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Non è vero ma ci credo: ancora sulla teoria di Francesco Orlando

francesco orlandoEsiste un patto implicito che ogni lettore stipula con un testo letterario, ed è quello che Coleridge, con formula meritatamente famosa, ha definito “sospensione volontaria dell’incredulità”. In altre parole, per tutto lo spazio della finzione dobbiamo credere che sia vero ciò che leggiamo, pur sapendo che non lo è. Vero e falso non si escludono ma stanno insieme, come nei giochi che facevamo da bambini, quando un ipotetico zio interpretava per noi il lupo senza smettere per questo di essere lo zio: è il principio alla base di qualunque finzione artistica.
Quando Francesco Orlando pubblicò nel 1973 la prima edizione di Per una teoria freudiana della letteratura (titolo la cui ambizione era appena smorzata dalla preposizione), aveva dovuto innanzitutto sgombrare il campo dai pregiudizi che un’applicazione errata della psicanalisi al testo letterario aveva prodotto. Il primo pregiudizio era proprio quello biografico, per effetto del quale l’autore veniva messo sul lettino e la sua biografia scandagliata fino alla deriva del pettegolezzo, confondendo in sostanza «la vita con l’opera – lo zio col lupo.»1 In realtà l’opera letteraria è un atto creativo svincolato dalla vita di chi lo scrive: può esserci qualche corrispondenza, mai un’ingenua e precisa equivalenza. Il criterio biografico precede la psicanalisi (ne fu un grande sostenitore il critico ottocentesco Sainte-Beuve), ma è con gli strumenti psicanalitici che si potenzia, se lo stesso Freud si cimenterà nell’analisi di capolavori mettendo in secondo piano il testo rispetto al vissuto dell’autore (è il caso del romanzo I Fratelli Karamazov, spiegato alla luce dell’odio di Dostoevsky per il proprio padre).
Il secondo pregiudizio è invece quello che tratta i personaggi non come costruzioni fittizie ma come persone reali e dotate di un inconscio, recuperando per lo più opposizioni elementari, meccaniche e inalterabili che di fatto nulla aggiungono all’interpretazione. «La decifrazione perpetua dei pochi simboli fissi che entrano in quelle opposizioni, fallo e castrazione, padre e madre, stato prenatale e nascita, vita e morte, alimenti ed escrementi»2 si rivela infatti un esercizio tautologico, peraltro incoerente rispetto alle analisi cliniche dello stesso Freud, che considerava i simboli sempre e comunque in rapporto a un paziente concreto, e necessariamente ritagliati dal linguaggio. L’applicazione aprioristica di contenuti già definiti ha invece prodotto, proprio come il biografismo ingenuo, risultati esterni al funzionamento del testo: è il caso della madeleine proustiana, divenuta per molti oggetto feticcio dei genitali femminili senza che l’opera autorizzi direttamente questa sovrapposizione (a meno di non postulare, appunto, un inconscio del personaggio-narratore).
Arrivo finalmente al punto: la grande intuizione di Francesco Orlando è stata quella di riconoscere una retorica in comune tra l’inconscio e la letteratura, una retorica per effetto della quale il no e il sì convivono in dosaggi sempre diversi, senza che mai uno dei due prevalga del tutto sull’altro fino a cancellarlo. Il modello formale alla base è quello della negazione freudiana, che sostiene segretamente ciò che nega (basti l’esperienza quotidiana a confermarlo, in confessioni involontarie come “non lo dico per offenderti”, laddove invece è proprio la voglia di offendere che ci spinge a dirlo). Costruzioni di questo tipo sono una formazione di compromesso, che Orlando definisce come «manifestazione semiotica − linguistica in senso lato − che fa posto da sola, simultaneamente, a due forze psichiche in contrasto diventate significati in contrasto.»3 Anche la letteratura è una formazione di compromesso che fa convivere gli opposti, perché pur riconoscendo il versante ufficiale e conformista del mondo, ed esprimendo quindi il punto di vista dell’ideologia e dell’ordine che trionfa, al tempo stesso dà voce e solidarizza con tutto ciò che nel mondo incontra diffidenza, condanna e rifiuto. Con tutti quei desideri che non trovano spazio sufficiente nella realtà. Diventa insomma il risarcimento immaginario a quel disagio della civiltà che Freud aveva descritto come il necessario percorso di rinunce di ogni progresso. Se quindi la letteratura non ignora e non cancella affatto leggi e regole vigenti, vedere in essa soltanto l’aspetto conservatore − come fanno ad esempio i cultural studies nella loro varietà − significa raccogliere a metà (e la metà meno interessante) la sfida che ci lancia.
