
Un posto nel mondo: appunti sulla provincia
Forse in provincia, in una provincia votata al dubbio, al sospetto, in una provincia plasmata e migliorata nell’alterità e a volte nell’opposizione agli aspetti più deleteri della metropoli, si potrebbe essere individui e comunità “sovranamente”, direbbe Bataille, laddove l’anonimato e l’impotenza urbani riducono sovente l’essere umano a cosa.
Partirei, per un dialogo sulla provincia, dal fatto che “avere un posto nel mondo” è qualcosa di essenziale che in certe condizioni politiche, come le nostre attuali, può sembrar banale, ma basti pensare all’ex Jugoslavia o alla Palestina, alla Siria, luoghi geograficamente e culturalmente vicini all’Europa mediterranea, per capire che si tratta di una fortuna da cui partire per costruire. Condividere un luogo ricco di risorse, senza particolari attriti, senza odio, guerra, terrorismo, è già una fortuna immensa, lo dico con la mente e il cuore a Srebrenica, per esempio, dove per varie ragioni accade il contrario.
“Avere un posto nel mondo”, dunque, fa pensare al concetto di patria: potrei dire con Arendt che la più grande privazione dei diritti umani è avvenuta ai danni di una popolazioni privata di un posto nel mondo: gli ebrei.
Così come accade oggi con i migranti del mediterraneo, è la perdita della comunità politica il passo verso il baratro, la fuoriuscita dall’umanità di chi non ha casa, nome, lingua. Avere un posto nel mondo non è questione da poco. È questione di corpi e spazio che formano luoghi, occorre poi soprattutto “averne cura”.
Permettetemi questa premessa e di dire qui, nel Mezzogiorno, a Sala Consilina, una volta terra di contadini e migranti, che nessuno che abbia perso la patria dovrebbe trovarsi mai nell’impossibilità di trovarne un’altra: si tratti del diritto al radicamento, della libertà di restare, o del diritto all’estraneità, la sostanza non cambia. Oggi escludere un individuo vuol dire cacciarlo dall’umanità, questo non è ammissibile, deve essere ritenuto un crimine: non è il migrante un fuorilegge, ma chiunque lo abbia messo in quelle condizioni, ad esserlo. Chiunque, distruggendo mondi, colonizzandoli e dominandoli, renda priva di senso e disperata l’esistenza altrui, è un criminale.
I migranti del Mediterraneo rappresentano ormai l’essere umano nato al momento sbagliato, privo di dignità umana, che non ha più valore assoluto ma è ridotto a membro di un popolo oppure esposto nella sua nuda vita, bandito, direbbe Agamben.
Ancora una volta nella storia abbiamo il profugo (o l’apolide) a porci il problema dell’internamento. Oppure della naturalizzazione.
E ancora una volta in Italia la vita pubblica è stata ridotta a una somma di interessi privati, dove la personalità morale è annichilita, dove l’atomizzazione della società di massa riproduce nuove forme di spietatezza e totalitarismo.
Oggi che l’essere servili e docili al cospetto del potere e dei governi viene scambiato per una normale attività culturale o intellettuale, dobbiamo per giunta registrare il fatto inedito che i territori non esprimono più identità, ma ne importano una posticcia e irreale dai mass media, regredendo così da comunità a località. Così i residenti dei territori, della provincia vivono nelle riserve, spettatori delle vite vere, urbane, cioè quelle rappresentate mediaticamente. È prima di tutto uno sradicamento spirituale, poi materiale, quello di cui siamo vittime.
Ci è mancata, per far fronte a tutto questo, in Italia, fin dal principio una borghesia matura politicamente e siccome il progresso deriva dall’educazione politica, ovunque oggi vediamo dilagare se non ostentare le forme più retrive di miopia e egoismo, caratteristiche sempiterne della reazionaria piccola borghesia italiana, ormai senza più argini. L’Italia, immemore della lezione di Gramsci, Gobetti, vive un continuo presente astorico e apolitico: è una condizione, lo vediamo col salvinisimo, potenzialmente antidemocratica e reazionaria.
La provincia
Dunque, in questo contesto, cosa può fare la provincia? Come agire?
