Martina Campi, Quasi radiante
Un libro doloroso, un libro che fa bene. Si sta meglio dopo la lettura di Quasi radiante (Tempo al Libro, 2019, con prefazione di Fabio Michieli e postfazione di Sonia Caporossi). E ciò accade sia per le misteriose magie della poesia, che non mi azzardo a sminuire sovrapponendovi il mio commento, sia perché Martina Campi ha il dono di una purezza del sentire e del dire per cui ogni sofferenza contiene già la sua catarsi. Il percorso di Quasi radiante potrebbe essere sintetizzato così: se Nadia Campana procedeva “verso la mente”, Martina Campi si muove verso il corpo, verso la sensibilità e le sensazioni: non per autobiografismo narcisistico, ma perché la mente sembra aver fallito la sua presa sul contemporaneo, perché l’intelletto non è abbastanza a rendere più umana la contemporaneità, perché «ci vuole anche il sudore per ritrovare il proprio posto sotto il patio e poi ore di silenzio, per averne la certezza; quella che non illude ma illumina lo stomaco e ha già aperto le mani»; perché occorre l’apporto della sensibilità e della dimensione sensoriale per riscoprire i benefici della comunicazione e dell’empatia.
Comunicare se ne va da noi,
qui ci fermiamo con le bandiere abbassate
alla chiarificazione arida come le sponde
all’indietro su bicchieri tenuti
con i gesti antichi dell’abitudine.
Scrive Fabio Michieli nella Prefazione che il discorso dell’autrice «assume i contorni di una confessione e i tratti di una preghiera laica al contempo, scandite in sequenze di tre componimenti introdotti, o anticipati se si preferisce, da una sorta di breve prosa poetica, un ‘argomento’ diremmo se trattassimo del primo Dante; un’architettura solida a cui fa da contraltare (paradossalmente) una sintassi frammentata, franta, disgregata, nella quale agiscono forze di rottura con la tradizionale struttura della frase (frequenti, per esempio, le dislocazioni a destra), ‘quasi’ a voler marcare il territorio cedevole, caduco, indeterminato, della parola che tenta di costruire il pensiero, catturarlo, proprio nel momento in cui ascende; e questo perché la poesia ha bisogno principalmente di interrogare il linguaggio per poter interrogare le cose, poiché ‘la parola poetica – ci dice Guglielmi – resta più che mai una parola improbabile in un mondo retto dalla necessità’».
Immersa – ed è fatto nuovo nella poesia di Martina – nel paesaggio urbano, la parola si smarrisce nei labirinti delle vie come in quelli della sintassi, procede nel vuoto lasciato da una tradizione umanistica ed estetica che è scomparsa («Le strade più sicure/ erano i sentieri segnati/ dal tempo, ora insabbiati»), rivolge lo sguardo sbigottito «al niente che la bussola/ non saprebbe orientare», intona purissimi versi contemplativi – quasi haiku – e inquietanti propositi di suicidio e di annullamento, cammina fra incubi di automobili che l’io poetico invano cerca di mutare in più rassicuranti visioni di navi e di porti, rilascia dichiarazioni d’intenti come quella di voler parlare la lingua delle foglie –in una fuga dalla verbosità del contemporaneo e nel tentativo di ritrovare una lingua pura – e si lancia in liberatorie danze rituali e solari. La poesia è una «boa a cui affidare la propria resistenza al corrodersi».
Il rapporto di Martina con la sua epoca è delineato in questi versi, da cui affiora l’angoscia di chi non sa né vuole adattarsi a una ininterrotta competizione:
Che gli autobus correvano per vincere lo sapevano
tutti, avevano imparato i solchi sull’asfalto vecchio
ed erano le scommesse a plasmare la traiettoria;
salii senza aver pagato il biglietto e si andava,
ma sentivo il ferro in corsa come una radice
farsi membra di me, così scesi profilata
d’ansia dura come pietra, e tornai a piedi.
Al contrario, l’io poetico assegna valore alla contemplazione, all’ascolto, allo scambio, a una parola dialogica:
Non accadde nulla
se non il vagare
per giorni d’anima
in fuga dalle urla
verso la carità del silenzio,
ma la strada era un canto
generoso scambio di voci.
E al tempo martellante di una contemporaneità da forzati contrappone la bellezza di un tempo naturale, oppure di un tempo interiore:
Passo dopo passo l’interesse
ricade a foglia sui piedi in sequenza
volevo ascoltarti ancora non perdermi
nella distanza costante che assillava
come un dono del tempo, della notte strepitosa
di stelle e di blu, e ci spazzava via
come polvere da un libro oltre il nostro oltre.
Quasi radiante annuncia fin dal titolo la coscienza umile di non essere arrivati ad alcun approdo, di non aver completato il cammino verso la luce. Ma è proprio in questa accettazione dell’umano come fatto incompiuto che Martina ci commuove, in questo suo mostrarsi con un volto familiare, non da maestra ma da compagna di strada che in silenzio, insieme a noi, con ottimismo tenace, sente e cerca:
Io il giorno lo aspetto nell’assenza, nel vento costante
del non ritorno; voci e gesti nel solco truccato per il
ruolo notarile dei colori e dei loro emblemi,
non c’era mai stato un fatto, solo pulsioni
verso altre disgregazioni e l’autodeterminazione linguistica.
© Giorgio Galli
Una replica a “Martina Campi, Quasi radiante (recensione di Giorgio Galli)”
L’ha ribloggato su inni in vanie ha commentato:
Giorgio Galli legge Martina Campi, noi ringraziamo entrambi
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