Secondo Orlando, infatti, ogni testo letterario «ha in permanenza il valore di un negativo fotografico della positività delle culture da cui emana.»4 Esprime quindi anche l’opposto, il rovescio, il controcanto dell’ideologia. Si fa cioè veicolo di un ritorno del represso, ma appunto non di un represso assolutamente irrelato, ma sempre determinato da una qualche repressione. Quest’ambivalenza può essere resa con una metafora grafica, la frazione R/r, Repressione/represso, che in altre parole sta per Legge/Desiderio, Ordine/Sovversione, e così via. Se Orlando usa il termine “represso” piuttosto che “rimosso”, lo fa perché quest’ultimo indica contenuti soltanto inconsci, quasi sempre legati alla sessualità. La letteratura invece, in quanto istituzione collettiva, non veicola quasi mai contenuti inconsci, pulsioni sessuali rimosse, quanto piuttosto ritorni del represso di tipo logico, sociale, politico, culturale…5 Questo suo carattere comunicativo la distingue di fatto dalle manifestazioni dell’inconscio vere e proprie, che non sono destinate alla condivisione: sogno, lapsus, sintomo nevrotico (fra queste, il lapsus addirittura si configura come disturbo della comunicazione per antonomasia). La differenza quantitativa e non qualitativa tra manifestazioni linguistiche dell’inconscio e testi letterari consiste per Orlando nel differente tasso di figuralità (cioè l’alterazione del rapporto di trasparenza tra significante e significato), che nei primi non può scendere al di sotto di un certo minimo (perché devono nascondere, pur esprimendo), nei secondi non può salire al di sopra di un certo massimo (perché devono esprimere, pur nascondendo). Si capisce allora che il ritorno del represso nei linguaggi propriamente inconsci non possa che restare autoreferenziale, opaco, e al peggio doloroso.
Ho già fornito qui un esempio concreto di cosa sia ritorno del represso in letteratura, ricorrendo a Dante. Nel canto di Brunetto Latini è particolarmente evidente in quale modo nelle opere letterarie un’ideologia forte, in questo caso addirittura di stampo teologico, non riesca comunque ad annullare la voce che la contraddice, la scintilla utopica del discorso opposto. Per quanto condannato per l’eternità, Brunetto continua a rappresentare per Dante il maestro di sempre, e addirittura incarna un’alternativa a quella stessa eternità di Dio. Il verso «m’insegnavate come l’uom s’etterna» produce infatti all’interno del poema un’interferenza scandalosa, perché parla di un altro Tempo, quello laico della cultura e dell’arte, divenuto senza fine nella speranza degli uomini. Dante non cessa di appartenere alla sua epoca, non mette volontariamente in discussione la sua ideologia, e però la bellezza della sua poesia veicola il ritorno di un desiderio negato, scorretto, inaccettabile. E per questo liberatorio. Lo aveva già capito, senza bisogno di Freud, Erich Auerbach: «La potente cornice s’infranse per la strapotenza delle immagini che essa incluse.»6 Se pure la cornice resiste e non s’infrange, deve comunque sopportare la forza di istanze contraddittorie che continuamente la mettono alla prova. La repressione insomma, che in Dante è quanto mai sistematica e autorevole, tiene sotto un represso dirompente, che rivela altre possibilità di immaginare il mondo. Questo fa la letteratura: ci spinge «a contro-pensare la realtà, a reinventarla continuamente sulla base dei nostri desideri»7 E quanto più un testo è di valore, a maggior ragione sarà percepibile la problematicità di una compresenza di opposti. Un altro esempio dallo stesso canto: «Sieti raccomandato il mio Tesoro/ nel qual io vivo ancora, e più non cheggio.» Come dire, nemmeno il castigo divino può nulla contro quel lascito poetico dentro cui Brunetto ancora in qualche modo vive, in una sopravvivenza che non ha più nulla di trascendente e oltremondano. E infine, al momento di allontanarsi, raggiunge correndo i suoi compagni di pena, ricordando a Dante uno dei concorrenti di una corsa campestre all’epoca molto rinomata, che si teneva a Verona: «e parve di costoro/ quelli che vince, non colui che perde.» Alcuni hanno interpretato questi versi in termini di performance agonistica, ma è impossibile non cogliere il sovrasenso simbolico che contraddice il giudizio teologico e rovescia la dannazione. Lo ripeto: Dante non dice queste cose sulla facciata dell’ideologia, o il suo discorso avrebbe un sapore eretico. La Divina Commedia non è però un trattato filosofico, ma un’opera letteraria, una delle più straordinarie e cognitivamente potenti mai realizzate, e per effetto di quella retorica che la letteratura condivide con l’inconscio può dire Sì e No contemporaneamente.
