
In solitaria
Elles se multiplient, l’entourent, l’assiègent.
(Flaubert, “La tentation de Saint Antoine”)
La tipa dell’agenzia immobiliare non sa che dire, nemmeno riesce a guardarlo negli occhi.
«Lei vorrebbe…»
«Una stamberga in alta montagna, sì.»
«Come le ho detto, abbiamo diverse baite ristrutturate o da ristrutturare molto carine che…»
«Non carine. Nemmeno baite. E di sicuro non ristrutturate. Una stamberga mi basta. Non avete niente come una catapecchia isolata che d’inverno si copre di neve e non è raggiungibile fino a primavera inoltrata?»
«Catapecchia.»
«Sì, un postaccio che respinga, che faccia venir voglia di scappare, di girare al largo.»
«Postaccio. Ma se anche l’avessimo, mica gliela proporrei. Mi vergognerei, anzi!» tenta di ridere la tipa dell’agenzia, che non sa se essere piccata o sbigottita.
Ippolito Paracchi mica ride, però.
«Avanti, signorina, so che ha qualcosa per me» insiste. «Scommetto che in fondo al cassetto giace da anni una proposta di cui si vergogna pure, che non sa come piazzare, che non sa nemmeno come descrivere per quanto è brutta. Ecco, voglio quella.»
«Ma perché?» trema lei.
«E me lo chiede? Perché si avvicina il Natale!»
Ippolito Paracchi ha ragione a insistere: la tipa dell’agenzia – l’ultima di una lunga serie – trova nel faldone delle proposte improponibili i dati di una vecchia bicocca infilata su per il sedere del mondo dove nessuno si sognerebbe di mettere radici. Prima non se ne ricordava proprio. Con qualche titubanza mostra gli incartamenti, le mappe, alcune vecchie foto scolorite all’uomo che scalpita davanti a lei.
«Questa!» salta sulla sedia Ippolito Paracchi, e quasi si mette a battere le mani. «È proprio lei, che le dicevo? Guardi, guardi che orrenda. E me la voleva tenere nascosta? Allora, dove devo firmare?»
«Non vuole prima… che so, vederla? Contrattare? Sentire un geometra?»
«Ma siamo matti? Le feste sono così vicine, e se non riesco ad averla in tempo? Poche storie, me la dia.»
In fondo a un vallone ingrato, tutto pietre e buche, non raggiungibile se non a piedi, lungo una traccia svogliata di sentiero erto che d’inverno scompare sotto metri di neve, nella piega angusta di un dirupo che pare disegnato da un protoromantico pazzo, dove nemmeno gli elicotteri possono atterrare e gli amanti degli sport estremi non si avventurerebbero mai perché i luoghi ispirano solo una profonda, indomabile tristezza – proprio là si nasconde il tugurio messo in vendita dai parenti dell’ultimo montanaro cocciuto che ci ha vissuto senza sapere perché e ci è morto maledicendo l’universo.
«Splendida» dice Ippolito Paracchi quando vede la catapecchia, dopo cinque ore di camminata. «Qui non mi troveranno mai.»
La sovrastano cenge e crinali da cui potrebbero precipitare tonnellate di sfasciume per un soffio di vento. Solo un pazzo ci si fermerebbe, un aspirante suicida in fregola.
Del Natale, Ippolito Paracchi detesta tutto: i mezzi sorrisi indulgenti per la strada, l’odore di dolciume e vino caldo che invade anche i luoghi più protetti, la musica melensa dagli altoparlanti imposti dagli assessori, i babbi natale storpi appesi ai tetti, i presepi con le statue sbrecciate e spaiate, tutto quel via vai di pacchetti infiocchettati. Ma questo, in fondo, è niente a confronto con le feste con i parenti. Per anni le ha subite come si subisce l’insinuarsi di un’otite o di una nevralgia, ma di recente l’incarognirsi dei litigi familiari lo ha convinto a evitare ogni convegno e a cercare un luogo inaccessibile, in cui aspettare solo come un cane, come uno spettro, che le feste siano passate.
