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Peter Handke, Canto alla durata

Peter Handke, Canto alla durata. Traduzione e postfazione di Hans Kitzmüller, Einaudi 2016 (ultima edizione), € 10,00, ebook € 6,99

 

Nella vastità che ritorna

Nel Canto alla durata di Peter Handke sospensione e riconoscimento diventano condizioni importanti per chi fa esperienza del sentimento della durata. Ma cos’è di preciso la durata e com’è possibile percepirla, comprenderla, viverla, come insomma averne sentimento? L’autore riversa nel poema una ricerca serrata la cui finalità è tanto la definizione, o meglio la scoperta della durata nei meandri più nascosti del quotidiano, quanto la conservazione della sua dimensione più viva e interna e per fare ciò elegge la poesia come la più appropriata perché «la durata induce alla poesia», la richiama, la evoca. Da ciò si intuisce che la durata non è un tempo o un intervallo misurabile: essa si realizza quale esperienza rivelatrice, un’epifania a tutti gli effetti. Per dirla con un ossimoro è un lampo duraturo e tale si riproporrà nella vita interiore di una persona; a distanza di anni, luoghi, sensazioni, questo flash della consapevolezza non si limiterà a ricondurre una mera suggestione o percezione, anzi la porterà “aldilà” della sua temporalità. Il Canto è perciò un poema dei luoghi e dei momenti cui si lega l’esperienza personale dell’autore (il lago di Griffen in Carinzia, l’incrocio di Porte d’Auteuil a Parigi e, in particolare, una piccola radura del bosco di Clamart e Meudon, alla periferia di Parigi), qui richiamati non in una sequela di posti collegati ad aneddoti occasionali, ma come luoghi interiori che contribuiscono al sentimento della durata, per Handke «il più alto di tutti i sentimenti» (Hans Kitzmüller).

Nonostante il risvolto filosofico del poema, l’autore stesso fa sottintendere che non è facile avvicinarsi all’essenza della durata. Ne capta le spie, sente il suo realizzarsi nell’attimo, sotto il segno di una rivelazione pura Handke mette su un impianto teorico attraverso il canto accompagnato da una vibrante commozione. Il tentativo dell’ineffabile trova una consonanza con Sant’Agostino e la  sua definizione di tempo («Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me ne chiede, lo so bene; ma se volessi  darne spiegazione a chi me ne chiede, non lo so» leggiamo nel passo delle Confessioni). Il paragone non vuole spingersi oltre la similitudine, tuttavia sia Sant’Agostino sia Handke sviluppano due concezioni correlate e interdipendenti, tempo e durata, entrambi parlano cioè di idee e stati d’animo che esondano le cui parole non riescono a contenerli proprio per il senso di vastità capace di disorientare, eppure queste parole gettano segnali illuminanti e significativi.

Della durata si fa esperienza diretta «tendendo l’orecchio», così facendo l’ascolto ne coglie le sfumature più disparate e impreviste perché sulla durata «non si può fare affidamento», con tutto ciò la finalità comune a questi attimi sfaccettati è far sentire il brivido («sentirò poi forse | del tutto inatteso | il brivido della durata»). L’espressione più idonea all’argomento per Handke non poteva che essere quella poetica, una poetica affine al silenzio («senti quello che nel silenzio ancora mancava alla giustezza del tutto»). In fondo scrivere non è l’impresa di dare nome al silenzio, un silenzio saturo di qualcosa, come una stanza colma di un profumo? Handke si avvicina con questo spirito al tema e il suo sforzo di scavare nel fondo della significatività della durata produce una tensione del dire. Si diceva «la durata induce alla poesia». Nella postfazione al poema, Hans Kitzmüller riporta un’intervista in cui l’autore spiega il motivo che lo spinse a scegliere la forma poetica: «credo che la durata pervada una persona e questa sensazione a mio avviso non può essere espressa altrimenti se non in una poesia narrativa. Non in una poesia aneddotica, ma in una che riecheggi nella vastità un qualcosa che ritorna, un qualcosa di lontano nel tempo e nel paesaggio che abbiamo vissuto e che è sempre legato alle persone che abbiamo amato». Che riecheggi nella vastità un qualcosa che ritorna. Nella parola poetica ritorna la vastità di quanto vissuto e sentito. Nel verso troviamo la sintesi della vastità.

Nel Canto mai come ora sarebbe più appropriato affermare che la durata non solo induce alla poesia, poiché Handke ne sente l’ispirazione e cerca pertanto di afferrarla, essa è poesia: un carpe diem del e nel verso? Si direbbe di sì, forse non dalla prospettiva oraziana dell’attimo, bensì dalla prospettiva handkiana della durata dell’attimo, cristallizzato nel tempo e così forte da rifarsi vivo nell’inatteso. Handke appare allora più vicino a Proust nel meccanismo di recupero di un fatto nella nostra memoria e dalla cui manifestazione traspare una nitidezza fuori dal tempo. Handke da una parte ci ha donato l’opera e il tema e dall’altra attraverso l’opera ha additato alla finalità della poesia: far perdurare quel momento, porre l’evento rivelatore nella sua ascesa metafisica, affidandola ad una parola depurata da ogni residuo, in altre parole affidandola alla purezza del poetare. Non a caso, sin dalle prime pagine, si richiama a Goethe, «maestro del dire essenziale», per il poeta austriaco l’affermazione goethiana «ci vogliono giorni, passano anni» coglie nel segno perché «la durata ha a che fare […] con il tempo della nostra vita […]».

Il Canto di Handke è un poema la cui tensione estetica lascia trasparire un intento filosofico e comunicativo tenace e durevole caratterizzato da una forte umanità e un forte attaccamento alla vita dei momenti, alla loro durata per l’appunto. Della vita tutto passa, restano, come pietre luccicanti, lampi di storie e verità fugati da un gesto, uno sguardo, una parola: «ecco, la durata è la sensazione di vivere».

© Davide Zizza

Una replica a “Peter Handke, Canto alla durata”


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