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L’ora di ricevimento, di Gianluca Spitaleri

I

I fuggitivi di Tangeri

Da Tangeri, dallo scalo navale, si tenta la fuga verso la Spagna; alcuni provano a nascondersi dentro i camion che trasportano merci, altri provano a entrare da un tunnel dove scorre l’acqua piovana. Lì sotto c’è un passaggio in cui è possibile entrare e attaccarsi ai binari del treno che porta al container, ci sono i cani che fiutano uomini e donne; ci si lava dentro una tinozza piena d’acqua piovana. Per tutti l’importante è entrare in Europa. Si attende in quel parcheggio che arrivino i camion, fra la cabina e il rimorchio ci sono delle sbarre di metallo a cui ci si può aggrappare; al passaggio dello scanner, il camion rallenta, subito dopo la scansione della cabina, bisogna scendere e girargli dietro, oppure scendere e sdraiarsi a terra, aspettare che il camion passi sopra e poi risalire. È pericoloso, sotto il rimorchio si rischia di essere investiti o di rimanere agganciati al serbatoio.
Da Tangeri, dallo scalo navale, si tenta la fuga verso la Spagna e da lì si raggiunge la Germania, l’Italia o l’Inghilterra. Alcuni decidono di oltrepassare la barriera, nel recinto più grande pieno di telecamere, quando si scavalca, bisogna stare attenti alle guardie di sicurezza, una volta superata la barriera, occorre nascondersi in fretta in qualche serbatoio o container. Di notte c’è meno sorveglianza, si sta sulle collinette, lì dormono tutti quelli che vogliono andar via, in quei letti improvvisati si trovano le coperte di chi è riuscito a scappare.

Non capivo se quel racconto fosse la storia della famiglia di Karima, tramandato di bocca in bocca oppure frutto della mia immaginazione. Era la storia dei fuggitivi di Tangeri, che sognavano il medesimo destino di chi trenta o quarant’anni prima era riuscito a integrarsi in quel Nord disegnato con una matita a carboncino e che lentamente iniziava a sbiadirsi nei cuori dei suoi vecchi abitanti.

Karima era orgogliosa del suo velo e ogni mattina lo indossava con cura prima di andare a scuola. Lo hijab era la sua storia, quella di sua nonna che le aveva insegnato a porlo sul capo. Karima aveva sedici anni e custodiva gelosamente anche una spilla con cui fermava il suo nuovo copricapo. Ogni mattina scendeva dall’autobus in stazione, percorreva il lungo viale alberato, qualche minuto davanti ai cancelli e poi entrava a scuola. In classe aveva spesso discusso con le sue compagne, «di che colore sono i tuoi capelli?», «sono lunghi o corti?», «ma al mare lo togli o fai il bagno con il velo?». Non c’era cattiveria in quelle parole, soltanto curiosità, e in fondo era legittimo farsi delle domande a quell’età. A scuola poi non era l’unica musulmana, e alcune il velo non lo portavano affatto. «Dipende dalla religione e dal paese di provenienza», così avevano liquidato in fretta la questione. Karima non aveva una risposta a tutte quelle domande. Quando era più piccola si era chiesta più volte che differenza ci fosse tra lei e le sue compagne italiane: forse il modo in cui vestivano? Qualcuna aveva dei piercing, ma non tutte, qualcun’altra aveva provato a tingersi i capelli, altre portavano lunghe borse a tracollo, altre ancora jeans stracciati fino alle ginocchia. Nessuna di loro, però, indossava un velo. Karima era marocchina, diceva di essere musulmana perché lo erano sua mamma e sua nonna e da grande voleva fare la psicologa. Marta, la sua migliore amica, era italiana, diceva di essere atea, indossava scarponi enormi e sognava di andare in giro per il mondo. Cosa avessero Karima e Marta in comune se lo chiedevano tutte le loro compagne.
L’ora d’italiano.