Entra nel tugurio, si bea del gelo che taglia le ossa, del buio quasi notturno del primo pomeriggio, dell’assenza di suoni, di musiche, di voci, di aliti, di vita. Non accenderà il fuoco, quindi non ha bisogno di ciocchi: non vuole che il filo di fumo dal comignolo segnali una presenza umana e consenta di rintracciarlo. In due viaggi stremanti, ha portato con sé giusto quel che gli serve per sopravvivere due settimane: libri, cibo, trapunte, torce, pile. Presto comincerà a nevicare sul serio, e quello che a lui è riuscito diventerà impossibile per chiunque altro – figuriamoci per quei sedentari dei suoi parenti, gentaglia di città che sale sul SUV per andare a prendersi il trancio di pizza sotto casa, che lamenta fitte ai muscoli per ogni minimo sforzo, che se non c’è l’ascensore rinuncia a salire di un piano. Si è allenato a quel gelo: le ultime due settimane ha dormito sul balcone, senza coperte addosso, e non si è riparato nemmeno se pioveva o tirava vento. Non si pone il problema di come scendere a valle dopo le feste. Rischiare di morire sepolto da una valanga gli sembra poca cosa a paragone di una veglia natalizia o un cenone. Quando sarà il momento di ritornare a casa, allora ci penserà. La notte, lo tengono sveglio i lontani lamenti di bestie che non conosce. Saranno cervi, con quei vocioni? E quegli altri, saranno mica lupi? O orsi? Si rigira intirizzito, terrorizzato e felice nei numerosi strati di trapunte, perché non sono le voci dei parenti, perché non c’è nulla di natalizio in quel vallone abbandonato, e gli pare di essere stato dimenticato su un pianeta ostile. In quei momenti, la beatitudine dell’essere solo e lontano è appena incrinata dal pensiero non di questo Natale, che ormai è scampato, ma del prossimo, per cui teme di dover ricominciare daccapo e inventarsi chissà cos’altro. Ai suoi non ha detto nulla, per non dar loro il tempo di organizzarsi, di elaborare piani per raggiungerlo. Lassù non c’è campo. Non lo sapranno mai. Lo daranno per scomparso, magari lo piangeranno morto. Per un attimo, lo scuote un brivido piacevole al pensiero del parentado riunito a commemorarlo proprio durante le feste.
Una mattina (è la vigilia di Natale, nel resto del mondo) la pace torpida in cui si crogiola è turbata da alcune voci provenienti da più in basso. Si affaccia alla finestra disegnata dal ghiaccio: fuori, a un centinaio di metri dalla bicocca, sulla neve alta già un metro, si sbracciano tre figure dai colori sgargianti.
«Eccoci, Ippolito, mannaggia a te!» sente dire chiaramente a uno di loro.
Li riconosce quando si avvicinano alla porta e si tolgono gli occhiali da sole: sono i cugini Carlo, Pietro e Pietro due. Che ci fanno insieme? Ippolito Paracchi ricorda bene che i tre non si sono mai sopportati, e, nel dopo pranzo di Natale, li ha visti spesso innervosirsi in stremanti polemiche su temi di politica nazionale, e finire per stizzirsi e insultarsi nemmeno tanto velatamente. Ora invece sembrano andare d’amore e d’accordo, lo chiamano a una voce, agitano le mani e i passi come avessero studiato insieme la coreografia.
«Ehi, lo sappiamo che ci sei, ti abbiamo visto! Non fare la sagoma, apri!» ridono da fuori, beati, lievi come se avessero fatto una passeggiata. «Apri, scemo, che abbiamo portato la sgnappa!»
Proprio così dicono: la sgnappa. Esibiscono un barilotto presumibilmente pieno che avranno portato a turno, su per l’erta.