La provincia è subalterna, d’accordo, ha nel suo dna l’esser dominata dalla città anche e soprattutto perché tenta di emularla. La provincia è pure limite e confine, è margine, lontananza dal centro, e questo spesso inocula il germe della partenza, coltivata e nascosta, sbandierata o nutrita nell’intimo. L’idea della partenza deriva in parte anche dal ritratto che se ne fornisce, o meglio dalla proiezione provinciale nell’immaginario comune: l’essere minoritari e periferici apre all’idea di arretratezza, all’antiquato, al chiuso, angusto, cattivo. Per questo essa pone in chi la abita un altrove: il riscatto, la partenza, il sogno.
Partenza e ritorno: Vito Teti, antropologo del restare, insegna la scissione del luogo, del paese, il migrante alter ego, i risvolti dolorosi dello spopolamento.
E allora per capire i luoghi indifesi e dimenticati, per riconciliarci con i paesi e le campagne che compongono il paesaggio italiano, occorre soprattutto comprenderla, la provincia.
Dal punto di vista politico, dopo Gramsci, Carlo Levi, De Martino, Pasolini, stando agli anni recenti, è toccato a un intellettuale di campagna, nativo di Sterzig (Vipiteno), a un politico come Alexander Langer, ricordare che se l’inurbamento pone il problema ecologico, della diseguaglianza, dei costi della vita, della mobilità, dell’alienazione e della violenza, a questo punto è la provincia a diventare d’un colpo il luogo dove la vita è innanzitutto sostenibile, in cui è possibile vivere con pochissimo denaro, in cui si è al riparo dal potere e il dominio stesso è un’attività alla lunga deludente. Langer invita la provincia a rifiutare la competizione con la metropoli, per imparare a cooperare e solidarizzare, così da costruire un futuro nell’alterità rispetto al dominio, rispetto alla tracotanza e alla follia dell’inurbamento che porta il pianeta all’autodistruzione.
Forse in provincia, in una provincia plasmata e migliorata, si potrebbe essere “sovranamente”, dico pensando a Bataille, laddove l’anonimato e l’impotenza metropolitana riducono l’essere umano a cosa.
Sì, perché la provincia è in parte anche maggiore prossimità alla vita rurale, alla campagna. Della civiltà rurale, nonostante i suoi vistosi difetti, può conservare i pregi, partendo da una forma di pietas che viene da quella capacità di ridurre tutto all’Uno, dalla prossimità fatta di necessità, dove vi è la consapevolezza, a volte tragica, del destino comune.
Provenire dal mondo degli ultimi, della semplicità rurale, aiuta a guardare i “nuovi ultimi moderni”, i migranti, con la consapevolezza innata della comune miseria umana. C’è nell’infinitamente piccolo della provincia qualcosa che rimanda davvero all’universo e al cosmo: vedere le comunità, la lingua, i gesti precedenti svanire, assistere alla perdita di senso e significato dei valori di un mondo precedente, anche questo è il potenziale istruttivo e sovversivo della provincia: la misura, l’equilibrio, la memoria, la convivialità, la compartecipazione, la pietas, la parsimonia mista alla generosità.
Tante cose della provincia risultano invisibili, ma essa offre spazio e tempo. Molti rapporti sono basati sul dono e sulla gratuità, sull’ospitalità e l’accoglienza.
La provincia è per ora smarrita, confusa, mescola tradizione e post-modernità, ma è qui che si può e si deve combattere per difendere “la diversità comunitaria dalla dipendenza del mercato”, e dalla semplice diversità individuale (Bauman).
Il grande problema, lo avevano capito i già citati Carlo Levi, De Martino, poi Pasolini, è che gli individui vengono schiacciati dalla massa, dal mercato, dallo stato, dalla burocrazia, e che la tradizione, posto che sia all’altezza di essere conservata nei suoi valori positivi e duraturi, può aiutare la comunità a farsi “cosciente, razionalizzata, organizzata e plasmata”, fino a diventare una società (De Martino).
Se c’è una cosa terribile, a riguardo, non è l’amore per la propria cultura o il binomio esclusivo identità-radici, ma il fatto che si desideri che la cultura e le radici fungano da barriera o siano esportate con violenza agli altri, facendone un ennesimo strumento di potere. L’altra faccia terrificante di questa situazione, lo dico pensando alle ultime strumentali proposte della Lega sul crocifisso, è che si difende una civiltà che tuttavia non si conosce, la si difende nell’ignoranza più cupa, e questa sì è la più grande forma di bigotto provincialismo esistente.
