositamente intitolata L’uomo senza Dio e finalizzata, nel piano apologetico dell’autore, a giustificare le motivazioni della sua celebre «scommessa».[27] Leopardi, invece, nel mettere in questione la ragione appare del tutto estraneo a preoccupazioni religiose ed esprime, piuttosto, quella delusione storica provata dalle coscienze europee di fronte al fallimento dei progetti illuministici della Rivoluzione francese di cui Rousseau – autore non a caso molto letto e citato dal grande recanatese – è stato uno dei maggiori interpreti.
Uno schema analogo è applicabile al Leopardi che torna a citare Pascal il 12 febbraio e il 23 ottobre del 1828. In entrambi i casi, infatti, il poeta del Tramonto della luna cita il pensatore francese allo scopo di dare maggior forza alle sue considerazioni sulla miseria umana. Tuttavia, ancora una volta, il pensiero originario di Pascal nasce nel quadro di una riflessione religiosa del tutto estranea alla prospettiva leopardiana.
La citazione del 12 febbraio, proveniente dall’edizione Collin delle opere della marchesa de Lambert, cade nel contesto di una riproposizione della teoria del piacere e mira a evidenziare l’irraggiungibilità di una compiuta felicità:
E la felicità ed il piacere è sempre futuro, cioè non esistendo, nè potendo esistere realmente, esiste solo nel desiderio del vivente, e nella speranza, o aspettativa che ne segue. Le présent n’est jamais notre but; le passé et le présent sont nos moyens; le seul avenir est notre objet: ainsi nous ne vivons pas, mais nous espérons de vivre, dice Pascal.[28]
Il rimando del 23 ottobre, invece, proviene dalle Questions de littérature légale di Charles Nodier ed è un raffronto tra un pensiero di Pascal e una considerazione svolta da Michel de Montaigne nei suoi Essais:
Qu’on jette une poultre entre ces deux tours de Notre-Dame de Paris, d’une grosseur telle qu’il nous la fault à nous promener dessus, il n’y a sagesse philosophique de si grande fermeté qui puisse nous donner courage d’y marcher comme si elle estoit à terre. Montaigne, Essais, livre 2. chap. 12. Pascal (Pensées) si è appropriato questo pensiero. Le plus grand philosophe du monde, sur une planche plus large qu’il ne faut pour marcher à son ordinaire, s’il y avoit audessous un precipice, quoique sa raison le convainque de la sûreté, son imagination prévaudra. I funamboli fanno più ancora; ma ciò non distrugge la convenienza dell’osservazione soprascritta.[29]
Potrà essere utile notare – e su questo rimando agli studi condotti da Franco D’Intino –[30] che il nome di Montaigne, qui esplicitamente associato a quello di Blaise Pascal, compare anche nella sopra citata riflessione del 12 febbraio, nella quale leopardi aveva erroneamente attribuito il pensiero pascaliano al filosofo degli Essais, il cui nome era stato da lui cancellato in un secondo momento. Si tratta infatti di indicazioni interessanti soprattutto perché, se approfondite, potrebbero consentirci di ipotizzare l’esistenza di una linea Montaigne-Pascal-Leopardi potenzialmente foriera di nuove, feconde piste di lettura.[31]
Conclusione
Giunti al termine di questo discorso sembra possibile dire che Giacomo Leopardi dovette avvertire una prossimità con Blaise Pascal senza, però, considerarsi un suo discepolo. I rimandi alla sua personalità e alla sua opera, infatti, non presentano il carattere dell’esclusività e mostrano – soprattutto le citazioni dai Pensieri – un significativo grado di occasionalità, escludendo perciò un progetto organico di lettura e riuso delle riflessioni pascaliane.
Sul piano concettuale, tuttavia, le affinità sono innegabili e si collocano nel contesto di due pensatori “cosmici”, in grado di percepire con forza la miseria dell’uomo nell’universo. A separare le loro prospettive c’è, tuttavia, la componente religiosa. Pascal, infatti, riesce a trovare in Dio – ovvero in una ragione superiore – la salvezza dall’irrazionalità e dal caos che, altrimenti, coinciderebbero con la natura ultima delle cose; Leopardi, viceversa, è testimone, come scriverà nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, della «strage delle illusioni»,[32] ovvero del tracollo degli antichi valori che, nella coscienza europea dell’Otto-Novecento, produrrà il nichilismo.