«Bevetevela lì, la sgnappa, coglioni» ringhia lui dietro la porta. Chiude gli occhi e prova a non respirare più, magari così se ne andranno.
Invece i tre cugini restano, e cominciano a lavorare di ferri sulla serratura, finché non la fanno scattare e aprono. Seguono insistiti abbracci, buffetti, barzellette, brindisi iperbolici, struggenti rievocazioni. Qualche ora dopo, risa femminili turbano il suo dormiveglia. I cugini ronfano in un angolo, marci di sgnappa, e lui sta covando pensieri oscillanti tra il triplice omicidio e il diritto di recesso. Ma ora, chi sono queste? Bussano alla porta che è già buio. Ippolito Paracchi, sia pure con qualche titubanza, apre loro.
«Ippolito caro!» strilla la cugina Egle. «Caro, fatti baciare!»
La segue zia Martina, reclamando altri baci – puntuti, i suoi, per via di antichi baffi velocissimi nel rispuntare dopo l’estirpazione.
«Mamma, ma che ci fai qui?» bisbiglia Paracchi, quando dietro alle altre scopre la settuagenaria che quarantacinque anni prima l’ha partorito.
«Ma guarda dove è finito! Guarda che giri ci fa fare!» strilla sua madre, tutta una ridarella, mentre la nipotina Betta, tenuta stretta per mano, gli mostra la lingua come ha sempre fatto.
«Ti si gelasse quella lingua, ti cadesse per terra» scandisce lui allora, sperando di scacciarle con una frase scandalosa.
Ma quelle ridono, fintamente sdegnate, come dinanzi al ruttino improvvido di un pargolo, all’inciampo di un domestico, e alla fine ride anche la mocciosa, sia pure senza smettere di mostrare la lingua livida.
«Ecco la cena!» cantano in coro, disponendo in giro certe teglie apparse non si sa da dove. «Ma dov’è l’albero? Niente presepe? Ma il vischio, almeno? Sei proprio un orso!»
Lui tenta il bluff: «Ma vi sbagliate, mica è Natale, avete fatto male i conti, è per questo che non ci sono decorazioni! Il Natale è già passato, solo che non ve ne ricordate più, perché i nostri Natali sono tutti uguali, teniamo a confonderli l’uno con l’altro, ma io sono sicuro che lo abbiamo già festeggiato, ormai è gennaio, anzi siamo quasi a febbraio, non vedete?»
Indica a vanvera su un vecchio calendario le date, i mesi. E quelli ridono, scuotono la testa, lo mandano a quel paese, gli danno manate affettuose, schiaffi amichevoli. Il giorno dopo, all’alba, voli d’uccelli (corvi, rapaci, chissà che altro) in fuga dal fondovalle lo ridestano da un sonno troppo breve e leggero. Ippolito Paracchi si affaccia, scorato, già presentendo il peggio, e lascia che gli uccelli passino strillando. Ma ciò che vede con il binocolo dopo una mezz’oretta sorprende comunque. All’imbocco del vallone una piccola comitiva di lontani congiunti, zelanti come gnomi, porta sollevata sulle braccia una lettiga. E sulla lettiga dondola un enorme corpo avvolto in pizzi.
«Arriviamo, arriviamo!» strillano poco più tardi quegli gnomi, a cui non sa dare un nome, ma che ricorda di aver visto ghignare in vecchie fotografie. «Eccoci, non iniziate senza di noi!»
Bussano, e senza che nessuno si scomodi ad aprire la porta sono già dentro, in un turbinio di neve e cristalli di ghiaccio. Hanno i nasi paonazzi, le gote venate di azzurro e lilla. Battono le mani, si prendono a sberle per riscaldarsi, saltano e ridono, sbracciandosi con i parenti già arrivati.
«Pigotte! Pigotte per tutti!»
