[Si riportano qui le parole di introduzione all’incontro con Milo De Angelis per la lettura di Incontri e agguati (Mondadori, 2015). Treviglio, 12 dicembre 2015, a cura di Cristiano Poletti, Corrado Benigni e Stefano Pini, per Trevigliopoesia]
… vorrei parlarti, mio unico amico, parlare solo a te
che sei entrato nel tremendo e hai camminato
sul filo delle grondaie, nella torsione muscolare
delle cento notti insonni, e ti sei salvato
per un niente… e io adesso ti rifiuto
e ti amo, come si ama un seme fecondo e disperato.
Questi di Incontri e agguati sono i versi finali di pag. 43.
Li ho scelti perché sono bellissimi e per dire che la poesia di De Angelis viene a cercarci, davvero viene a cercarci, da sempre, e oggi ancora. Ci chiama in causa, colpisce, scuote, ci fa amare.
All’inizio di questo libro, alla morte viene dato un nome: la morte è un’officina, in cui il poeta ha lavorato e lavora, e che lo ha lavorato, lungo la via, la vita. Esistenza, fatta di niente, certo, di insonnia, ma da cui viene il “frutto”– e questo lo si può ascoltare in tutto il libro: ci sono “frutti”, “frutteti”, c’è, come abbiamo sentito, il “seme”.
Dunque la morte è un luogo di lavoro, un’officina, ed è un terreno lavorato, che dà frutti, ma è anche una persona, una figura che prende corpo. Il poeta dialoga con lei e ostinatamente, insistentemente con lei cerca un patto, ma “astuta e discontinua” – così la definisce – lo lascia (ci lascia) alla solitudine, consegna alla fissità, a un muro.
Poi in questa via ci sono gli incontri, come questo di pag. 43.
C’è tutto un coraggio, il coraggio e il tentativo dell’amicizia, nell’incontro. E c’è un sapere, figlio del sentire: sapere che nell’incontro può nascondersi il pericolo dell’agguato.
Sentire: sentenza. Alla radice di ogni sentenza c’è un sentire.
Sono quindi apparizioni e sparizioni che vibrano fra queste pagine, che legano e distanziano; brevi, fugaci abbracci che corrono via in una poesia che mai è scorrere, discorrere, ma si fissa invece nel chiodo appunto di una sentenza, nell’infinito della fine, del giudizio, dell’essere giudicati.
Ma torniamo ancora a pag. 43. Quel “niente” per cui ti sei salvato e quel “…ti rifiuto / e ti amo…” detto poi a se stesso, a un sé precedente, riportano alla mente (almeno, la mia: provo questo azzardo) il “nulla” di Zanzotto in questi versi che chiudono Così siamo, una poesia del 1962:
…
E così sia: ma io
credo con altrettanta
forza in tutto il mio nulla,
perciò non ti ho perduto
o, più ti perdo e più ti perdi,
più mi sei simile, più mi avvicini.
Questo avvicinarsi e allontanarsi persiste, lo vediamo bene, è presente sempre, è morte inchiodata alla vita ed è chiodo della poesia.
Lo sentiamo anche in questi altri versi, sempre conclusivi, di pag. 31:
… ma non posso
fare altro che una fuga partigiana da questo cerchio
e guardare il buio che ti oscilla tre le tempie e ti castiga,
figlio mio.
© Cristiano Poletti