Ma perché R/r è un modello universalmente valido per descrivere il fenomeno letterario? Perché si tratta di un modello vuoto, da riempire di contenuti caso per caso. Un teoria letteraria del Novecento molto famosa, quella di Bachtin, proponeva qualcosa di simile alla frazione orlandiana, identificando però con il represso tutto ciò che rinvia alla corporalità, al sesso, alla liberazione degli istinti, al cibo, alle feci, e in generale a quel capovolgimento della serietà della vita che si riassume nel concetto di carnevale. Il momento liberatorio secondo Bachtin colpisce quindi invariabilmente nella stessa direzione, dal basso verso l’alto, contro le gerarchie, in favore della mescolanza e del disordine. La sensazione è quella di trovarsi sempre di fronte allo stesso rigido «aut aut: o c’è la quaresima o c’è il carnevale. E naturalmente la positività sta tutta dalla parte del carnevale e la negatività dalla parte della quaresima, e cioè dei valori seri.»8 Un modello interpretativo così schierato potrà centrare il bersaglio in certi casi, mancarlo del tutto in altri. Quando si avvicina per esempio al Don Chisciotte, Bachtin per essere fedele a sé stesso non può che vedere in Sancho Panza l’elemento carnascialesco, sovversivo e liberatorio, proprio perché incarna i valori primari del corpo e della fame, mentre l’hidalgo altro non sarebbe che il rappresentante di «un idealismo isolato, astratto e necrotizzato.» Sancho sarebbe insomma la vita che si ribella alla triste figura di Don Chisciotte, «il correttivo materiale, corporeo e universale alle pretese individuali, astratte e spirituali, ed è inoltre il correttivo popolare del riso alla serietà unilaterale di queste pretese spirituali.»9 Si capisce quanto sia fuorviante questo tipo di analisi: qualunque lettore non può non sentire che dalla parte della conservazione e del vecchio e banale senso comune c’è proprio Sancho, mentre il personaggio di Don Chisciotte, con il suo idealismo visionario, sganciato da ogni principio di realtà, incarna al contrario un represso portentoso, nobilissimo, il vero ribaltamento dell’ordine e delle gerarchie, in questo caso rappresentate proprio da un modo essenziale e materiale di stare al mondo, da un carnevale passato dalla parte del potere. Bachtin sembra ignorare che il represso (e la repressione) non attraversa inalterato le epoche, i contesti storici, l’avvicendarsi delle morali. Al livello di r piccolo possono ad esempio non trovarsi affatto le pulsioni sessuali trasgressive, anzi nella nostra epoca di costumi liberati a stare dalla parte del represso sono forse la temperanza e la castità. E ancora, non è detto affatto che il represso sia caotico, rumoroso ed euforico, può anche essere fievolissimo, inerme, un principio di sovversione quasi impercettibile – e tuttavia non meno significativo. Infine, la repressione non è per forza il lato reazionario e avvilente del represso, ma può essere presentata come qualcosa di necessario e nobile.10
Come gli esempi di Brunetto Latini e Don Chisciotte hanno già mostrato, il represso non è nemmeno un portato esclusivo dei personaggi negativi, e tuttavia la solidarietà col Male è ritorno del represso per eccellenza, al punto da scivolare spesso al di sotto di un grado di accettazione consapevole, nei paraggi del rimosso. Sono anche i casi in cui la repressione mantiene un carattere di inevitabile giustizia. Nel Macbeth noi sentiamo, perché il testo ce lo dice, che bisogna essere dalla parte dell’ordine restaurato, dalla parte di Lennox e Macduff. Il personaggio di Macbeth, uccisore di Duncan e traditore di chi si fida (la colpa più grave in Dante), possiede però la grandezza rinascimentale dell’uomo che si autodetermina, nel bene e nel male, e non può non affascinarci se pure nel biasimo. Molto più regressiva e nascosta è l’identificazione con personaggi aberranti come Vanni Fucci ladro d’altare, che squadra le fiche in una sguaiata sfida al Cielo, liberando però al tempo stesso le parti più animalesche di noi; o alcuni protagonisti di Molière, caratterizzati da un egoismo infantile, assoluto e repellente, che ci dà contemporaneamente qualche sollievo dalle restrizioni dell’essere adulti. Un represso clamoroso nella sua mitezza è invece quello rappresentato dallo scrivano Bartleby e dalla