«Qual rugiada o qual pianto
quai lagrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto
e dal candido volto de le stelle?»

«È un respiro che prima si trattiene e poi si distende, che si abbandona nella ripetizione, come una ninnananna recitata alla sera che prova ad addolcire il dolore di una perdita. E nella perdita c’è forse consolazione?»
Dopo la lezione: l’ora di ricevimento, in quel sotterraneo un po’ umido, una camera intima pronta ad accogliere tutte le confessioni possibili. In quell’ora ci si improvvisa un po’ genitore, confessore, psicologo e ogni tanto sei anche un po’ scocciato e vorresti terminare in fretta per andare a fumare una sigaretta in cortile prima di rientrare in classe.
«Lamrani, la signora Lamrani?», era il turno della mamma di Karima.
Due piccole rampe di scale separavano i lunghi corridoi di quell’antico istituto con le finestre alte dalla scacchiera disordinata di piccoli banchi disposti un po’ a caso.
«Sono davvero molto contento del percorso di Karima, è una ragazza attenta, sveglia, sempre puntuale nelle consegne, anche nella scrittura è migliorata parecchio, quegli errori di ortografia pian piano stanno diminuendo, che dire? Mi ritengo soddisfatto, signora».
Avevo pronunciato quelle parole tutte d’un fiato, ma la donna di fronte a me sembrava non capire. Cosa nascondevano i suoi occhi?
Vidi muoversi le labbra come se le parole si fossero accatastate dentro alla bocca e nessuna di esse riusciva a venir fuori: parole timide? Difficili, disperate oppure parole oppresse? «Signora, mi scusi, ha capito cosa le ho detto?». La signora Lamrani aveva capito ogni mia singola parola, ma forse non era bastata la rassicurazione sul percorso scolastico di Karima, non bastavano quelle parole di circostanza, la signora conosceva i voti della figlia, sapeva quanto fosse brava. Era preoccupata. L’attentato a Parigi aveva riaperto alcune ferite, aveva una sorella che viveva in Francia e il clima era cambiato dagli anni Novanta, temeva che anche sua figlia potesse essere vittima di discriminazioni.
Avevo capito che la signora era venuta a colloquio perché voleva essere tranquillizzata, sperava che le dicessi che non sarebbe accaduto nulla a sua figlia e che nessuno avrebbe allontanato Karima da scuola o l’avrebbe discriminata perché portava il velo.
Avevo provato a rassicurare la signora Lamrani, Karima era in gamba e ce l’avrebbe fatta da sola, ma con l’aiuto di Marta sarebbe stato più facile. La prima portava un velo, la seconda invece il fardello dei suoi anni più belli. Si erano conosciute al primo anno di scuola superiore, entrambe per un certo periodo avevano sperimentato sulla propria pelle il disagio del rifiuto. A scuola può capitare di essere estromessi per un certo periodo. Può succedere, però, che qualcuno inaspettatamente ti tenda una mano o ti tiri fuori dall’anonimato, rimettendoti in gioco, qualcuno che rimescola le carte e ti propone una nuova partita. La Signora Lamrani era andata via da un pezzo, portando con sé il pieno della sua terra, ed io ero nuovamente in classe a ripensare a quella nuova partita che avrei dovuto giocare con quel nuovo mazzo di carte. Avrei trovato le parole giuste da dire in classe e le avrei addomesticate.
Marta e Karima di parole addomesticate, però, non ne volevano sentir parlare. Avrebbero voluto toccare con la punta del dito il loro cielo, correre il più lontano possibile, raggiungere subito il traguardo, salire sul podio della vita e dei loro sogni. A sedici anni hai fretta, ti credi adulto con quelle sciarpe che coprono il volto, il podio della vita lo immagini così, con i tuoi sogni in quelle enormi tasche, nessun compromesso, nessuna parola addomesticata.
