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Milo De Angelis, Tutte le poesie

Tutte le poesie di Milo De Angelis (Mondadori, pp. 464, € 22,00, 12,7 x 19,7 cm, brossura con alette) è una pubblicazione necessaria, e se mai ce ne fosse stato bisogno, lo conferma anche il fatto che è già esaurito e si sta procedendo alla ristampa. Il libro oltre a raccogliere tutta la produzione edita di De Angelis, dall’esordio di Somiglianze (1976) a Incontri e agguati (2015), comprende una cospicua selezione di inediti giovanili, alcuni ritrovati, altri esclusi dal primo libro, e una nota dell’autore che ripercorre il suo rapporto con la poesia e cerca di rispondere alla domanda delle domande per chi scrive in versi e non solo: Cosa è la Poesia? Chiude il volume una precisa e ampia postfazione di Stefano Verdino, che ripercorre l’intero percorso in versi di De Angelis, mostrandone l’intima coerenza.
Il merito di questo libro è quello di rendere accessibile nella sua totalità una delle esperienze poetiche più importanti e radicali degli ultimi quarant’anni. Una poesia che ha segnato più generazioni di lettori e poeti. In cui la parola poetica diviene, anzi ritorna ad essere, un’esperienza essenziale del Mondo. In De Angelis ritorna la tragica serietà del dire poetico. È questo che ha sconvolto generazioni di lettori, il superamento di colpo da un lato dell’esperienza delle neoavangaurdie con il loro portato ideologico e impegnato a destrutturare la tradizione, dall’altro di tanto lirismo novecentesco, anche nella sua declinazione orfico-romantica. A partire da Somiglianze De Angelis mette in atto un poesia che intende ritornare alle origini, alla radici del dire, che vuole rinascere come esperienza veritativa e fa questo attraverso una nitidezza ed esattezza espressiva rara, come rileva Verdino nella postfazione, ed anche attraverso un lavoro sul verso in cui il dettato stesso si fa vertigine e visione, tensione spasmodica e strappo. Si può affermare che in De Angelis, pur essendo egli nella forma, nell’uso del verso e del lessico, radicalmente contemporaneo, vi è il ritorno di un’esperienza che è all’origine della cultura occidentale, l’unità di pensiero e parola, sintetizzata nella parola greca logos, che può significare sia parola che pensiero. La poesia dialoga strettamente con la teoria, con il pensiero, è questo che emerge potentemente in tutti i testi di De Angelis e che viene confermato, se mai ce ne fosse bisogno, anche dai testi inediti giovanili. Pur tenendo ferma la distinzione tra poesia e teoria, in ogni verso vi è un dialogo costante e drammatico, pensiero che si fa sangue, parola che si fa riflessione e visione folgorante. La poesia per De Angelis è una esperienza conoscitiva, è una conoscenza per via estetica, la parola deve dire, obbligata da un vero e proprio imperativo categorico, da una legge che la precede e pretende obbedienza, la dimensione finita e tragica dell’esistenza. Solo accettando che ogni cosa finisce irrimediabilmente, e con le cose una parte di noi che si perde senza rimedio, si può rendere giustizia alla nostra esistenza. Si rende giustizia alla vita e a ogni suo evento, relazione, gesto, non procrastinandola, non estenuandola, ma lasciando finire ciò che è già decretato finisca, questa è la vera profondità tragica, che compie interamente la sua giustizia essendo radicalmente ingiusta verso ciò che è destinato perisca. Questa, a mio avviso, è l’intuizione centrale e ossessiva della poetica deangelisiana, che viene diversamente declinata nei suoi vari libri: la finitudine umana che entra in conflitto tragico con l’immensità enigmatica e implacabile del Tutto.
La poesia, come esperienza originaria dell’uomo, non può far altro che tracciare delle linee, cercare di dire l’enigma dell’esistenza senza mai poterlo svelare del tutto, preparare i mortali, per accenni e strade solo in parte esplorate, a quell’appuntamento definitivo che rende la vita quel che è e l’apparenta all’eterno.
Questo libro, dunque, ci restituisce una delle grandi possibilità e percorsi della poesia contemporanea italiana, la si condivida o no fino in fondo, un sentiero che vede in Milo De Angelis una delle svolte decisive e vertiginose. Adesso bisogna solo porsi in ascolto del silenzio essenziale di questa parola e mettersi in dialogo serrato con esso.

© Francesco Filia

 

L’idea centrale (Somiglianze, 1976)

È venuta in mente (ma per caso, per l’odore
di alcool e le bende)
questo darsi da fare premuroso
nonostante.
E ancora, davanti a tutti, si sceglieva
tra le azioni e il loro senso.
Ma per caso.
Esseri dispotici regalavano il centro
distrattamente, con una radiografia,
e in sogno, padroni minacciosi
sibilanti:
“se ti togliamo ciò che non è tuo
non ti rimane niente”.

 

Viene la prima (Somiglianze, 1976)

«Oh se tu capissi:
chi soffre
chi soffre non è profondo».
Sobborghi di Milano. Estate. Ormai
c’è poca acqua nel fiume, l’edicola è chiusa.
«Cambia, non aspettare più».
Vicino al muro c’è solo qualche macchina.
Non passa nessuno. Restiamo seduti
sopra il parapetto. «Forse puoi ancora
diventare solo, puoi
ancora sentire senza pagare, puoi entrare
in una profondità che non
commemora: non aspettare nessuno
non aspettarmi, se soffro, non aspettarmi».
E fissiamo l’acqua scura, questo poco vento
che la muove
e le dà piccole venature, come un legno.
Mi tocca il viso.
«Quando uscirai, quando non avrai
alternative? Non aggrapparti, accetta
accetta
di perdere qualcosa».

 

I bastoni (Millimetri,1982)

I bastoni
hanno frantumato l’ultimo secchio
e ora il villaggio fa
silenzio
nella corte marziale. Ecco
l’inchiostro, tra una moltitudine
di assetati in orario,
un cognome:
tutte le uova molli
giungeranno
per forza o per disprezzo
e quel
faraone darà la staffilata
che ancora oggi ferisce
e le fa terrestri.
Chi genera il tempo
ha il volto arato e con pazienza ripete
che noi ubbidiamo.

 

Semifinale (Biografia sommaria, 1999)

La Doxa mi chiede per chi voterò. La voce
è di un ragazzo che, dall’altra parte, respira.
Non so quale chiarezza dentro la rovina. Tutto
ritorna qui, confine del luogo. Quel non parlato
di chiodi per terra. Il Professor D’Amato spiegava
un pronome… nemo: nessuno, non nemo: qualcuno Nessuno
giungerà oltre le vene, è semplice, ragazzi. Qualcuno
è scomparso o comunque non dà notizie. Il postino
mi consiglia di guardare meglio nella buca,
anche in quelle vicine. Guarderò. Neminem
excipi diem: per nessun giorno ho fatto eccezione. Morire
è dunque perdere anche la morte, infinito
presente, nessun appello, nessuna musica
di una chiamata personale. Oltre le vene che furono rito
e dimora, milligrammo e annuncio, grido infinito
di gioia o di soccorso, nessuno mai
oltre queste vene. È semplice, ragazzi, nessuno.

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