
Il cenone del Ventitré
Dopo qualche parola poco consona a un ambiente come quello fu Claudio, come ogni anno, l’incaricato a portare indietro le lancette. Del resto, era il giannizzero di padre Massimo.
Adriano, più piccolo di lui di pochi mesi ma ancora con la voce bianca dello strillatore, si rassegnò alla sconfitta solo a patto di essere lui a portare, alla fine della serata, il Bambinello nella mangiatoia.
Era il crepuscolo del ventitré ma i calendari, opportunamente boicottati da giorni per non destare sospetti, segnavano la Vigilia di Natale. L’orologio, sotto le dita meticolose di Claudio, aveva trasformato il pomeriggio in sera. I ragazzi del Clan Giovani Porcospini Volontari della Famiglia Parrocchiale di San Geriatrio aspettavano schierati, con i loro tupperware di riso agli scampi e capitone in umido, che gli ospiti della casa anziani scendessero in salone per passare insieme la notte di Natale.
Quando la vecchia Agnese apparve in cima alle scale, stretta e bianca come una filatrice fiamminga, Padre Massimo stappò la bottiglia di brachetto.
«Mi raccomando», ribadì ai tredicenni distribuendo i bicchieri, «limitatevi a umettare le lingue.»
La tavola era pronta. La vecchia Serena, donnone incline al cucito e al ripudio del proprio nome, aveva insistito per togliere l’incerata e stendere una tovaglia di lino precedentemente stirata. Nulla aveva potuto sui piatti, che erano di plastica rossa con fastidiose righine in cui si sarebbe, sapeva, incastrato il sugo. I bicchieri, da parte loro, erano bianchi, di cartone, e Serena sospirò con violenza mentre risistemò i coltellini di plastica con il seghetto rivolto dalla parte sbagliata.
Si sedettero, un ragazzino per ogni anziano. Padre Massimo, a capotavola, tese le mani per la preghiera e si assicurò di acciuffare quelle di Valeria, che aveva strategicamente deciso di piazzare alla sua destra. Tredici anni, riccioli bruni, forte lettrice di tomi adolescenziali, Valeria trovava disdicevole lo scarso amore per la lettura dei suoi compagni, i riccioli bruni alla sua età e il fatto di essere lì a prendere per i fondelli un gruppo di anziani riguardo al giorno dell’anno sul calendario. Amava, in compenso, essere graniticamente presente nel far notare ognuna di queste cose. Ma padre Massimo manteneva un profilo basso; atea di ferro, Valeria aveva stipulato con lui un patto di pace unilaterale: al primo accenno di tentata conversione si dichiarava prontissima a credere alla possibilità per un’adolescente di innamorarsi di un vampiro.
«…liberaci dal male. Amen.»
«Amen», risposero tutti.
«Scampaci, padre Massimo», urlò Adriano dal fondo della tavola.
«Liberaci, Adriano», corresse il prete arrossendo.
Quando Adriano sollevò glorioso il risotto agli scampi con un mezzo ammiccamento alla tavola, padre Massimo si ricordò che da piccolo aveva un uccellino e sperò di affogare in quel ricordo fino alla fine della cena.
Il risotto venne adorato. Qualche riserva la scatenò il capitone, che scivolava dalle forchette di plastica con sconcerto di donna Serena e costrinse molti a infilzare i bocconi all’in piedi, trasformando la seconda portata in un happening. Ma nel chiacchiericcio generale una piccola tragedia in agguato è solo più difficile da scovare.
«Signor Biagio, signor Biagio, lo sapete che non lo dovete fare», sussurrò infatti una voce cui molti davano le spalle. Pio, tredici anni, iosa di nove in pagella e crine dorato, stava togliendo al vecchio Biagio la seconda porzione di capitone faticosamente conquistata. Il vecchio Biagio vide la scena da ogni angolatura e ciascuna gli sembrò attenuante per l’omicidio.
«Ci hanno detto che siete un po’ golosone», continuò Pio allontanando il piatto sul tavolo.
«Ti hanno detto» disse il vecchio Biagio alzandosi in piedi «che ho problemi con il cibo. Che quando ero piccolo mi sognavo il fritto di pesce, quello che mettono ancora adesso nel cartoccio giallo, lo chiamavamo cuoppo da noi. Allora appena ho avuto due soldi per comprarmelo ho implorato mia madre di accompagnarmi. Lei ci è venuta sbuffando. Mi sono preso il cuoppo e siamo andati a mangiarlo in spiaggia, era pomeriggio. Non era la cena e avevo già pranzato, non avevo fame, ma l’ho mangiato tutto. Mi piaceva, ma non so perché mi stavo facendo schifo. Mia madre aspettava, io mangiavo un pezzo dopo l’altro, non dicevo una parola, nemmeno so se le ho chiesto se ne voleva. Quando ho finito mia madre ha sbuffato di nuovo e siamo andati a casa. Poi non ho cenato. Poi ci sono state delle volte che non mangiavo e delle volte che sembravo pazzo perché pensavo solo al cibo, a come mettere un boccone dietro l’altro e a cosa mangiare dopo aver mangiato, e non volevo fare niente con nessuno perché avevo paura che avrei avuto fame e avrebbero visto come mangiavo. Ti hanno detto questo?»
