Claudia Durastanti, Cleopatra va in prigione, minimum fax, 2016; € 15,00, ebook € 7,99
La geografia sentimentale di Cleopatra va in prigione, di Chiara Tripaldi
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C’è James Ellroy che in un’intervista, alla domanda del giornalista che gli chiede perché ambientare tutti i suoi romanzi nella città dov’è nato e cresciuto, Los Angeles, risponde “La geografia è destino. Se fossi stato italiano e fossi cresciuto a Roma, avrei scritto Roma Confidential che probabilmente assomiglierebbe a La dolce vita di Fellini.
Tante volte mi sono interrogata su questa frase, così come su quella speculare di Chuck Palaniuhk, che invece di cantare la metropoli del viale del tramonto, in uno dei suoi romanzi più famosi, Rabbia, mette in bocca a uno dei suoi personaggi queste parole:
«Il motivo principale per cui la gente se ne va dai paesini di provincia» […] «è perché così può sognare di tornarci. E il motivo per cui resta è per sognare di andarsene».
Una sorta di determinismo dal sapore ottocentesco ascriverebbe ai natali il destino di una persona (e di riflesso, di un personaggio letterario), così dobbiamo assumere che chi nasce al centro parla del centro e chi nasce in provincia, invece, desidera scappare per poi raccontarla tutta la vita.
Il terzo romanzo di Claudia Durastanti, Cleopatra va in prigione, ce lo dice l’autrice stessa, “è la storia di una ragazza che cammina per Roma”.
Una ragazza, Caterina, che vive in quel triangolo di periferia est compreso fra via di Pietralata, la Tiburtina e Rebibbia, percorrendolo a piedi puntualmente per andare a trovare il suo fidanzato Aurelio, in carcere per presunto sfruttamento della prostituzione nel night che avevano aperto assieme (e in cui lei stessa si esibiva). All’uscita spesso l’aspetta “il poliziotto”, quello che arrestò Aurelio, con cui Caterina ha intrecciato una relazione parallela.
È un romanzo a più livelli, quello di Durastanti, su cui è facile trarre conclusioni affrettate nel tentativo di inquadrarlo in un genere: c’è il noir, perché uno dei protagonisti sconta una pena; c’è la periferia, perché i personaggi si muovono al di fuori delle Mura Aureliane; c’è Roma, che ha creato un genere a sé nei salotti letterari e giornalistici post moderni (Roma capitale provinciale e immobile contro Milano europea e dinamica è un cliché onnipresente), e alla periferia rimandano Pier Paolo Pasolini e il suo proletariato di borgata, che però non è un riferimento né esplicito né implicito, piuttosto un fantasma letterario che è difficile scacciare.

La periferia di Caterina
Il concetto di periferia è spesso usato contestualmente alla sua antitesi, il centro. La periferia è tale solo in relazione a quello a cui si contrappone, vive di un rapporto subalterno, dove è sempre suddita e aspirante ad essere altro da sé.
La Roma Est di Caterina, spiega Claudia, è però una periferia autonoma: non combatte il centro né tenta di assomigliargli.
[…]Da quando il dottore le ha suggerito di non forzare troppo l’anca, (Caterina) non può più correre e sollevare carichi pesanti, ma va spesso a passeggio lungo l’Aniene. Costeggia le baracche di alluminio che spuntano tra gli alberi e che le alluvioni prima o poi trasformeranno in zattere, vede delle magliette appese tra le foglie carnose e larghe e sente qualcuno ridere mentre cerca di avviare un motore dentato […].
Caterina e le sue camminate, diurne e notturne, toccano i luoghi meno battuti letterariamente della capitale: spunta fra gli altri Largo Preneste, uno snodo di autobus e tram compreso fra via Prenestina e via dell’Acqua Bullicante.