Estraggono da enormi calze di lana appese lungo tutta la lettiga un numero inverosimile di bambole di pezza di incerta anatomia, focoidi, che vengono distribuite come reliquie e diventano oggetto di generale ammirazione. Hanno posato al centro della bicocca la lettiga su cui grava l’enorme corpo, che ora leva una mano tremula, e rantola nel subitaneo silenzio: «La famiglia… la famiglia riunita… ora posso morire in pace…»
È, naturalmente, la vecchissima bisnonna, e non morirà nemmeno in quest’occasione. Rimarrà a tossire e a fissare con occhi perfidi tutti i convenuti, suscitando sensi di colpa in ognuno come nessun altro saprebbe fare. Ippolito Paracchi, vinto, si avvicina, ne studia il tremolio delle carni molli, il respiro franto, alla fine si decide e le chiede come va.
«Male» risponde lei, in un soffio. «Ma la famiglia è riunita, e per questo sorrido.»
Non sorride, però, l’espressione resta bloccata in un corruccio perenne.
«Ora posso morire in pace» ripete.
Ma non morirà.
Attorno a lei si ballano farandole, si canta, si scambiano regali, si ninnano pigotte, si ripetono le frasi del Natale precedente, stupendosi allo stesso modo, ci si stuzzica e si litiga. Qualcuno ha tirato fuori panettoni, altri un pandoro, e riparte, lassù nel gelo disumano di un pianeta alieno, l’annosa questione senza fine se sia meglio il panettone o il pandoro. Le voci si alterano, i toni si alzano. Fuori, lupi e orsi tacciono, attoniti, a sentire quelle urla, e forse si dicono che è meglio cambiare vallone, cercare per i lupacchiotti e gli orsatti angoli più sicuri. Dopo nemmeno un’ora, nel buio del vallone impietrito dal gelo, altri parenti pieni di zelo stanno trascinando, con complicati sistemi di carrucole, letti d’ospedale posti su ruote o su sci. Tra le coperte, ben intubati, altri avi dallo sguardo spento raggiungono con spaventosa lentezza la bicocca. L’aria gelida, invece di ammazzarli, sembra far loro bene. I respiri si ringagliardiscono, i polmoni si empiono, a qualcuno vien perfino voglia di canticchiare qualcosa. Tramite nuovi ponteggi degni di reggere una cabinovia, altri catafalchi scivolano tra le tenebre, guadagnando terreno centimetro dopo centimetro. La via ormai è segnata, il punto d’arrivo è chiaro: i primi arrivati, senza chiedere permesso, hanno piazzato attorno alla catapecchia luci e decorazioni collegate a un alimentatore ronzante; dopo un po’ parte anche un bel medley di canti per l’occasione, che si spande per la vallata e convince definitivamente orsi e lupi ad abbandonare quei luoghi. Bussano, bussano, non smettono di bussare. Ippolito Paracchi si fa strada tra i parenti su di giri, schiva i bicchieri di plastica colmi di spumantino da supermercato, risponde con un ringhio alle pacche sulle spalle e agli auguri in falsetto, si flette e si inarca per non beccarsi i baci bavosi sotto il vischio portato da chissà chi, e arriva alla porta. Apre, fa entrare, non guarda nemmeno più chi è, e torna nel suo angolo. A ogni nuovo arrivo partono applausi e strilli, si intonano canti, si battono con furia i piedi.
«Tu qui!»
«Vorrei vedere, è Natale!»
«Guardate, io non credo a nulla, ma non toglietemi il Natale!»
I più imbriachi già piangono, al ricordo dei loro Natali da fanciulli, quando strisciavano fino all’albero, a scoperchiare pacchi, e subito dopo a contendersi il contenuto, più o meno come bestie. Nessun regalo andava mai bene, ogni pacco era un dramma, certi doni erano visti come affronti destinati a generare faide. Eppure ora, ciondolanti, piangono e rimpiangono. La nostalgia contagia anche i più lucidi, e presto è tutto un luccicare d’occhi, un sussultare di spalle, uno stantuffare di nasi, un buttare a terra fazzolettini fradici. Dal cielo, intanto, attraverso nubi gonfie di neve, vengono calati da invisibili argani certi bisavoli supremamente vecchi, deposti dinanzi alla porta, lasciati alla pietà di chi apre.
