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Elisabetta Meccariello, False finestre n. 2: La ragazza che aveva qualcosa da dire

foto di Elisabetta Meccariello

False finestre n. 2: La ragazza che aveva qualcosa da dire

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La Ragazza che aveva qualcosa da dire non parlava mai. Costruiva oculate e articolate dissertazioni che restavano intrappolate nelle membrane del suo cervello. Ripeteva dentro la testa intere frasi, interi periodi, sapeva tutto, conosceva tutto, aveva un’enciclopedia di nozioni registrate nella memoria, aveva interiorizzato dati, informazioni, avvenimenti, qualsiasi cosa era archiviata nella sua testa, in ordine di importanza, in ordine alfabetico, in ordine di rilevanza, in ordine di citazione. La Ragazza che aveva qualcosa da dire poteva dire qualcosa su qualsiasi argomento. Aveva un’opinione su qualsiasi argomento. Avveduta, ponderata. Un ricettacolo di notizie. Eppure non parlava mai. La mattina si esercitava davanti allo specchio. Si avvicinava fino ad appannarne la superficie con il respiro, osservava il contrarsi dei muscoli intorno alla bocca, scandiva ogni parola, si soffermava sulla percentuale di dentatura che ciascuna sillaba le scopriva, sulla sfumatura tra il bianco e il giallo che il singolo dente stava stemperando, sullo svilimento delle gote, sulla dilatazione dei pori. E sugli occhi. Gli occhi la tormentavano. Non per il valore simbolico o per la complessità dell’anima, proprio per l’oggetto occhio. L’umidità, la lacrimazione, le venature, l’opacità. E l’inclinazione delle sopracciglia, la curvatura che la peluria assumeva su un accento, su una desinenza. Il volto è un’esplosione di segnali, pensava, indipendentemente dalle emozioni. Trasuda i significati impliciti ed espliciti. Il volto ci tradisce. Quando arrivava il suo turno, quando gli sguardi convergevano tra lo spazio delle sopracciglia e la punta del suo naso, quando il brusio di voci altrui si affievoliva aspettando di sentire la sua, ecco, la Ragazza che aveva qualcosa da dire restava in silenzio. Annuiva se era d’accordo. Che poi non era proprio un annuire, era un leggero scuotere di testa, leggerissimo, quasi impercettibile. Storceva la bocca se voleva dissentire, lievemente, alzava un solo angolo della bocca, pochi istanti, una fossetta le si piantava sulla gota svilita. D’accordo o no restava in silenzio mentre nella sua testa esplodeva un frastuono che la immobilizzava. Gli archivi si spalancavano snocciolando notizie, nomi, fatti, la mente partoriva dati, informazioni, aneddoti, il cervello macinava quantità di parole e numeri e locuzioni da riempire i vuoti di qualsiasi dialogo. Eppure la Ragazza che aveva qualcosa da dire non parlava mai.

Le parole le scendevano giù per la faringe
sillaba dopo sillaba
si appigliavano all’epiglottide per lanciarsi nel vuoto
ancora più giù lungo l’esofago
sillaba dopo sillaba
una decomposizione di lettere
e suoni e apostrofi e virgole e punti
intaccavano la mucosa
graffiavano l’epitelio
laceravano le cellule
e poi tornavano su le parole
sillaba dopo sillaba
un rigurgito continuo
di contrazioni peristaltiche
di pensieri inestricabili
di impalcature intellettuali
le parole si ramificavano fino al cervello
parole sotterrate
parole digerite
parole vomitate
le parole perdevano il proprio significato
diventando solo
caratteri
simboli
segni
privi di valore
senza contenuto

Alla ragazza che aveva qualcosa da dire restava solo una matassa informe di Times New Roman 12.

*
© Elisabetta Meccariello

 


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