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“Anamorfiche”: Intervista a Danilo Mandolini di Gianluca Garrapa

Danilo Mandolini, Anamorfiche – con nove immagini dell’autore, Arcipelago Itaca (2018)

Gianluca Garrapa: con nove immagini dell’autore: secondo quale criterio le immagini sono alternate alle parole?

Danilo Mandolini: Va innanzitutto specificato che le immagini riprodotte nel volume sono dei ritagli di scatti fotografici tendenzialmente molto più grandi. Le immagini sono collegate alla presenza umana nel mondo (sono testimonianze marginali della presenza umana nel mondo) anche se, in queste, non vi è traccia diretta della presenza umana. Le riproduzioni fotografiche in questione sono collocate nel lavoro con l’obiettivo di introdurre le varie e principali parti di questo.

G.G.: La raccolta si apre altrove, quasi a preambolo a forma di fine, il poeta, pare, debba uscire di scena per dare peso e voce alle parole. Non è un caso, forse, che la prima parte sia di oggetti sonori immateriali, oggetti in-sterni, interni e allo stesso tempo esterni: appartengono all’oggetto e al soggetto e non appartengono all’oggetto o al soggetto che li produce: rumori, voci e suoni. Il loro statuto è proprio quello delle immagini: della cosa abbiamo un’immagine e l’immagine non è più della cosa ma è fissazione di sguardo. E lo sguardo, a sua volta, non appartiene propriamente all’occhio da cui genera la visione. Il vuoto / non si vede ma / spesso si sente. // Il vuoto / ha più voci ma / è trasparente.
Sono, in esergo, tre nomi, Pasolini, Sereni, Campana, preceduti da un’immagine. Il vuoto, dunque, quel che si sente invisibile o quel che si vede, confuso, ma indistinguibile.
L’invisibile, meglio, il trasparente, è quel che sposta e muove, il vento: dal vento provocati / (nel vento custoditi / a mo’ di sedimenti / d’un tempo residuale). Sembra questo il luogo in cui si collocano i simboli e le immagini di Mandolini: la nitidezza che segue all’evacuazione dell’io, il resto che rimane quando il desiderante prende l’abbrivio finalmente: come oggetti il cui scontro produca un suono o un noise, le parole si accostano in timbriche e cromi che non egolatrano lo scrivente. Chi scrive è avventato, sicuro, spostato dal vento interno, animus come soffio. Patisce dell’inevitabile. E non si autoriferisce, si allarga al mondo, anzi. L’operazione è proprio psichedelica, come recita il titolo della prima parte, che ritorna nella seconda parte, Psichedelie dei rumori, delle voci e dei suoni: un lavoro che si legge di scorcio, anamorfico è appunto il gesto per cui la lettura fa il dire dietro l’ombra. Lampi interiori che presentano il mondo: l’ombra è il prolungamento sonoro delle cose, la voce silenziosa del loro sparire: la morte: è il segnale di quel che è vivo. È questa un’epifania che si compie nel gesto quotidiano di spostare appendiabiti: Provocano il suono / disarmonico dell’utopia, gli appendiabiti, e sfiorarli a mo’ di campane tubolari mentre fuori piove. Il suono, il dolore, l’odore della pioggia: Intanto, fuori, / la pioggia rimbomba cadendo, i piatti impilati, l’alta tensione che blocca in riquadri di cielo la percezione di vedere dall’alto le auto sfrecciare, la voce della segreteria telefonica. Il senso quotidiano ritorna straniero: basta spostare l’attenzione per percepire in suoni nuovi l’intera fenomenologia del quotidiano.
Anche il silenzio è partecipe delle forme assenti in quanto presenti, tra due palazzi il varco si apre a catturare le voci altrui che ci appartengono: Con frasi altrui / valichiamo frontiere, attraversiamo i tempi delle giornata, gli interstizi tra rumori e silenzi, lungo i bordi delle cose cangianti, e le cose sono anche l’esistenza che ci attraversa e sfuma: Ordinaria metafisica / del supporsi altrove / è il solo desiderare / l’esistenza di quel soffio afono / che genera le nubi;
dicono tutto questi versi estratti dal dettato di Mandolini: siamo qui, nel quotidiano, per questo siamo altrove. Perché troppo fragile appare il sentiero che porta dall’altra parte, nella fine dei giorni, sottile e muto come una ragnatela. Di noi resteranno immagini, le minime percezioni svaniranno e le cose avranno quella loro psicometria, la memoria, gli oggetti solo a testimoniare, fossili, soltanto gli oggetti che in vita / con cura / abbiamo / a lungo conservato.
Immagine. Poi Psichedelie dei rumori, delle voci e dei suoni Due, ritorna: il ritorno è presente in questo paesaggio fono e foto grafico. Ritornano 7×12: dodici settenari. 7×12: quasi a prendere le misure di una forma che dovrà contenere il suono. I suoni a rifare il ricordo: (si sta come sui rami / degl’alberi d’inverno): che rapporto hai con la tradizione poetica e perché hai eletto proprio Pasolini, Sereni e Campana, tra altri, a compagni di viaggio?