«Ma guarda chi si vede! Lo zio Casimiro! Nonna Giuditta! Il commendator Pancrazi! Il Cavalier Spazzalini!»
Tra i parenti si nasconde sempre un appassionato di araldica, un amateur di genealogie. A lui i congiunti si sono rivolti, per capire chi sono quei cimeli fragili che si ergono tremuli sullo spiazzo dinanzi alla catapecchia. Lui, radioso, li enumera, come fossero vecchie conoscenze mai perse di vista.
«Cara, cara nonnina! La riconoscete? È nonna Amalasunta! La nonna della nonna della nonna di…»
«Ma non dovrebbe essere morta?» bisbiglia qualcuno.
«Sì, certo, e da un bel po’, come tutti questi altri. Ma è Natale!»
«Ma sicuro, è Natale! E Natale si fa in famiglia!»
Dalle tenebre, risalgono il vallone ambigui e sussiegosi certi parrucconi bianchi come la neve da cui fuoriescono sbilenchi a mo’ di candele. Alcuni sono ancora infiocchettati da fazzolettoni che tengono chiuse le mandibole e li fanno assomigliare a incongrue uova di Pasqua.
«Ma guarda, il marchesino Attilio! E accanto a lui chi c’è? Il povero, fido Gigetto! Il Generale La Tinca!»
Antichissime antenate incedono sorrette da frotte di figlie costrette al zitellaggio per accudirle, e imbruttite ai loro capezzali.
«La cara Antonietta! La carissima Eleonora! E tu chi sei, carina? Non parli? Non dici nulla?»
Si schermiscono, quelle creature tristi, nascondono i capi grigi tra i panneggi che ricoprono le vaste matrone di cui sono state le serve.
Giovanotti morti in guerra (nell’ultima, nella penultima, e via così) avanzano timidi, quasi vergognosi di non essersi potuti cambiare d’abito. Sulle loro divise, sbreghi, macchie scure, anche qualche medaglia. Ippolito li riconosce uno per uno, perché al cimitero i loro volti gli hanno sorriso dai loculi sin da quando era bambino.
«Venite, venite, cari!» dice qualcuno. «Che bello che siete riusciti a venire anche voi!»
«Un po’ di sgnappa agli eroi!» bercia un cugino, che non ricorda che la sgnappa è finita da un pezzo.
«Però» qualcuno protesta, sia pure sommessamente, «questi pretendono, ma crepa se hanno portato qualcosa.»
«Nemmeno una scatola di cioccolatini dell’autogrill.»
«Nemmeno un pandorino, per dire.»
L’ultima a salire fin lassù è la moglie – la ex moglie, a essere precisi.
«Tu sei viva» le dice Ippolito Paracchi.
«Certo che sono viva, che credevi?»
«Semplicemente non ti aspettavo» mente lui.
«Sei proprio un disastro. Piglia» dice lei, ma senza cattiveria, e gli porge gli sci. Si guarda attorno, sospirando, con quel mezzo sorriso con cui ha sempre giudicato il mondo. «Carino qui. Acquisto, affitto?»
«Vuoi qualcosa di caldo?»
«Ancora un po’ e mi perdevo, sai. Questi valloni del menga sono tutti uguali. Ti sei ingrassato, Ippolito.»
«È il nervoso, mangio troppo. Tu invece stai bene.»
«Mi prendi in giro? Dopo quello che mi è successo? Ma questi chi li ha invitati?»
È presa d’assalto dai parenti, che presto formano una coda per baciarla, abbracciarla, dirle qualcosa.
«Buon Na-ta-le» riesce la sillabare la poveretta a Ippolito, per il gusto di fargli un piccolo dispetto, prima di essere travolta dalla folla.
©Claudio Morandini