[…] A Caterina piaceva fare giri sulla tangenziale chiusa al traffico dopo mezzanotte, scendere lungo il tratto che sfiorava certi palazzi vicino a Largo Preneste e quasi ne sfondava le finestre, mentre il cruscotto tratteneva le impurità illuminate dai lampioni e i riflessi degli edifici verdi e ramati […].
La flânerie di Caterina- che, a ragione, può essere definita flâneuse – è l’esplorazione interiore ed esteriore di una città rarefatta, scevra da connotati sociologici e politici.
A questo proposito, ho pensato a Guy Debord, teorico fra gli altri della psicogeografia, che parlava della “deriva” come metodo d’indagine sugli effetti che una particolare zona metropolitana ha sull’individuo che l’attraversa:
Per fare una deriva, andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma in base a ciò che vedete intorno. Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta. Un modo per agevolarlo è camminare con passo cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l’alto, in modo da portare al centro del campo visivo l’architettura e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista. Dovete percepire lo spazio come un insieme unitario e lasciarvi attrarre dai particolari.
Ci sono tante derive nella storia di Caterina, una su tutte, il passaggio in cui attraversa a piedi il percorso che va da Rebibbia a Torpignattara, cioè la distanza che separa Aurelio dalla casa del poliziotto, un percorso che impiega circa un’ora e mezza ad essere fatto a piedi, al termine del quale arriva stremata, tanto da addormentarsi profondamente.

Importante, per Durastanti, è stata la lettura de Il contagio di Walter Siti, che cita durante la presentazione romana di qualche settimana fa (libreria Giufà, con C. Raimo), romanzo pubblicato da Mondadori nel 2008, storia di borgate e di borgatari contemporanei, o meglio, “mai chiamarle “borgate” di fronte agli assessori, ricordarsi che sono “periferie”.
Nel romanzo di Siti, però, fondamentale è la mimesi linguistica con il contesto raccontato, mentre in Cleopatra va in prigione, Caterina e i gli altri personaggi parlano un italiano neutro, raccontato in capitoli che alternano la prima e la terza persona.
C’è poi un altro elemento che contraddistingue la protagonista di Durastanti, cioè il rapporto fra quello che sognava di essere da bambina e il destino che le si è parato davanti, che Caterina affronta per amore fino a quando non si rivela in tutta la sua brutalità (l’arresto e l’incarcerazione di Aurelio). Lì, avviene lo scatto, la ribellione al destino prescritto, al sogno di ballerina classica e alla realtà di spogliarellista di night club, al padre e al fidanzato in carcere. L’unico elemento che non combatte è la periferia dove è nata e cresciuta, una periferia che attraversa e da cui si fa attraversare.
Caterina, ancora, è una donna resiliente ma non monodimensionale: era lei stessa ad esibirsi sul palco come spogliarellista, lei, la ex bambina in tutù resa claudicante da una lite con il compagno (c’è un’anca dolorante che la accompagna in tutto il racconto), prima imbarazzata infine conquistata dal gioco della seduzione mimata e dagli sguardi dei clienti.
[…] Il problema non erano gli uomini che mi faceva schifo toccare – lì cercavo di sbrigarmela senza farlo capire a Mario – ma quelli da cui invece volevo essere accarezzata, quelli vestiti bene che bevevano piano. Quando uno di quegli uomini continuava ad appoggiare le banconote sul tavolo e ti chiedeva di restare un altro po’ anche se lo spettacolo era finito, e tu gli collassavi sopra nascondendogli la faccia con i capelli […] ti piaceva.
Non c’è giudizio, su Cleopatra/Caterina divisa fra due uomini, fra l’immersione nella periferia autonoma e le sue aspirazioni di bambina, non c’è contrasto fra sogno infranto e realtà più spiccia. Cleopatra va in prigione, dall’inizio all’epilogo,- su cui il lettore ha continui indizi contrastanti, perché Caterina sceglie il suo destino facendo sembrare che non scelga mai- è la storia di una donna immersa, e non sommersa, nella sua geografia sentimentale.
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© Chiara Tripaldi