Oppongo poi la provincia al cosmopolitismo, ma non a quello fatto di pace universale e fratellanza degli stoici, di Cicerone, di Kant, bensì all’idea del cosmopolitismo posticcio della globalizzazione, perché il problema è che il capitalismo senza temperamento rende inferno ciò che non lo è. E perché anche l’individuo esercita la sua cittadinanza in un luogo che ha a cuore per continuità generazionale, o in un luogo che conosce bene, dove intrattiene forti relazioni umane e quindi politiche, oppure perché spostarsi richiede un patrimonio di saperi che non tutti possono permettersi (lingua, cultura, denaro) e senza cui si finisce preda del mondo. L’inferno, diceva Carlo Levi, è un mondo di spaesati, di gente senza passato e memoria.
Va detto che la provincia e la comunità del futuro necessitano di far parte di grandi case comuni europee, internazionaliste, progressiste, che estendano e amplifichino la pietas contadina contro l’angusto nazionalismo di stampo fascista, proposto sotto false spoglie attraverso il neologismo “sovranista”.
Si può nutrire il sogno che il mondo diventi un’unica città, uniforme per diritti, tuttavia questo non può voler dire occidentalizzare il mondo. Oggi, tra l’altro, avremmo i mezzi tecnologici e economici per superare la visione ormai riduttiva nazionale di queste vicende e porle al centro del dibattito politico globale. In poche parole si tratta di ricevere i benefici della ricchezza e si tratta del dovere di collaborare a ciò in condizioni di libertà, di opportunità uguali. Questa potrebbe darsi come strada per edificare un mondo fatto di libertà autentica, ma siamo nell’ambito di un discorso complesso che lascio ad altra sede, nel frattempo è giusto essere almeno cittadini di una sola città, è giusto ricordarsi che siamo limitati e come diceva Lorenzo Milani, nella vita possiamo dedicarci a non più di 3-400 persone. Anche questo è un principio saldo che, mentre l’inurbamento sregolato coltiva l’illusione dell’illimitato, dell’apparenza e dell’esteriorità, la provincia ricorda e tramanda.
La provincia, come ho detto, ma vale la pena ripetersi, può lottare per la sua alterità, per il progresso morale oltre che materiale, solo se non vive di proiezioni e di riflessi; può, attraverso una lotta consapevole, restituirci buona parte di ciò che abbiamo perso (ambiente, ecologia, sostenibilità). Può diventare nobile nel momento in cui riporta il lavoro agricolo all’assenza di dominio, lo rende insieme agli altri lavori materiali rispettabile in quanto matrice da cui tutto comincia, in quanto lavoro che non sfrutta nessun altro: per questo la lotta è culturale oltre che economica. Per farlo bisogna difendere lo spazio concreto, certo, ma anche lo spazio dell’immaginario e dell’immaginazione, bisogna difendersi dai media, ripensare la vita, prendersi cura della propria intimità, della sfera privata, perché è soprattutto dal mondo interiore decolonizzato, è dalla solitudine che non è isolamento, ma è per l’altro e con gli altri, che nasce il senso del mondo che vogliamo costruire e condividere.
Infine, la provincia può invertire il rapporto col mondo, può fare emergere tutto dal basso, o almeno mediare, produrre dalla realtà cirocostante: in un mondo dove tutto arriva e ci piove addosso dall’alto, la provincia può, per usare un titolo caro a Luca Rastello, far piovere all’insù e opporre la complessità alla superficialità, la comunità all’isolamento, la cultura del lavoro in assenza di dominio ai disegni di potenza e conquista, il mondo come dimora comune all’esclusione, il sapere come autoregolamentazione e liberazione, la responsabilità e l’autodeterminazione contro i vaneggiamenti del Pil, la cura dell’umano e del circostante all’incuria. Opporre magari la semplicità al narcisismo collettivo, opporre l’attenzione alla bassezza del cinismo, opporre il passato che consente la ricostruzione storica al presente astorico e apolitico, opporre il nostro, tutto da ricostruire, universo morale, umanistico, popolare, alla vergognosa indifferenza della modernità.
© Sandro Abruzzese