In una poesia – in ogni poesia – si scopre sempre un verso capace di imprimersi nella mente del lettore con particolare singolarità e immediatezza. Pur amando una poesia nella sua totalità, il lettore troverà un verso cui si legherà la sua coscienza e che lo accompagnerà nella memoria; il verso sarà soggettivato e anche quando la percezione della poesia cambierà nel tempo, la memoria del verso ne resterà quasi immutata (o almeno si spera). Pertanto nel nostro contenitore mentale conserviamo tanti versi, estrapolati da poesie lette in precedenza, riportati, con un meccanismo proustiano, alla superficie attraverso un gesto, un profumo, un sapore, contribuendo in tal senso a far emergere il momento epifanico per eccellenza. Perché ispirarsi alle bustine di zucchero? Nei bar è ormai abitudine zuccherare un caffè con le bustine monodose che riportano spesso una citazione. Per un puro atto spontaneo, non si va a pescare la bustina con la citazione che faccia al proprio caso, è innaturale; si preferisce allora fare affidamento all’azzardo per scoprire la ‘frase del giorno’ a noi riservata. Alla stessa maniera, quando alcuni versi risalgono in un balenio alla nostra coscienza, non li prendiamo preventivamente dal cassettino della memoria. Sono loro a riaffiorare, da un punto remoto, nella loro imprevista e spontanea vividezza. (D.Z.)
Dire, in generale, il senso della poesia non è facile. Ancor meno spiegarlo. E quando si tenta di spiegarlo, come le vele di una nave, cercando di trovare nei segni delle pieghe una parte del discorso, un suo significato “apocrifo”, ecco accorrere il simbolo e la metafora che, se da un lato lasceranno intravedere la crepa da dove passa la luce, dall’altro formuleranno un nuovo mistero. Allora, in vista di quest’altro senso nascosto, avremo bisogno di un ulteriore percorso per farne scaturire un’altra illuminazione, e così via in un processo senza fine che procede di testo in testo. Il testo, Barthes insegna, è “incriminato” di essere infinito proprio per il movimento fluido delle parole sotto le lettere statiche, perché esprime l’impossibilità di vivere al di fuori di esso, perché sta in continua risonanza con altri. Non a caso lo strutturalista francese prende, a modello del meccanismo citato, l’esempio del dizionario: parole spiegate con altre parole in un moto vertiginoso e irriducibile. Alla stessa maniera, portando la chiave di lettura in ambito poetico, non esiste un poema assoluto, in sé perfetto – ce lo ricorda Celan nel discorso al Premio Büchner – bensì poemi che ricercano l’assolutezza e s’incrociano in una fitta rete di mutui richiami. La poesia si sviluppa quindi in uno spazio, un luogo vero ma virtuale, forma una strada fatta di sapienza e sentimento: è un meridiano – l’unica certezza di cui si dispone, una linea per tracciare un cammino. La scrittura di Ingeborg Bachmann ritrova affinità con la formulazione di Celan. I versi della poetessa si accendono e partono verso l’infinito, il nascosto; partenza non concepita come una pretesa, ma un’avventura sostenuta da un «intelletto lirico» (Mandalari, Mittner) con un linguaggio terso, archetipico, che tiene dialetticamente insieme i poli della ragione e del sentimento. Il discorso bachmanniano si avvia con un monito («Non varcare le nostre labbra» e, di seguito, «Non raggiungere le nostre orecchie») e si conclude con una preghiera («O mia parola, salvami!»), eppure l’autrice vuole al tempo stesso dare salvezza alla parola. La sua diventa denuncia e condanna di un presente storico inumano in cui «l’aria è soffocante»; la poetessa si brucia la mano perché narra l’esistenza del mondo, e lo fa invocando una parola non degradata, non una parola «per immolare uno stolto», ma una parola di speranza, dal suono e dal timbro puliti, specchio fulgido, chiaro e libero per riflettere un tempo, presente ed eterno, e una mistica del linguaggio nel tentativo di dire l’indicibile.
Una replica a “Bustine di zucchero #21: Ingeborg Bachmann”
L’ha ripubblicato su Matteo Mario Vecchio.
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