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Menzogna romantica e verità proustiana: la Recherche secondo René Girard – di Alexandre Calvanese (seconda parte)

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A Combray si aggira lo snob per eccellenza: Legrandin, che tuona contro gli snob proprio perché è uno di essi, che proclama la sua indipendenza e rivendica la sua «mentalità giacobina»,30 e che afferma di non aver mai voluto conoscere i Guermantes quando invece il fatto di non conoscerli rappresenta il grande dolore della sua vita.31 Nella famiglia del Narratore la scoperta dello snobismo di Legrandin genera due diverse reazioni: quella divertita della madre e quella più risentita del padre, il quale «faceva fatica a prendere con altrettanto distacco e allegria gli sgarbi di Legrandin.»32 Come spiegare questa differenza, soprattutto dal lato del padre? Forse con lo stesso parametro con cui il Narratore spiega l’ostentato disprezzo di Legrandin per gli snob: «Non poteva sapere, almeno da se stesso, di esserlo anche lui, giacché noi non conosciamo mai che le passioni degli altri, e quel che arriviamo a sapere delle nostre è solo dagli altri che abbiamo potuto scoprirlo.»33 Anche il padre del Narratore cova, infatti, un’ambizione snobistica: vuole essere eletto all’Institut e per riuscire nell’impresa conta sull’appoggio di Norpois34 che però, inaspettatamente, si rivela l’ostacolo maggiore.35 Questo personaggio sembra così smentire la lettura di Girard che lo collocava tra le divinità della mediazione esterna sempre pronte a raccogliere l’appello dei fedeli ed esaudire le loro richieste ragionevoli,36 ma in realtà fornisce un esempio dinamico di mediatore che da divinità propizia (mediazione esterna) si trasforma in ostacolo (mediazione interna).
E che dire di Françoise, che considera «dei tesori follemente dissipati per un’ingrata»37 le monete che la zia Léonie regala ad Eulalie, e non per avidità di denaro ma perché destinate ad una persona che Françoise considera di rango sociale inferiore? Proust si sofferma con la consueta precisione analitica su questa vicenda, specificando che lo stesso dono, elargito a persone del medesimo rango sociale della zia Léonie, sarebbe apparso a Françoise «parte degli usi d’una vita strana e brillante come è quella della gente ricca […] che lei ammirava con un sorriso»,38 vale a dire di mediatori troppo lontani per diventare dei rivali. Basta, al contrario, annullare la distanza sociale per suggerire il confronto, e da lì la rivalità:

“Ma le cose cambiavano se a beneficiare della generosità della zia erano coloro che Françoise chiamava “persone come me, persone che non sono niente più di me”, coloro che lei disprezzava di più, a meno che la chiamassero “Madame Françoise” e si considerassero “meno di lei”. E quando si rese conto che, malgrado i suoi consigli, mia zia faceva di testa propria e sperperava il denaro – così almeno credeva Françoise – per delle creature indegne, cominciò a trovare piccolissimi i regali che le faceva la zia, a paragone delle somme immaginarie prodigate a Eulalie.”39

Lo snobismo di Françoise non manca di essere messo in evidenza in altri passi dell’opera. Uno snobismo che si orienta verso l’alto quando Jupien blandisce il suo amor proprio dicendole che anche la famiglia del Narratore, della cui condizione borghesemente agiata la domestica si sente indirettamente beneficiaria, potrebbe avere uno stile di vita altrettanto sostenuto di quello dei duchi di Guermantes – lusinga alla quale Françoise risponde con un gesto di modestia che vuol significare: «A ciascuno il suo genere; qui, siamo per la semplicità»,40 dissimulando dunque un’indifferenza per il lusso aristocratico in perfetto stile Verdurin. E uno snobismo che si orienta verso il basso quando Françoise deplora i regali che il Narratore fa ad Albertine perché Madame Bontemps, la zia di Albertine e di fatto sua tutrice, «aveva solo una domestica tuttofare»,41 collocandosi dunque ad un livello inferiore a quello della famiglia del Narratore.
Proust ci dice insomma che lo snobismo non è prerogativa esclusiva degli ambienti più ricchi ed oziosi della società; certo in quelli è più evidente, ma lo stesso meccanismo è rintracciabile negli ambienti sociali e professionali più diversi: gli ingegneri come Legrandin, i medici come Cottard, i notabili di provincia che trascorrono le vacanze a Balbec e persino le cameriere.