«Ci hanno detto che siete un golosone!», disse Pio abbracciandolo.
Forse per caso, forse per divina Provvidenza, in quel momento padre Massimo chiamò a sé i pargoli per intonare il canto di Natale, e quando il canto finì Agnese andò in cucina a preparare le teglie di esse di miele da far distribuire. Ai piatti di plastica si mischiarono i piattini da dolce, all’acqua e ai residui di brachetto si affiancarono i primi bicchieri degni di tal nome, qualche tovagliolo venne appallottolato via, qualche angolo fu sgomberato, i primi pezzi del presepe si abbatterono con il solo scopo di essere rimessi in piedi da qualche passante. I ragazzi distribuirono i dolcetti nei vassoi. Si celebrava il misterioso, euforico e allo stesso tempo stagnante rito natalizio tra la fine di un cenone e l’attesa di una mezzanotte.
Padre Massimo guardò la sala dal fondo della sua sedia. Gli anziani, a turno, cominciarono a carezzare il piede del Bambinello e con le stesse mani le guance di tutti i ragazzini che si avvicinavano loro con i dolci di miele. Una scena degna del miglior Isaia undici nove, su cui qualsiasi buon parroco di provincia avrebbe desiderato chiudere gli occhi al termine di un lungo viaggio terreno, non fosse stato per Valeria che schiumava rancore dall’altro angolo della stanza guardandolo fisso con occhi torvi.
Sospirando, padre Massimo prese un vassoio e le si avvicinò.
«Sei ancora arrabbiata con me per questa cosa?», le sussurrò tendendole un dolcetto.
Valeria rifiutò il dolcetto scuotendo la testa, poi strabuzzò gli occhi nel dubbio di essere fraintesa e annuì vigorosamente. Nella confusione afferrò anche l’esse di miele e la portò alla bocca. Padre Massimo le posò una mano sulla testa.
«Vedi, Valeria. A volte dobbiamo renderci utili agli altri, farli sentire importanti, anche a costo di mettere da parte i nostri principi. Mi capisci?»
Valeria sollevò il sopracciglio con tanta perizia che padre Massimo si ringraziò per non aver mai preso l’idoneità di insegnante di religione alle medie.
«Valeria, insomma, vale quello che diceva il tuo amico Dostoevskij, ti ricordi? La verità è a volte tanto inverosimile…»
«Professore, ho tredici anni, non lo conosco Dostoevskij.»
«Vedi? Io alla tua età lo conoscevo. Non giudicare o sarai giudicato. Mangia, stai zitta, e fammi chiedere a Claudio una cosa.»
Svicolando nella folla trovò il giannizzero e gli chiese l’ora. Erano le diciannove e cinquantasei, il che portava l’orario del meridiano anziani pericolosamente vicino allo scoccare della mezzanotte.
«Signori, un momento di attenzione per favore. È quasi mezzanotte, se Adriano puoi prendere il Bambinello per cortesia e lo porti lì, alla mangiatoia. Prima faccelo baciare. Qualcuno spegne le luci, sì?»
I pochi ordini confusi portarono un disordinato Adriano a caricarsi in braccio la statuina per qualche metro, tornare indietro e girare come nelle mappe dell’Odissea, porgere ora un piede ora una testa alle labbra degli anziani, impegnarsi a capire il gesto di Agnese che gli suggeriva di pulire con la manica a ogni bacio e accartocciarsi definitivamente in una sedia nel momento in cui spensero le luci. Quando il Bambino fu collocato nella sua mangiatoia, e tutti si chiesero se non era blasfema una tale sproporzione con i suoi genitori nonostante il mistero della Sua venuta al mondo, partì un fiero applauso e tutti si abbracciarono a lungo.
Non fu permesso ai ragazzi di fermarsi anche a sparecchiare. Era tanto tardi, dissero gli anziani ospiti; molti di loro sarebbero andati a messa con la mamma e il papà, avrebbero dovuto baciare i loro cari nella notte di Natale. Andate, tornate alle famiglie, dissero. È già stato un gran regalo, dissero, il vostro sacrificio a stare qui per il cenone.
I ragazzini si dispersero in quel mondo che faceva le otto e pochi minuti di una sera del ventitré. Padre Massimo si fermò ancora un attimo sulla porta della casa famiglia, guardò i loro cappotti allontanarsi in più direzioni, quello soffice e lento di Valeria, quello più vispo di Pio, quello di Claudio che si avvicinava ad Adriano per il sospirato scappellotto. Padre Massimo sorrise a labbra strette mentre l’aria di dicembre entrava nella sala e si voltò verso Agnese, prendendole le mani.
«Grazie, signora Agnese, grazie pure quest’anno.»
La vecchia Serena, nel suo angolo, tirò giù l’orologio per sistemare le lancette.
«Figuratevi, padre Massimo. Sono ragazzi, ci tengono, fa piacere pure a noi.»
Biagio si servì un’altra mezza porzione, a metà tra l’orgoglioso e il nascosto.
«Solo, padre Massimo, per cortesia; l’anno prossimo l’orologio di un’ora indietro ancora. Lo sapete che domani abbiamo da fare. C’è la spesa per il cenone, e il ventiquattro fanno la consegna a casa soltanto la mezza giornata.»
© Giovanna Amato
