Il trentesimo anno di Ingeborg Bachmann.
Vedere con occhi felici
Nella Roma del 1956 si incontra o confluisce solo parallelamente un tripudio artistico di vite simile a pochi altri nella storia. In Via Veneto Flaiano, a un tavolo del Caffè Strega, scrive l’articolo che sarà pubblicato il giorno dopo su «Il Mondo», annota qualche osservazione, butta giù ritratti di vita quotidiana. Non lontano è seduto il poeta Cardarelli, che ha scelto Via Veneto per i suoi ultimi anni di vita. Il fermento politico di una Repubblica ancora giovane si fa sentire nella capitale attraverso le grandi inchieste dell’«Europeo» e l’«Espresso», che gridano alla libertà di stampa e appoggiano i nuovi partiti. È la Roma città aperta di Rossellini che sta passando il testimone nelle mani di La dolce vita di Fellini, un set cinematografico che ha conquistato Hollywood, ora trapiantato nella capitale italiana. In Via dei Condotti, al Caffè Greco De Chirico siede da combattente solitario avvolto da un’atmosfera metafisica, come saprà raffigurarlo un ventennio più tardi Renato Guttuso.
In Piazza della Quercia, a pochi passi da Campo de’ Fiori, Ingeborg Bachmann trascorre il suo trentesimo anno. L’arrivo in Italia nel 1953 è l’atto di superamento dei confini, la conseguenza di un’inquietudine intellettuale e morale che nasce dagli anni dell’adolescenza. La Carinzia, terra d’infanzia abbandonata dopo i diciotto anni, ha già lasciato in lei tutte le ferite che la scrittura e la vita faranno riemergere; l’assassinio nell’orrore della guerra, il disorientamento per la vicinanza a tre culture e tre lingue diverse, il desiderio di liberazione dalle ideologie naziste. Proprio in questi anni trascorsi durante il periodo della Prima Repubblica nasce nella Bachmann il tema dei confini – geografici, linguistici, culturali – e la necessità di oltrepassarli. Il progressivo allontanamento dai confini carinziani si ha a partire dagli spostamenti, per studiare, a Innsbruck e Graz, per poi terminare l’Università con la laurea in filosofia nella città dove tutte le aspettative confluiscono, Vienna. Bisogna comprendere l’entusiasmo giovanile e illusorio di una studentessa che arriva in una grande capitale nel secondo dopoguerra, desiderosa di conoscere e affermarsi. Tuttavia la Vienna del 1946, quando arriva la Bachmann, è una città distrutta dai bombardamenti, dominata da miseria e da una politica che ancora mira a occultare le proprie responsabilità nell’avvento del nazismo. Anche a Vienna dunque la Bachmann ritrova quei confini che non le permettono di rimanere. Quando lascia la capitale per l’Italia ha in mente solo un viaggio di qualche mese e sarà invece l’inizio di tre anni di grande maturazione che la separano dal suo trentesimo anno, il 1956 appunto. Gli occhi della Bachmann cercano una verità universale che non appartiene a alcun luogo e il suo nomadismo non è spirito avventuriero ma piuttosto ricerca di una risposta all’implacabile domanda di “Che ci faccio qui?”.
Il trentesimo anno è la prima raccolta di racconti pubblicata, quella che segna il decisivo passaggio dalla poesia alla prosa. Con questo lavoro autobiografico ripercorre le tappe del passato alle porte del suo trentesimo anno. Il racconto che dà il titolo alla raccolta però non appartiene al passato; si può piuttosto parlare di un’iniziazione alla vita. Qui il protagonista senza nome sente che è giunto il momento di un particolare raccoglimento per capire chi è stato. È sconvolgente rendersi conto che non è stato affatto; il piano su cui si gioca il racconto non è dunque diventare adulti o più maturi ma iniziare a esistere. «Si è messo in moto un processo distruttivo», si dice, che avverrà su più livelli. Distruggere le menzogne attorno a sé è un gioco di sguardi, significa vedere e non più guardare, per rivelare le cose come sono. Solo con “Occhi felici”, per citare un’espressione che la Bachmann prende in prestito da Goethe (Occhi felici è il titolo di un racconto comparso per la prima volta in Italia in Adelphiana 1971, poi in Tre sentieri per il lago), si vedono misfatti, più che fatti, e si deve sopportare la sofferenza di cui gli altri nemmeno si accorgono. Con occhi felici incontra il vecchio amico Moll, che non è mai stato un amico perché ha sempre usato la violenza per rapportarsi con le persone. Poi incontra Elena, un vecchio amore, e solo ora si accorge che la colpa provata nei suoi confronti era menzogna di qualcosa di ben più grave: «La mia disperazione mi ha mal consigliato. Ma ora mi consiglia ancora peggio la chiarezza con cui vedo le cose. Mi sento raggelare. Avrei preferito tenermi la colpa». La forza che sta agendo è un tritatutto senza tregua che comporta uno sforzo ai limiti della sopportazione.
Ancora più difficile è vedere se stessi con occhi felici e distruggersi tanto da non far rimanere più nulla. Bisogna riconoscersi vermi, sfruttatori e maltrattati, che nulla possono di fronte alla potenza del mondo per riuscire a vedersi dalla prospettiva giusta… Solo «quando pagate davvero con la vostra vita, lo fate al di là dei cancelli, dopo aver detto addio a tutto ciò che amavate», si legge nel testo, allora «prendete la vostra strada, iniziate il vostro viaggio, da una tappa immaginaria all’altra, eterni viaggiatori ai quali non importa arrivare». Non c’è nessuna meta da raggiungere infatti perché tutto è stato distrutto e nel caos ognuno deve farsi luce da solo.
Ingeborg Bachmann, come il personaggio del racconto, ha il coraggio di vedere le atrocità della vita, incamminatasi in una via tortuosa da cui poi non ne è uscita viva. Ma, sebbene la sua opera sia rimasta inconclusa e la sua vita si sia spenta prima del previsto, in questo racconto si trova il riscatto di un tentativo che, anche se solo in parte, anche se solo per un momento, ha trovato realizzazione. È il suo Sì alla vita.
Ma io vivo!
Presto sarà guarito.
Presto compirà trent’anni. Quel giorno verrà, ma nessuno suonerà il gong per annunciarlo. No, quel giorno non verrà – esso era già presente, contenuto in tutti i giorni di quell’anno che lui ha superato con estrema fatica. È tutto preso dall’anno che verrà, pensa a un lavoro e si augura di poter presto uscire da quel cancello, laggiù per andar via dagli infortunati, dai malati, dai moribondi.
Ti dico: Alzati e cammina! Non hai un solo osso rotto.
(Il trentesimo anno, Adelphi, 2006; trad. di Magda Olivetti)
© Sara Vergari
Letteratura critica in italiano
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Una replica a “Sara Vergari, Il trentesimo anno di Ingeborg Bachmann”
L’ha ripubblicato su Matteo Mario Vecchio.
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