Karima voleva fare la psicologa, diceva di voler capire le ragioni del disprezzo e della paura. Da piccola non era stata una grande sognatrice, ora avrebbe voluto alleviare con una carezza e con una parola le paure di sua madre, ma era troppo giovane per farlo e quelle carezze e quelle parole forse sarebbero servite più a lei e anche a Marta che invece sognava di cavalcare il mondo, di andare in giro per l’Europa, come se quel mondo desiderato fosse l’unico possibile. Sognava Londra e Barcellona. Le sue amiche più grandi erano già state e le avevano raccontato che lì ciascuno vive come gli va. Quei mondi immaginati da adolescenti appaiono più autentici di quelli in cui si vive e nessuno mai potrebbe convincerti del contrario. La madre di Marta l’avevo vista soltanto una volta per caso all’uscita da scuola, chiusa dentro un’auto rossa che aspettava sua figlia.
Quale gioco alla vita avrei potuto proporre in quella stanza di cartongesso dove le parole non sempre si incastrano? Un’aula in fondo è pur sempre un’aula. Bisognava generare fiducia, una fiducia reciproca, non suggestiva. Dovevo ripartire dalla letteratura, dai testi, costruire ponti su cui camminare assieme e a un certo punto lasciarli proseguire da soli. Forse qualcuno sarebbe rimasto indietro, qualcun altro avrebbe avuto paura e si sarebbe fermato, ma era questo il mio compito: raccontare la musica di Tasso, le passioni di Foscolo, l’ironia di Leopardi, l’impatto della parola con il corpo. E quei corpi a un certo punto si sarebbero frantumati in mille scintille, avrebbero dato luce a qualcos’altro. Servono anni, un tempo senza l’illusione che ogni cosa debba compiersi in un periodo prestabilito, perché ogni vita risponde in forme differenti, reagisce inaspettatamente al destino degli altri.
L’ora di ricevimento può essere un’occasione imperdibile. Quell’attimo che prefigura porzioni di vita futura, preannuncia come e chi diventeranno i tuoi studenti e le tue studentesse, condiziona lo sguardo nei confronti dell’altro, un quaderno d’appunti dove segnare il confine tra il pubblico e il privato, tra la vita espressa, fatta di aspirazioni e di desideri e quella intima, ripida, a volte invalicabile, del cosmo familiare. E tu stai nel mezzo, tra causa ed effetto, a cercare di cogliere in un gesto, nel movimento della mano o nelle parole, un segnale: la chiave che chiarisca, la chiave che guarisca e quella che lascerà in silenzio. In fondo la signora Lamrani mi aveva permesso di leggere meglio quel legame tra Karima e la scuola, mi aveva raccontato la sua storia che io avevo fatto diventare la storia dei fuggitivi di Tangeri e che avevo raccontato in classe, catturando quel silenzio che permette alle parole di rigenerarsi, di fortificarsi.
I fuggitivi di Tangeri sono ovunque, ciascuno fugge da qualcosa, mi ero detto, e guai a nasconderla quella fuga, a temerla o a vergognarsene. Bisognava condividerla. E se quel velo indossato con cura da Karima fosse stato il ricordo della fuga di sua nonna, l’unico legame con l’altra sua storia, quella di Tangeri, allora avrei dovuto difenderlo assieme a lei, tenerlo stretto sul capo di Karima, finché quel ricordo non fosse diventato memoria.
Forse le storie di Karima, della signora Lamrani, di Marta e di tutti i fuggitivi di una qualche terra lontana o vicina, raccontano che c’è spazio per tutti durante l’ora di ricevimento, tra un voto e l’altro, l’uno di fronte all’altro, in quel dialogo non sempre proficuo, che prosegue in classe e poi a casa.
Non so se Karima farà la psicologa una volta diventata adulta e se Marta andrà in giro per il mondo, forse non lo saprò mai, di certo, però, so che porteranno con sé parole chiare con cui ricercare spicchi di cielo ogniqualvolta dovranno rimettersi in fuga.

 

 


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