4.
Se le suggestioni di Girard, e gli ulteriori esempi che abbiamo fornito, sembrano confermare l’ipotesi che il male ontologico abiti da sempre nel cuore di Combray e della cerchia familiare di Marcel, un’ulteriore conferma sembra giungere dal simbolismo dell’opera proustiana. C’è un’immagine che, secondo Girard, meglio di altre prefigura la crisi dell’unità e dell’autonomia in direzione della molteplicità, vale a dire il legame di senso tra la Combray più pura dell’infanzia e i salotti mondani.
Nella descrizione che il Narratore propone del piccolo paese di provincia prevale nettamente l’idea – la rappresentazione mentale – di un luogo unitario, compatto, ben definito, riassumibile ed identificabile in un elemento peculiare:

“Vista da lontano, dal treno, quando ci arrivavamo la settimana prima di Pasqua, Combray era, in un cerchio di dieci leghe, soltanto una chiesa che riassumeva la città, la rappresentava, parlava di lei e per lei ai lontani orizzonti e poi, quando ci si avvicinava, teneva stretti intorno al suo alto manto scuro, in aperta campagna, contro vento, come una pastora le sue pecore, i dorsi grigi e lanosi delle case raccolte, contornate a tratti da un resto di bastioni medievali con un disegno così perfettamente circolare da far venire in mente certe piccole città nei quadri dei primitivi.”42

E al centro della Chiesa si trova il campanile di Saint-Hilaire «che sta alla città come la camera di Léonie sta alla casa di famiglia»:43

“E non c’era dubbio che se la chiesa si distingueva in ogni sua parte visibile da qualsiasi altro edificio per una sorta di pensiero che vi era infuso, nel campanile sembrava prendere coscienza di sé, affermare una propria esistenza individuale e responsabile.”44

“Era il campanile di Saint-Hilaire che dava a tutte le occupazioni, a tutte le ore, a tutte le vedute della città il loro volto, il loro coronamento, la loro consacrazione.”45

“[…] era sempre a lui che bisognava tornare, era sempre lui a dominare tutto, coronando le case con un pinnacolo inatteso che s’elevava davanti ai miei occhi come il dito di Dio, nascosto col corpo dentro la folla degli umani senza che per questo io potessi confonderlo con loro.”46

Se il campanile rappresenta il simbolo supremo dell’unità di Combray, quasi il suo fondamento ontologico, risulterà ancor più significativo riscontrare in esso, come fa Girard, il primo esempio di quella molteplicità negativa che prelude alla disgregazione caratteristica della mediazione interna:

“Dalle finestre della sua torre, collocate a due a due le une sopra le altre con quella giusta e originale proporzione nelle distanze che non solo nei volti umani s’accompagna alla dignità e alla bellezza, liberava, lasciava cadere a intervalli regolari dei voli di corvi che per qualche istante roteavano stridendo, come se le vecchie pietre che li lasciavano giocare fingendo di non vederli fossero divenute all’improvviso inabitabili, portatrici d’un principio di agitazione infinita, e li avessero colpiti e scacciati. Poi, dopo aver scalfito in tutti i sensi il velluto viola dell’aria serale, bruscamente calmandosi tornavano ad immergersi nella torre, ridivenuta da nefasta propizia […].”47