 

D.M.: Ho letto e leggo moltissimo soprattutto poesia di autori del novecento italiano ed europeo e contemporanei. Le mie esperienze di studio e lavorative, a parte quella attuale di titolare di una casa editrice che si occupa esclusivamente di poesia, si sono sempre concretizzate lontano dal mondo della letteratura. Sarei quindi, a tutti gli effetti, il cosiddetto e classico autodidatta che approccia ciò che legge in primis come lettore, vorace e anche disordinato, piuttosto che come studioso. Pasolini, Sereni e Campana sono stati dei grandissimi autori del “secolo breve” italiano; tre grandi autori il cui percorso di ricerca in versi si è imposto alla mia attenzione anche per le vicende personali che hanno contraddistinto il loro essere stai al mondo. 

 

G.G.: Mandolini ricorda la storia, il passato in cui i soggetti erano prigioni, oggetti nelle mani di uomini. E questo è un breve accenno a quella quotidianità che si fa episodio e sguardo epico che fuoriesce dal corpo. Interessante il modo d’intrecciare passato e presente, la manifestazione di sé stessi passa dallo sguardo degli altri, momentaneamente speculare, per brevi tratti, attimi in cui ci si vede: ci guardano muoverci, / ci osservano esistere / col brusio in sottofondo e / senza saperlo. È notevole, nelle mani di un poeta, questo disfacimento del narcisismo a favore di una visione più ampia del mondo, del suo trascorrere. Letteralmente: il mondo gira, torna, a ricordarci che non tutto gira e non tutto torna, sebbene resti nella memoria: Rammento sovente di quando / le trasmissioni tivù cessavano / in un sibilo prolungato / o in un interminabile fruscio. In quella memoria di suoni: l’oggetto-voce che ci fa non mai dimenticare. Il ronzio, la voce dell’altoparlante, voce e respiro e tempesta. Tutto, il passato presente futuro, sembra ridursi a un borbottio, un punto sonoro. Un punto che fuoriesce dal vuoto e al vuoto torna, risucchiato nel buco nero: Non porterò niente né / nessuno quando verrò / inghiottito nel buco nero / disposto per me: è solo una suggestione poetica?

 

D.M.: Si tratta certamente di più di una suggestione; direi quasi di un’ossessione. Investigare il silenzio – il vuoto (il nulla?) – che immagino segue e anche precede ed accompagna l’esistenza di ognuno è materia imprescindibile del mio fare poesia. Mi piace anche, però, congetturare in merito al fatto che di ognuno di noi possa alla fine rimanere qualche minima testimonianza proprio del suono delle parole pronunciate e, perché no, dell’esiguo rumore dei silenzi vissuti.

 

G.G.: [(«…l’unica scelta possibile per la sopravvivenza del genere umano pare dunque essere quella di abbandonare la terra ‒ un giorno forse non troppo lontano ‒ con l’obiettivo di colonizzare un altro pianeta»): si apre la terza parte e richiama il buco nero della precedente. Il libro sembra in verità un viaggio che dalla stanza, alla città, al parco, al cielo, ci conduce altrove, in dimensioni extraterrestri.

Parlaci come si parla a chi è senza sguardo: la tua sembra una scelta di campo, far vedere le cose risuonare, più che descriverle, più che parlare del tuo sentire. Ce ne parli?

 

D.M.: Direi che in ANAMORFICHE mi sono imposto proprio di cercare di rappresentare le “voci”, umane e non, e i silenzi che ho visto concretizzarsi nel mio più routinario quotidiano. In questa scelta credo risieda il desiderio di esprimere una poesia quanto più possibile lontana dall’ “io” di chi scrive e che per questo, se così si può affermare, risulti dotata di un forte e condivisibile valore testimoniale nei confronti del lettore. In questo stesso contesto credo si collochi la decisione di sistemare tra i versi i molti inserti provenienti da internet e, appunto, dal vissuto di tutti i giorni – di fatto comune ai più.