Mi sembra dunque opportuno chiudere queste mie brevi considerazioni ricordando la felice intuizione di Adriano Tilgher, che nell’ormai lontano 1933 aveva acutamente osservato che «Leopardi guarda sì a Nietzsche. Ma con una delle sue facce soltanto. Con l’altra, guarda a Pascal».[33]
© Tommaso Di Brango
[1] Leopardi tiene un atteggiamento analogo anche in un pensiero del 26 maggio 1821. Dopo aver detto che la Francia non è «disposta per sua natura ad avere geni veri ed onnipotenti, e grandemente sovrastanti al resto degli uomini», infatti, il grande recanatese si premura di “ripescarne” alcuni: «Descartes, Pascal ec. ed altri tali, nessuno de’ quali appartiene propriamente alla provincia del genio, anzi a quelle cose che lo distruggono, cioè alle scienze, ed al vero, tanto più nemico del genio, quanto più profondo e riposto, benché non iscavato né scoperto, se non dal genio», in G. Leopardi, , Zibaldone, edizione diretta da L. Felici, Roma, Newton Compton editori, pp. 296-297. D’ora in poi Z.
[2] Z, pp. 160-161.
[3] Cfr. F. D’Intino-L. Maccioni, Leopardi: guida allo Zibaldone, Roma, Carocci editore, 2018, p. 84.
[4] Vedi G. Leopardi, Memorie e disegni letterari, in Id., Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone, a cura di L. Felici-E. Trevi, Roma, Newton Compton editori, 2010, pp. 1113 e 1122.
[5] Vedi G. Savoca, Leopardi e Pascal: tra (auto)ritratto e infinito, in Id. Leopardi. Profilo e studi, Firenze, Olschki editore, 2009, p. 271.
[6] Z, p. 125.
[7] Z, p. 107.
[8] Z, p. 317.
[9] Z, p. 682.
[10] G. Leopardi, Lettera a Monaldo Leopardi di fine luglio 1819, in Id., Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone, p. 1186.
[11] Vedi G. Leopardi, Indice del mio “Zibaldone”, voce Immaginazione, quanto serva al filosofare, in Z, p. 1015.
[12] V. Vettori, L’antiprogressismo «progressivo» di Giacomo Leopardi, in Aa.Vv., Il pensiero storico e politico di Giacomo Leopardi, Atti del VI Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati, 9-11 settembre 1984), Firenze, Olschki editore, 1989, p. 586.
[13] L. Tonelli, Leopardi, Milano, Corbaccio, 1937; P. Arrighi, Leopardi et Pascal. Note sur «L’Infinito», in «Revue de Littérature Comparée», Parigi, 1938.
[14] P. Arrighi, citato in G. Savoca, op. cit., p. 257.
[15] G. Ungaretti, Secondo discorso su Leopardi, in Id., Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a cura di M. Diacono-L. Rebay, Milano, Mondadori, 1974, p. 964.
[16] G. Ungaretti, Lezioni su Giacomo Leopardi, a cura di M. Diacono-P. Montefoschi, saggio introduttivo di L. Piccioni, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1989, p. 10.
[17] G. Macchia, Saggi italiani, Milano, Mondadori, 1983.
[18] Vedi S. Sconocchia, Ancora su Leopardi e Lucrezio, in Leopardi e noi. La vertigine cosmica, a cura di A. Frattini-G. Galeazzi-S. Sconocchia, Roma, Studium, 1990.
[19] B. Zumbini, Studi sul Leopardi, Firenze, Barbèra, 1902-1904, 2 voll., I 1902, p. 173.
[20] Z, p. 151.
[21] Per la numerazione delle pensées seguo B. Pascal, Pensieri, a cura di A. Bausola, Milano, Bompiani, 2000.
[22] Z, p. 162.
[23] Per approfondimenti vedi O. Todisco, Il carattere concupiscenziale della ragione occidentale – Pascal e le ragioni che la ragione non intende, in Id., Il dono dell’essere – Sentieri inesplorati del medioevo francescano, Padova, Edizioni Messaggero, 2006.
[24] Ibidem, p. 83.
[25] Ibidem, p. 79.
[26] Z, p. 163.
[27] Per approfondimenti vedi A. Bausola, Introduzione a Pascal, Roma-Bari, Laterza, 1986; G. M. Tortolone, Invito al pensiero di Pascal, Milano, Mursia, 1998.
[28] Z, p. 211.
[29] Z, pp. 971-972.
[30] Vedi F. D’Intino, Leopardi sulle tracce di Montaigne, in «Quaderns d’Italià», 2017, https://revistes.uab.cat/quadernsitalia/article/view/v22-dintino; Id., Il funambolo sul precipizio. Leopardi verso Montaigne, in «Critica del testo», 2017, https://www.viella.it/rivista/9788867289301/4028.
[31] Sui rapporti tra Montaigne e Pascal vedi S. Backewell, Montaigne. L’arte di vivere, Roma, Fazi editore, 2011.
[32] G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, edizione diretta da M. A. Rigoni, testo critico di M. Dondero, commento di R. Melchiori, Milano, Rizzoli, 1998.
[33] A. Tilgher, Leopardi filosofo, in Id., La filosofia di Giacomo Leopardi, Torino, Aragno editore, 2018, p. 147.