Nel volo improvviso degli stormi di corvi (simbolo della molteplicità), come innescato da un principio d’agitazione infinita (situazione di disordine mimetico) scaturito da un luogo divenuto inabitabile (e dunque negativo), e nell’altrettanto brusco ritorno alla torre (simbolo di ordine e unità), tornata ad essere propizia (dunque positiva), ritroviamo quel doppio movimento di allontanamento e riavvicinamento rispetto al centro che Girard aveva parzialmente descritto, limitatamente al tragitto di andata, con un anti-climax in cinque passaggi i cui estremi erano l’unità positiva di Combray e la molteplicità negativa dei salotti mondani. Volendo completare l’interpretazione della metafora, e quindi attribuire un significato anche al movimento di ritorno dal molteplice all’unità, dovremmo porci la seguente domanda: cosa significa, nel mondo romanzesco proustiano, tornare all’unità?
Nell’ambito della mediazione triangolare il passaggio dall’uno al molteplice, dall’autonomia della piccola patria verso la socialità dei salotti, determina il progressivo scivolamento dalle regioni rassicuranti della mediazione esterna verso quelle, ben più insidiose, della mediazione interna. Ma in realtà abbiamo visto che anche Combray già si sporge pericolosamente in quella direzione, e che l’unità positiva del campanile lascia intravedere in sé i primi segni della disgregazione, della finta unità. Con le uniche eccezioni della madre e della nonna – a cui il Narratore attribuisce il merito di non conoscere l’invidia48 – Combray appare opposta ai salotti mondani, ma al tempo stesso è sotterraneamente legata ad essi. Combray è unica e autonoma e al tempo stesso non lo è più. Il ritorno all’unità non può assolutamente configurarsi come un ritorno a Combray.
Nel percorso verso la molteplicità che caratterizza la vita mondana riconosciamo quella ricerca in direzione sbagliata49 che caratterizza tutta la vita del Narratore, almeno fino al momento in cui, nel Tempo ritrovato, una sorta di rivelazione – del tutto casuale in quanto indotta da un triplice momento d’estasi metacronica – non gli spalanca le porte della sua personale vocazione, spingendolo ad abbracciare la solitudine per portare a compimento la sua opera. Ma questa non è più l’autonomia un po’ cieca di chi non ha esperienza del mondo e per questo motivo è incapace di comprendere la realtà (come la famiglia del Narratore rispetto a Swann). È invece la scelta consapevole di chi è stato nel mondo e ha sperimentato la deludente dispersione dell’io nelle relazioni amorose e mondane e sceglie quindi di sottrarsi – con un atto che non può comunque essere mediato dall’intelligenza ma solo da una vera e propria rivelazione (l’estasi metacronica, la sensazione bellissima e sfuggente di essere sottratti per un attimo allo scorrere del tempo) – alle dinamiche del desiderio triangolare: la gelosia, l’invidia, il sentimento d’impotenza, l’odio per l’altro. Ammettere di aver avuto desideri frivoli e tuttavia mai soddisfatti è indispensabile per poter rinunciare a tali desideri, ma lo è anche per riconoscersi uguali a tutti coloro che li hanno avuti. E riconoscersi uguale agli altri significa abbandonare la pretesa snobistica di essere assolutamente diverso.
Per questo la solitudine dell’artista maturo non può essere la stessa del bambino che nella sua cameretta fantasticava sulle proiezioni di una lanterna magica. Il ritorno dalla molteplicità negativa all’unità non sarà assolutamente un ritorno dall’ambito della mediazione interna a quello della mediazione esterna, dagli idoli vicini e malvagi alle divinità lontane e rassicuranti, bensì, più radicalmente, una rinuncia a qualsiasi forma di mediazione (snobistica o amorosa). La rinuncia alla dispersione dell’io, alla schiavitù nei confronti del mediatore, è ciò che Girard chiama conversione romanzesca, e costituisce nel Tempo ritrovato un’esigenza stessa della creazione letteraria.50 Nel caso del Narratore della Recherche arriva proprio quando egli, ormai allo stremo delle forze, ha abbandonato definitivamente qualsiasi speranza di poter diventare scrittore e ha deciso di non sacrificare più per essa i piaceri della vita di società:

“Ma poiché sapevo, adesso, di non poter aspirare a niente di più che a dei piaceri frivoli, a che scopo negarmeli? […]
Ma proprio, a volte, nel momento in cui tutto ci sembra perduto giunge l’avvertimento che può salvarci; abbiamo bussato a tutte le porte che non danno su niente e la sola attraverso la quale si può entrare, e che avremmo cercato invano per cento anni, l’urtiamo senza saperlo, e si apre.”51

La doppia congiunzione avversativa nel volgere di poche frasi marca il duplice cambiamento di rotta del Narratore, prima verso la resa, poi verso la rinascita. In mezzo si situano il caso e la memoria involontaria che permettono una scoperta altrimenti impossibile, perché nella Recherche vale la legge individuata da Orlando secondo cui chi cerca non trova, e chi non cerca trova. Solo a questo punto l’intelligenza dello scrittore può finalmente intervenire in maniera feconda, indagando il mistero del tempo perduto e poi ritrovato. E questa indagine non può che portare, dopo aver scorto differenze che sembravano incolmabili, a riconoscere l’identità nella differenza, l’unico modo per tenere insieme ciò che altrimenti rimarrebbe diviso, opposto, molteplice. L’unità, allora, andrà intesa soprattutto come una capacità di sintesi dell’artista, come una qualità (panoramica o diacronica) della sua visione:

“In effetti, “riconoscere” qualcuno, e più ancora identificarlo dopo che non si è riusciti a riconoscerlo, significa pensare sotto un’unica denominazione due cose contraddittorie, ammettere che quello che c’era, l’essere di cui ci si ricordava, non c’è più, e che quello che c’è ora è un essere che non conoscevamo; significa dover riflettere su un mistero inquietante, quasi, come quello della morte, di cui esso è, del resto, una sorta di introduzione e di annuncio.”52