      

G.G.: Crocivia (quindici blasfemie in loop): in questa zona della scrittura, di laica preghiera, pagana invocazione, dove nonostante tutto appare in ombra la presenza di un qualche dio pur nel gioco e giogo di parola che fa della croce un crocicchio, ambiguo crocevia: [mio dio noi / ci pentiamo e ci dogliamo con tutto il cuore/ dei nostri peccati, perché… Perché abbiamo peccato ma / tu… Tu dichiarati, manifestati, pronunciati,  in questo lungo scritto quel che percuote lo sguardo è la disposizione dei versi, alternati a frasi che descrivono alcune stazioni della via Crucis. La forma in diagonale di questi rettangoli versificati, meglio, come scrivi tu: Le vedi, / ovunque, le bandiere capovolte? Come mai ha scelto di dare forma, questa forma, alle parole? E che rapporto ha, secondo te, la poesia, liturgia della parola, con il sacro?

 

D.M.: La “forma” data ai versi della sezione CROCIVIA (quindici blasfemie in loop) viene dal tentativo di riprodurre graficamente proprio l’effetto del loop del sottotitolo e del procedere in qualche modo circolare, reiterante ed incalzante del relativo versificare.

Esistono molti punti di contatto, molte possibili vicinanze, tra la poesia ed il sacro. La più rilevante di queste contiguità, a mio avviso, è che sia la poesia – come anche tutte le altre forme di espressione artistica – che il sacro si interrogano costantemente in merito al profondo mistero del vivere. Mi piace pensare, infine, a proposito di quanto da me appena affermato, che l’interrogarsi in questione non arrivi mai ad ottenere risposte.

G.G.: Le nove bizzarrie impoetiche dell’ Offertorio speciale celebrano la Messa infinita del dio denaro mangione: Il volantino periodico / delle offerte EXPERT / («Gli esperti siamo noi!»): l’indigestione dello spettacolo alimentare. È noto come nei supermercati, a esempio, la musica sia onnipresente e pressante e finalizzata all’acquisto e non all’ascolto. C’è il tempo eterno delle compere: ogni cosa, per tutti, / da LIDL / non ha mai fine. Qui, il paradiso in terra, la morte in vita del mercato, forse. E la poesia si fa testimone, imparziale, ironica ma solo per effetto e non per intenzione. La poesia riabilita il significato delle parole che il commercio deforma: Da EURONICS scrivono: / «Il cliente è nel suo regno». / Un regno… Ma ci pensi?// («Nazione a regime monarchico» / asserisce il dizionario). L’immagine immateriale delle parole: è questo il fine della poesia?

D.M.: Mi attrae l’espressione “L’immagine immateriale delle parole” che hai usato… In un certo senso è come dichiari tu. La poesia, quando è grande, disquisisce in merito a ciò che a molti può apparire come “minimo” e marginale (appunto “immateriale”), racconta di ciò che le dinamiche del nostro vivere quotidiano di oggi, votato soprattutto al profitto ad ogni costo, ci obbligano a non vedere e a non considerare.

 

G.G.: Ho così tante parole raccolte / in freezer, conservate lì assieme / a tranci spessi di polvere.: Dare una materia all’effimero, vivere di una propria morte. È questo forse il meccanismo creativo e rituale anti-capitalistico per eccellenza? Dissipare senza consumare, dilapidare suoni?

 

D.M.: Per quanto appena sostenuto, fare poesia o occuparsi di poesia oggi è, o almeno potrebbe essere, una delle modalità – certo non l’unica – da opporre al dilagante e disumanizzante, nonché decadente, modello e stile di vita imperante presso le società del nostro mondo occidentale e ormai non solo.  

G.G.: Dell’esistere della luce / (o della luce dell’esistere): l’ultima spazialità della raccolta conclude un viaggio che sembra condurci oltre il gioco delle parole e della vita, oltre la luce che ci ha visti nascere e che abbiamo visto nascere insieme a noi, luce è suono: è questione di frequenze, di ritorni (ritorna il ritorno spesso in questa raccolta), vita e morte sono assonanze, altro e oltre: (…il maglio della vita, / il meglio della vita / che nella morte muore / pensando d’esser altro) scrivi nella terza raccolta di settenari (7×16, questa volta): credi ci sia poesia dopo la morte? «QUALCUNO SA DIRMI COS’È LA MORTE?».

 

D.M.: Credo che la poesia accompagnerà sempre l’esistenza dell’uomo. Ogni singolo poeta di valore lascia e lascerà sempre in eredità al mondo il proprio percorso di ricerca in versi. Sarebbe in ogni caso davvero interessante – in quest’epoca di egocentrismo e narcisismo spinti oltre ogni limite – riuscire a guardare concretamente alla poesia come ad un patrimonio della collettività umana. Sulla scorta di questa riflessione potrei azzardare l’affermazione che segue e cioè che, sì, potrà non esserci più poesia dopo la morte, dopo l’estinzione della specie umana.