Se la neve delle Alpi talvolta
come l’epilobio arrosa la conca*
è per colpa del pulviscolo sabbioso
portato d’inverno in alta quota
dal forte desertico scirocco
o causa dell’alga dei ghiacci
che in primavera per fotosintesi
la incipria di scarlatto?
Lo chiedo all’innevato Monviso:
nell’alba cristallina illuminato
dall’arancia del sole mattutino
indossa una rosea dolomitica
veste. Ma come bimba pudica
cui s’infiammano le gote, tace
presto celandosi tra le nuvole
di materne gonne vaporose.
*L’epilobio arrosa la conca: citazione di un verso di Beppe Mariano da La realtà, in Attraversamenti, (Interlinea, 2018): “… un tratturo / del Monviso esaltato dalla neve che pomella / il dorsale sotto cui l’epilobio arrosa la conca”
Vademecum
La persona che incontri
lungo il sentiero: salutala,
guardandola negli occhi.
Sorridi cordiale a chi può darti
informazioni preziose,
con esperienza indirizzarti
verso viottoli migliori.
Insegnarti qualcosa
nel breve scambio di qualche parola.
Non ignorare la persona
che incroci lungo il cammino:
oggi stesso potrebbe
– senza esitazioni –
salvarti l’esistenza.
Il grido d’allarme della pernice bianca
a Fredo V.
Al nostro passaggio sul nevaio
rinuncia al perfetto mimetismo
tra candide coltri e detriti morenici
il maschio della pernice: infastidito
ci apostrofa con un rauco gutturale
suono, prima di spiccare il volo
in cerca d’un nuovo e forse
più tranquillo pensatoio.
Il ventre e le ali immacolate,
il resto del piumaggio d’uno
screziato grigio-bruno.
Tetraonide e relitto glaciale
mai come in quest’epoca
d’anomale temperature
di ridotti ghiacciai, cupida
predazione venatoria, come
upupa, capovaccaio, grifone…
a rischio d’una irrevocabile
inesorabile estinzione.
Paraloup
Più non si sale alla borgata Paraloup
a patire il freddo e la fame, a rischiare
di morire combattendo per un ideale.
Il nemico s’è fatto più sottile:
s’annida in noi, come morbo s’insinua
tra i dedali della società civile.
Restaurare la culla della Resistenza,
rinnovare la memoria delle bande partigiane
di Duccio, Livio, Nuto, Italo, Leo?
Non c’è più sete di giustizia, né di libertà.
Per quante forme di resistenza
possiamo mettere in atto, testimoni siamo
d’una Caporetto degli spiriti.
Armi o libri per ricominciare?
VII
Non tutto gli dei rivelarono
ai mortali e come dice Senofane
il meglio delle cose va trovato
nel tempo in cui viviamo, a patto
di non smarrire quanto nel
frattempo col sudore imparato.
E per volare non ci diedero
come ad altre creature, le ali
ma i sogni e il pensiero: forse
a volo d’uccello mai potremo
in primavera ammirare le
fioriture sui pendii dell’Antola,
i manti inebrianti dei narcisi
e gli alti steli degli asfodeli,
ma tra sassifraghe, arabette
timi, felci, santoregge attenti
ricercare la rara bellezza
dell’ofride dei fuchi, del fior
di ragno, odorare i profumi
del giglio martagone,
della nigritella purpurea;
in tempi di pace subire
l’assedio dei flebotomi, udire
i gridi d’allarme di minuscoli
insetti, le fitte martellature
dello schivo picchio rosso
minore: tra queste rocce
e le Strette**
vive, dove
nidificano il nibbio, il falco.
** Le Strette: la gola delle Strette di Pertuso, che separa la Bassa e l’Alta Valle Borbera.
Il custode
“L’ultimo pezzo alle Montagne
che lo fioriscano di rose e fior!”
da Il testamento del capitano, canto alpino tradizionale.
… e passarono alcune ore.
Gli animali cominciavano ad avvicinarsi.
Dapprima i necrofagi, poi i necrofori quindi i semplici curiosi.
Ma ordinatamente e in un inconsueto composto silenzio.
Izrâîl, l’angelo della morte, che ancora vegliava il cadavere,
a poco a poco smembrandone il corpo, secondo una complessa
gerarchia biologica, assegnò ad ognuno la sua parte.
La lingua al gracchio corallino.
Gli occhi al corvo imperiale.
Il torace al gipeto.
La schiena al grifone.
I polmoni alla volpe argentata.
Il fegato al gufo reale.
La milza alla cornacchia.
I reni ad allocco e civetta.
Il cervello all’ermellino.
Il ventre a vipera e upupa.
Le cosce e le spalle al lupo.
Il cuore… all’aquila reale.
I capelli ai pipistrelli.
I sorrisi a lepri, scoiattoli e marmotte.
Le lacrime… ai lepidotteri.
I canti suddivisi tra culbianchi, cuculi, cince dal ciuffo.
I resti delle carni putrescenti ai “lavoratori della morte”:
larve di mosche blu e grigie, sarcofaghe e domestiche,
scarabei stercorari, silfidi metallici, acaridi minuscoli.
Le ossa sparse a lume spento***
qua e là tra i licheni
delle rocce e su qualche tappeto di fioriti muschi.
Nessuno si presentò a reclamare l’anima.
– A chi tocca l’anima del poeta? – si chiesero le creature
selvatiche rimaste, guardandosi l’un l’altra, attonite.
Spuntò la Luna piena da dietro una nuvola.
– Al grande ircocervo! – disse, la voce rotta dall’emozione.
– Al multiforme dio Pan! – s’intromise Sirio, dal Cane Maggiore.
L’angelo nero che s’era inginocchiato in segno di reverenza,
gettò lo sguardo sul piccolo onisco che subito s’appallottolò
per estremo pudore; sarebbe stato lui insieme con la Madre
Terra il custode dell’anima del poeta.