Alla fine del romanzo – o meglio: quando il Narratore sta gettando le basi per scriverlo – si perfeziona quella capacità di riunire sotto un minimo comun denominatore percezioni diverse e distanti nel tempo che era stata evocata all’inizio della narrazione, quando, proprio parlando di Swann e dell’immagine erronea che ne aveva la sua famiglia, il Narratore poteva dire:

“[…] e io ho l’impressione di abbandonare qualcuno per andare verso un’altra e ben distinta persona quando dallo Swann che ho conosciuto più tardi con esattezza passo nella mia memoria a quel primo Swann – a quel primo Swann nel quale ritrovo gli incantevoli errori della mia giovinezza e che d’altronde assomiglia meno all’altro, al secondo, che non alle persone da me conosciute nello stesso periodo, come se succedesse nella nostra vita quel che succede in un museo dove tutti i ritratti d’una stessa epoca hanno un’aria di famiglia, una tonalità comune […].”53

Quella di un romanziere come Proust, scrive Girard, è «un’arte essenzialmente storica»,54 perché consiste nel riunire frammenti sparsi in una durata temporale lunghissima e nel metterli a confronto per svelare contraddizioni o analogie che altrimenti passerebbero inosservate. «Per chiarire il desiderio metafisico», spiega Girard, «occorre che il romanziere intervenga personalmente; egli si trasforma in professore che dimostra un teorema.»55 Nel descrivere la tecnica di composizione proustiana, Girard sta descrivendo anche la tecnica di lettura da lui operata in quanto critico: riunisce e confronta parti di testo disseminate in migliaia di pagine e riconosce costanti e varianti significative che altrimenti rimarrebbero sepolte sotto il flusso della narrazione. Scompone un ordine sintagmatico e ricompone un paradigma, direbbe Orlando.56 Da questo punto di vista, Girard è letteralmente mimetico nel suo metodo di lettura della Recherche: non sovrappone uno schema di lettura, piuttosto lo estrapola dal testo, applica la lezione del suo autore, dimostrando come Proust abbia scritto un romanzo e al tempo stesso un saggio sull’arte di scrivere e di leggere un romanzo. Nella sua descrizione dei mondi proustiani Girard ha riunito, sotto uno stesso segno, due entità che sembravano assolutamente autonome, persino contraddittorie, proprio come il titolo di Principessa di Guermantes ha permesso di riconoscere, a distanza di tempo, l’inconfessabile attrazione che legava due persone in apparenza lontanissime.

(prima parte)

30 Dalla parte di Swann, I, 156.
31 Sul disvelamento dell’ipocrisia di Legrandin si veda anche La parte di Guermantes, II, 183-184 e 241-244.
32 Dalla parte di Swann, I, 158.
33 Ibid., 157.
34 La parte di Guermantes, II, 179-180.
35 Ibid., 271-272.
36 R. Girard, op. cit, p. 174.
37 Dalla parte di Swann, I, 131.
38 Ibidem.
39 Ibid., 131-132.
40 La parte di Guermantes, II, 16.
41 Sodoma e Gomorra, III, 14. Si veda anche All’ombra delle fanciulle in fiore, I, 1084, dove Eulalie è di nuovo evocata per spiegare l’ostilità di Françoise nei confronti delle ragazze della piccola banda con cui il Narratore, all’epoca del primo soggiorno a Balbec, trascorreva i suoi pomeriggi.
42 Dalla parte di Swann, I, 59.
43 R. Girard, op. cit., p. 186.
44 Dalla parte di Swann, I, 78.
45 Ibid., 79.
46 Ibid., 81-82.
47 Dalla parte di Swann, I, 78, corsivo mio.
48 Cfr. Sodoma e Gomorra, III, 148 («la nonna […] non capiva lo snobismo») e 180 («[…] il sorriso sprezzante che ho visto tante persone riservare (al contrario di mia nonna e di mia madre) a tutto ciò che non possiedono»).
49 Cfr. F. Orlando, op. cit.
50 R. Girard, op. cit., p. 255.
51 Il Tempo ritrovato, IV, 541-542.
52 Il Tempo ritrovato, IV, 631, corsivo mio.
53 Dalla parte di Swann, I, 25.
54 R. Girard, op. cit., p. 205.
55 Ibid., p. 211.
56 F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi, ed. 1992, p. 224-227.


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