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Ritratto di anziana. “Ruggine”, di Anna Luisa Pignatelli

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Chi l’incrociava per strada senza conoscerla pensava che fosse una vecchia strana perché, ridotta com’era, si metteva ancora sulle unghie lo smalto viola. Qualcuno prendeva quelle unghie laccate come un segno evidente di ricchezze nascoste, di propensione alla seduzione e perfino alla magia nera.
Alcuni, pochi, vedendola procedere nei vicoli curva e con passo incerto, appoggiata al bastone, ne intuivano dallo sguardo schivo l’indole solitaria e dalla schiena piegata in avanti la presenza di un peso nell’anima, di un segreto che sembrava schiacciarla.
Quelli che avevano sentito parlare di lei conoscevano quale fosse il segreto di quella vedova: aveva avuto una relazione col proprio figlio e non sembrava serbarne memoria, come se quanto successo non avesse su di lei lasciato traccia.

Così si chiude il primo capitolo di un breve libro che sembra quasi dimenticare di essere una storia, diventando il ritratto di un’anziana donna di provincia che tutti chiamano “Ruggine” per il sodalizio con l’ex-randagio gatto Ferro. Un libro particolare, capace di presentare gli eventi più sordidi – l’incesto, il raggiro, l’aggressione – con la più aggraziata delle narrazioni e insistere sui dettagli più comuni – la solitudine, la vecchiaia, l’attesa della morte – per quelli che effettivamente sono: la più brutale delle violenze cui è sottomesso l’essere umano.
Ruggine è una donna anziana, vedova di un amore chiamato per cognome (“il Neri”) il cui figlio, che ha abusato di lei, è ora in una casa famiglia. Al sicuro dalla madre, pensano i suoi compaesani, che si divertono a spiarla dagli scuri delle finestre chiedendosi quando la morte, che prende la gente dai vicoli a due a due, prenderà anche lei.
Fino all’ultima pagina, e non come se si dovesse sbrigare una pratica preliminare, il ritratto di Ruggine è reso vivo dalle sue abitudini quotidiane, dai suoi acciacchi diurni, dal tono di viola che le dà la tinta ai capelli: Ruggine ingaggia battaglia ogni mattina per alzarsi dal letto, tiene il conto delle sue frequentazioni dai negozianti che la pensione del defunto Neri le permette di incontrare, trova una direzione alla sua giornata nel poter scambiare una chiacchiera con il salumiere a proposito del tempo. I suoi momenti più vitali sono quelli scambiati con il gatto Ferro, che non ha voluto castrare per permettergli di condurre quella vita di lotte e amorazzi che fa da contraltare non solo alla sua esistenza ma a quella delle anime grette e imbruttite del suo paese.

Sperava di riuscire a consumare il resto dei suoi giorni con dignità, senza che il male avesse la meglio su di lei e che, sporca e sciatta per non essere più riuscita ad alzarsi, il Sestini, padrone della casa in cui viveva, con sua soddisfazione la trovasse morta.

Ma Ruggine non è solo un’anziana donna riservata e sola di un paese di anziani. Per via del suo passato, dell’incesto subito, e del trauma che quasi l’ha resa svagata e immemore di quanto è successo, Ruggine riesce a diventare, nel proscenio perfetto di una provincia incattivita, una figurella da tragedia mancata, stregonesca nel tono viola dei suoi capelli e nell’ostinazione a portare lo smalto scuro alle unghie. Chi la incrociava per strada la vedeva così; per alcuni, pochi era solo una vecchia intristita. Solo qualcuno poteva ricostruire l’intera storia, ma solo per approfittare della sua debolezza nella speranza che lasciasse libera quanto prima la casa per i nuovi, più prestigiosi affittuari. Il cerchio che sembra chiudersi attorno a Ruggine per il possesso del suo ultimo bene, la casa, la rende circospetta, ma Ruggine non può fare a meno di stringere un legame con una ragazza, Tamara, che ha intenzione di lasciare il paese per andare a studiare all’estero. Continua a regalarle, Tamara, libri sospetti – un uomo che attende i tartari su una fortezza, un ragazzo che decide di uccidere una vecchia ed è tormentato dai sensi di colpa… – e i suoi incubi si fanno sempre più pressanti, fino a farle sospettare che qualcuno potrebbe entrare in casa, ed è su queste pagine che il libro prende la volata di una storia, senza dimenticare di voler essere il ritratto fedele di una solitudine così lacerante da costringere chi la prova ad aderire ai canoni di chi la osserva: c’è un punto del libro in cui, nella speranza che uno zingaro conosciuto affacciandosi a una finestra la porti via con sé, Ruggine scende fino a uno svicolo fuori dal paese determinata a cominciare a mantenersi leggendo il destino.

(…) si mise il vestito verde scuro, si ravvivò le labbra col rossetto che le aveva dato Tamara, l’applicò lievemente anche sulle guance, si pettinò con cura. Scese al noceto nel primo pomeriggio con il fiasco di vin santo nella cesta, un pezzo di cartone, dei bicchieri di carta e un fazzoletto viola.

Chissà se, incontrandola, ci sembrerebbe una donna sofferente, una figurella quasi tragica, una strega.

© Giovanna Amato