sua paradossale «astensione dall’azione e infine dalla vita»11, riassunta nella famosa formula ripetuta a oltranza: «I would prefer not to.» Tutt’altro che crudele o carnascialesco, la non-scelta di Bartleby è un impressionante desiderio di non desiderare. Quando il ritorno del represso è veicolato da un singolo personaggio, la frazione coinvolta si può declinare secondo un Non/ sono io, che sta per «sono io pur non essendolo»: va da sé che il Non è tanto più potente quanto più respingente risulta l’identificazione. Ma come detto all’inizio il represso può coinvolgere visioni del mondo molto ampie e non strettamente riconducibili ai personaggi. Pensiamo a quell’istanza antilogica e antirazionale messa in campo dal teatro dell’assurdo di Ionesco, dove i personaggi risultano stilizzati e non realistici, e ciò che prevale è una sorta di «euforia da non-senso»,12 che recupera un modo inconscio e infantile di giocare con le parole e i pensieri. Nella sua opera più ponderosa, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura (1993), Orlando ha invece individuato un represso epocale nel tempo di massima produttività e funzionalità della storia umana, dalla Rivoluzione industriale in poi: da quando cioè il mondo si è presentato come un paesaggio di merci utili e nuove, i testi letterari hanno al contrario cominciato a esibire paesaggi di antimerci, robaccia, rottami, oggetti privi di ogni efficienza. Il rifiuto materiale è naturalmente il risvolto concreto del desiderio negato.
Ma se il desiderio negato, respinto, rifiutato, di qualunque natura esso sia, può ritornare in tutta la sua forza soltanto nei testi letterari, risarcendoci e completandoci contro le ragioni della realtà, ciò avviene perché la letteratura è la sede di «un ritorno del represso reso fruibile per una pluralità sociale di uomini, ma reso innocuo dalla sublimazione e dalla finzione.»13 Perché innocuo? È arrivato il momento di esplicitarlo del tutto: il testo letterario funziona già in sé come una negazione freudiana, che per affermare nega. R/r significa anche Non/ è vero, vero pur non essendolo. Cioè qualcosa che sappiamo fin dall’infanzia, quando un ipotetico zio, imitando il lupo, per la prima volta nella nostra vita tenne insieme la realtà e la finzione.

@ Andrea Accardi

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[1] Francesco Orlando, Ricordo di Lampedusa seguito da Da distanze diverse, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 85.
[2] F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi, 1992 (Nuova edizione ampliata), pp. 21-22.
[3] Ivi, p. 211.
[4] F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Torino, Einaudi, 1993, p. 8.
[5] Stefano Brugnolo, Desiderio e ritorno del represso nella teoria di Francesco Orlando, “Between”, III.5 (2013), http://www.Between-journal.it/, p. 1.
[6] Erich Auerbach, Mimesis, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 1956, Volume I, p. 220.
[7] Stefano Brugnolo, Desiderio e ritorno del represso, cit., p. 6.
[8] Ivi, p. 10.
[9] Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Torino, Einaudi, 2001, p. 28.
[10] Stefano Brugnolo, Desiderio e ritorno del represso, cit., p. 10.
[11] Ivi, p. 12.
[12] Stefano Brugnolo, Le ambivalenze dell’assurdo nelle prime commedie di Ionesco, in Commedia e dintorni. Terzo Quaderno della Scuola di Dottorato in Letteratura e Filologie Moderne, Pisa, Felici Editore, 2013.
[13] Francesco Orlando, Lettura freudiana della Phèdre (1971), Due letture freudiane: Fedra e il Misantropo, Torino, Einaudi, 1990, p. 28.

3 risposte a “Non è vero ma ci credo: ancora sulla teoria di Francesco Orlando”

  1. L’ha ribloggato su Il Sito oppostoe ha commentato:
    Ho letto con interesse questo articolo su Francesco Orlando, uno dei primi critici letterari italiani che studiò il rapporto tra letteratura e psicanalisi. Mi ha riportato molto indietro negli anni, quando appunto Orlando scrisse il suo saggio “Per una teoria freudiana della letteratura” .
    La sua formula che, in sintesi, definisce l’approccio del lettore ad un testo letterario come “sospensione volontaria dell’incredulità” fa intuire da cosa scaturisce il piacere della lettura, ed il legame profondo tra finzione letteraria e realtà.

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