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Una frase lunga un libro #30: Igiaba Scego, Adua

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Una frase lunga un libro #30: Igiaba Scego, Adua, Giunti 2015. € 13,00 ebook € 8,99

Lul è stata la prima delle mie amiche a tornare. Mi ha chiamato dopo una settimana che stava a Mogadiscio, e mi ha detto «l’aria odora di cipolla». Non mi ha detto molto altro. Io le ho fatto domande su domande. Volevo sapere se davvero era cambiato tanto il nostro paese e se noi che da più di trent’anni viviamo fuori avremmo potuto legarci di nuovo alla nuova, nuovissima Somalia della pace.

Adua parla all’elefante di marmo di Bernini, parla alle sue orecchie, parla nel cuore di Roma e racconta a noi la sua storia. Adua è somala, è stata bellissima, è arrivata a Roma negli anni settanta inseguendo un sogno e scappando da una certezza. Il sogno era il cinema, la certezza era la Somalia, era la sua storia fino a quel giorno. Il sogno sarà un imbroglio, un periodo breve che la segnerà, Roma diventerà il suo per sempre, il luogo in cui rinascere e sparire, in cui ricomparire. È l’Adua dei giorni nostri che racconta, legata a un uomo più giovane, un altro che è arrivato scappando, trovato di notte per strada, ubriaco, salvato, amato, sposato. Adua racconta la tenerezza di questa storia d’amore con la consapevolezza del suo finale, che non può essere altro che una partenza, quella di suo marito, destinato ad altri paesi europei, altre donne, altro. Adua è il suo transito, il suo salvavita e il suo lasciapassare. Il passato diventa il presente degli uomini e donne che arrivano come sappiamo (e di cui non sappiamo), in fuga, senza niente, senza accoglienza, senza speranza. E il presente diventa passato, con la Somalia che è ormai terra di business, di nuove promesse, luogo in cui qualcuno ritorna. Adua racconta e il suo racconto tesse una trama, una terra di mezzo che incrocia un’altra storia, quella che è venuta prima di lei, quella del colonialismo italiano, quella del fascismo, quella di suo padre: Zoppe.

Igiaba Scego scrive su due piani, a capitoli alterni, in uno parla Adua, nell’altro Zoppe, ci dice che per ricostruire le vite bisogna fare molto cammino, che ci vuole molta distanza prima di trovare il punto che ricongiunga, che prima dell’amore tra figlia e padre deve tornare un’altra cosa, deve tornare il significato di un padre, il suono della parola, qualcosa che ad Adua è mancato. Zoppe l’ha tenuta lontana, Zoppe ferito dalla morte della moglie ha tenuto lontano l’amore, ha tenuto lontana ogni cosa. Zoppe ha servito i fascisti, ha fatto il traduttore, ha subito e ha taciuto, un padrone è un padrone, chiunque sia, qualunque cosa faccia. In questo ha creduto Zoppe arrivando a tradire la sua gente traducendo. Tradire e tradurre, la figura di Zoppe ha reso questi verbi quanto mai vicini. Nel racconto di Zoppe entrano visioni, sogni, strane figure, c’è un peso che Zoppe porta con sé, peso che la durezza che manifesta non cancella.

La Scego scrive di una figlia e di un padre, di un rapporto prima inesistente, poi difficile, ma scrive anche della storia della Somalia e della nostra, di come le nostre origini si siano incrociate e rimaste unite. Il colonialismo italiano è  esistito: belle dame in ombrellino a passeggio per Mogadiscio, ville, gentiluomini di nome e poco di fatto, servitù, sfruttamento. Si parla poco del nostro colonialismo, ma c’è stato. E poi il fascismo, la durezza, la guerra, altro sfruttamento e orrore. Zoppe che nel periodo in cui vivrà a Roma troverà conforto in una famiglia di ebrei, si daranno conforto a vicenda, perché chi è solo, chi è minoranza sa riconoscersi. Zoppe picchiato e torturato dai fascisti, ma tenuto in vita perché serve. Zoppe e Adua perduti, perché l’emigrazione e l’immigrazione, ricordiamocelo, oltre a tutte le sofferenze e al dolore che portano con sé, sono cronache di disperazione e di perdita, di persone che non si incontreranno più. Questo è molto di più che lasciare un paese, che perdere qualcosa, ricordiamocelo.

Adua è un romanzo duro ma con ampi sprazzi di tenerezza, è un romanzo dove contano gli occhi, quando guardano e quando non guardano. Gli occhi di Adua sono occhi che ricordano, a lei un tempo passato, a noi un tempo che è già qua, e un altro che deve venire, dal mare ma anche da un tram. Ricordiamocelo.

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© Gianni Montieri su Twitter @giannimontieri

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