– Nie wieder Zensur in der Kunst –
Qualche anno fa scrissi una recensione per Luí (Einaudi editore, 2003) di Giancarlo Consonni, una raccolta di poesie in cui si percepiva acutamente lo stridore, l’urto della civiltà urbanizzata a detrimento della secolare e indifesa natura. Ricordo le immagini perturbanti (ad esempio, l’iguana venduta in un negozio della metropoli milanese) e la malinconia che portavano con sé e suscitavano proprio per le loro incongruenze, anche se erano lo specchio di un gusto ormai generalizzato e rispondente agli strumenti mediatici che ci fanno apparire vicino ciò che è lontano. Nella raccolta Quetzal (Il Ponte del Sale, 2019) di Luigi Bressan ad avvicinare il passato al presente, i luoghi di ieri a quelli che ora ci sono più prossimi, è invece la memoria e una vivida immaginazione. All’origine di ogni testo c’è un uccello o una schiera di uccelli (gabbiani, colombi, storni, eccetera) e va detto subito, anche se può apparire un accostamento un po’ arbitrario, che le immagini tratteggiate da Quetzal, per lo più riconducibili a un territorio circoscritto e delimitato, contengono in sé elementi plastici e rimandano a certe atmosfere che riportano all’occhio della mente alcune opere dell’artista americano Edward Hopper; Cape Code Evening (Sera a Cape Code), tanto per dire, opera in cui è ravvisabile una vegetazione che travalica i confini abituali e minaccia di usurpazione ogni altra cosa; oppure Early Sunday Morning (Domenica mattina presto), dove l’artista americano si sofferma a mostrare e dipinge l’avanzare dei palazzi moderni che minacciano le case più vecchie. Ecco, ci sembra che l’invasione sia una delle chiavi principali per interpretare la narrazione (in versi) sottesa a Quetzal. Di certo, è all’interno di un paesaggio in cui il rapporto tra uomo e natura non è più razionale e rispettoso, per quanto siano presenti toccanti eccezioni di segno opposto, quello in cui respirano, fischiano e volano gli uccelli di Luigi Bressan. Al tempo stesso, passeri, gabbiani, cornacchie si presentano come entità antropomorfe, animali in cui sono stati travasati sentimenti e tratti che appartengono a una specie umana ‒ se così si può dire – in cui è ancora vivo il dialogo orante fatto di gratuità e responsabilità. In fondo, gli uccelli di Luigi Bressan sono un’incarnazione dell’altro, cioè del prossimo come portatore di un’ordine e di un’obbligazione non solo nei confronti degli altri esseri umani, ma anche di tutte le cose create da Dio. In questo senso, il poeta ritesse i fili di una tradizione scomparsa e lontana, come quando un uomo ormai vedovo si ritrova faccia a faccia con la moglie defunta, una moglie che ora ha le sembianze di una civetta e che, dopo avere ripreso posto in lui, risveglia un’affettuosità che si era assopita da tempo immemorabile (Chiuse la porta e depose sul letto/ la cara bestiola con ali spante/ la vegliò per tutta la notte/ la vegliò con tutto il suo amore).
Fortunatamente, Quetzal è qualcosa di più dello scontato e civile sfogo indignato e contestatario, perché privilegia (per lo più) toni che hanno un andamento colloquiale e che al tempo stesso riecheggiano i versi delle creature di cui parla, uccelli che ben poco possono opporre all’invasione e all’usurpazione operate dall’uomo. Anzi, è la loro natura indifesa e quasi ridotta al silenzio, in nome di non si sa quale inderogabile necessità, quella a cui Luigi Bressan porge il capo e a cui dà voce. Ed è proprio questa, al di là delle immagini scrupolosamente prodotte e amorevolmente cesellate, ciò che più colpisce: il ru-ru del colombo, il cra-cra della cornacchia, il chiù-chiù dell’assiolo, eccetera. Forse siamo già a un punto di non ritorno e si è detto “ciò che più colpisce”, perché non si può negare che i nostri cieli sono sempre più vuoti di volatili e finanche il canto del merlo ‒ che si è adattato all’incessante e frenetica trasformazione del paesaggio ‒ risulta ormai irriconoscibile e incomprensibile, come quando la ragione viene meno e si comincia a delirare o a gettare immagini di privazione nella fornace della sofferenza (Adesso assomiglia a una donna abbandonata/ la fabbrica – scrive Luigi Bressan – arresa alla sterpaglia/ inalbera i camini eleva isole di cicogne/ sulla foschia battuta dalle loro cannule/ volteggiano e calano gelosie sui nidi/ torcono i colli al cavo dell’aria/ beccano le penne del dolore). Naturalmente, una cosa del genere è sintomatica di una confusione generale e della brutale cessazione di un dialogo che si è tradotta in una sostanziale perdita di preoccupazione (disinteressata) per l’altro. Non credo ci siano motivi sufficienti a legittimare questa indifferenza e Quetzal, nel mettere in primo piano gli uccelli e dando loro il rilievo che meritano, ci invita a ripensare e rivedere i nostri stili di vita, a decentrarci e mettere in discussione il nostro posto al sole, in modo che non sia l’immagine e la giustificazione antropocentrica dell’usurpazione di tutta la terra.
© Renzo Favaron
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