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Su “Datità” di Giovanna Frene

È uscita al momento giusto la riedizione di Datità di Giovanna Frene, perché ci accompagna nell’attesa della pubblicazione di Eredità ed estinzione prevista per quest’anno. Grazie alle cure di un editore attento come Danilo Mandolini, patron di Arcipelago Itaca, che aveva pubblicato nel 2015 Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda, si viene a colmare uno di quegli imperdonabili vuoti che caratterizzano il mondo della poesia; infatti Datità uscì la prima volta nel 2001 per i tipi di Manni, per non essere poi più ristampato. Accompagnata dalla Postfazione di Andrea Zanzotto, la raccolta aveva già allora messo in chiaro la direzione della ricerca poetica di Giovanna Frene, ossia quel non più progressivo bensì decisivo allontanamento del proprio dettato da ogni residuo di lirismo, nonché la scelta di non percorrere le vie di un versoliberismo comunque aderente a forme riconoscibili o riconducibili alla tradizione, anche più recente. No!, la direzione presa da Frene era (ed è) quella di una frattura coi generi per la commistione dei registri. Come avevo già avuto occasione di dire scrivendo di Tecnica di sopravvivenza, il cuore di questa ricerca è una visione della storia che si innesta nella poesia, storia da intendersi non come narrazione delle gesta degli eroi, bensì come riflessione sulla voce di chi la storia ha ridotto alla condizione del silenzio.
Datità come Gegebenheit: non ciò che viene dato, ma ciò che si palesa, si mostra, si rivela. Ciò che è il risultato di una riflessione che inscindibilmente lega poesia e filosofia, perché è l’essere pensante a dire e non l’io a cercare di esprimere i propri tormenti. Per questo Datità è un libro necessario: perché scuote il pianeta poesia dal suo nucleo e scorga un nuovo mondo magmatico che pone domande dirette e non cerca di addolcire nulla a nessuno, né al poeta né al lettore.
Una dichiarazione di poetica che a diciotto anni di distanza mantiene tutta la sua forza primigenia e la rilancia accresciuta di ciò che è seguito.
Datità si offre ora nuovamente al lettore nella forma in cui vide la luce nel 2001, compresa la già ricordata Postfazione di Andrea Zanzotto, maestro riconosciuto di Frene. Postfazione che assume ora pure una valenza di profezia post eventum, alla luce di quella lungimiranza zanzottiana che già allora riconobbe i segni di una poesia che univa al rigore della lingua il rigore di una riflessione etica, filosofica.
I simboli stessi della poesia contemporanea, troppo spesso abusati, vengono ridiscussi. Il corpo, per esempio, è ricondotto a un’idea di unità laddove i più lo sezionano; sicché Canova – «splendore fisico unificante» è definito da Zanzotto nella Postfazione – diventa l’emblema di una sorta di indivisibilità nel segno dell’arte («non separi l’uomo ciò che l’arte ha unito nell’oscuro/ del principio smembrando piuttosto il mondo che la natura»), dove arte andrà intesa nel suo significato più ampio, comprensivo, e non esclusivo. Universalità che non dev’essere banalizzata, svenduta, messa in liquidazione; bensì preservata, difesa con le armi della scrittura retta dal pensiero e dalla capacità di argomentare le cose e il loro rovescio, gli sguardi e i segnali (evidente la lezione zanzottiana), di fornire spiegazioni alle proprie scelte intellettuali («proferire perfetti/ simulacri attinti al tutto della totalità […] riflessi dietro lo specchio/ percepire d’un tratto □ un uno», Autoritratto).

© Fabio Michieli

 

Autoritratto

Questa immobile fissità          sono io?
È ancora la mia bocca questa furente serie di carni?
Sedimenti di petali fra le fessure – se fino a ieri
era tutto perfezionato al meglio        mentì
questa evanescente fluidità chiamata
tritacarne? Negare di preferire qualsiasi
preferenza            fingere di fingere la
finzione del non sentire          proferire
perfetti simulacri attinti al tutto della totalità:
soltanto così          riflessi dietro lo specchio
percepire d’un tratto                  un uno.

 

[tritacarne: dal film Stalker di A. Tarkovskij]

 

 

Epochè

Farò della pazienza una sorella fedele,
della fedeltà una fratello paziente.
Ricordi sono immagini che
sbiadiscono, nel senza-immagine
tenero e dolce putrefaggono col senno
del posteriore si aprono e si chiudono
soltanto parentesi. Farò della parentesi
una madre-materna per il mio
ventre padre-paterno cachetico.
Farò del fare un non-fatto – fino a che
germoglieranno i segni.

 

 

La datità, l’essenza delle cose, il sorso
bevuto all’orlo della sepoltura, l’impostura
generale del mondo essendo dal tempo roso,
le siepi che attorno s’accavallano,
il cadere nullo (il non cadere) nel vallo,
l’io in infinito sublime innalzamento al cielo:
sento in questo carico grondante
il vedere chiaro, chiaramente il pensiero.

 

 

non è indivisione il corpomente se mente
il corpo asfissia per la vertigine dell’altezza la mente
vorrebbe ancora credere al frammento shelleyriano
sull’eterno amore ma muore con il corpo
mentre indivisibili divengono invisibili
se mente sull’immortalità tale caducità sul corpo

 

 

La poesia mi dà nausea           una nausea totale
tale che per sollevarmene vorrei interrompere la vita
se fosse possibile spezzare a morte il pensiero
ma dicono che sia immortale
così continuo a vivermi con questa nausea
addosso           immersa nella metafisica della
parola tanto più valente quanto più assente
questa noiosa regressione al pensiero

 

 

La mano di Canova

l’abitudine di smembrare i corpi a partire dal cuore
e dalla testa non reseca la mente dal cervello materiale
rimasto nella sede dotata dalla natura deposta
dal suo scettro bestiale
l’immortalità è un transito
veloce più in fretta le disse la vegetazione innaturale
dei tendini artistici più stretta la scansione delle idee
più nitide le forme le fosse
l’inattività è l’abitudine
dei corpi unigeniti indivisi nella sfera immortale
non separi l’uomo ciò che l’arte ha unito nell’oscuro
del principio smembrando piuttosto il mondo che la natura

 

[Il riferimento a Canova è dovuto al fatto che la sua mano destra è conservata sotto spirito in un’urna in bella mostra nella biblioteca dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, mentre il suo cuore è sepolto nella Basilica dei Frari; il corpo così smembrato riposa infine nella natia Possagno, nei pressi di Asolo]

Giovanna Frene, Datità. Postfazione di Andrea Zanzotto, ArcipelagoItaca, 2018

2 risposte a “Su “Datità” di Giovanna Frene”


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