Una frase lunga un libro #22: Gianni Agostinelli, Perché non sono un sasso, Del Vecchio editore. € 14,00, ebook € 7,99
Se dopo un’osservazione sul tempo non hai modo di dire altro vuol dire che non hai nulla da dire e che quella nota sulla neve non era un prendere tempo per argomentare altro ma solo il vuoto che hai dentro
Chiudi il libro di Gianni Agostinelli e ti fai una domanda: Mi sono divertito o angosciato? Ebbene, non c’è una risposta, almeno non una sola, perché sono vere entrambe le cose. Matteo, il protagonista di questo romanzo, studente in filosofia rinunciatario, solo, per inadeguatezza più che per scelta, o per entrambe le cose (riconoscersi inadeguato rispetto al resto del pianeta non rappresenta, comunque, una scelta?), racconta un pezzo della sua vita di poco più che trentenne. Vita che si svolge in provincia, nell’Italia centrale, una vita senza amici, senza fidanzate, una vita in cui si è rinunciato a qualsiasi sport di squadra, nota fonte di aggregazione sociale ma anche di prese in giro e, di conseguenza, di altri isolamenti. Matteo è solo ma non è triste, si porta dietro un carico d’ansia, che probabilmente non riconosce, la esorcizza nel racconto, nel suo perpetuo girare in auto, ascoltando canzoni dei vecchi Festival di Sanremo. Christian, addirittura, ad alto volume. Al Bano e Romina. Può permettersi di non lavorare e girare per la provincia chiedendosi di sé. Vive con sua madre che pensa (o fa finta di pensare) che suo figlio esca a cercare lavoro, e invece Matteo non cerca niente oppure non sa cosa cercare. Il mondo lo incuriosisce e infastidisce, ci sono (e qui veniamo al divertimento) un paio di passaggi fantastici di critica alla sinistra, ad esempio. Uno in particolare, in cui Matteo (essendo troppo basso per le misure standard) pensa di farsi fare una giacca di velluto su misura, per seguire la tendenza, salvo poi desistere perché pagare tanto per sembrare più povero sarebbe stupido.
Il personaggio creato da Agostinelli riflette in maniera del tutto involontaria sui tempi e su ciò che lo circonda e lo fa divertendo, perché si guarda e guarda gli altri avendo bene in mente il senso del ridicolo, ma questa capacità, unita a quella di osservare la gente, non fa altro che sommarsi all’ansia, a un vuoto, forse riconducibile alla perdita del padre avvenuta molti anni prima, per poi scatenare un corto circuito. Matteo e la sua musica festivaliera girano, osservano, prendono appunti sulle persone, non parlano con loro, almeno non subito, fatta salva un’eccezione. Ora dopo ora, giorno dopo giorno, questo semplice guardare e registrare diventa ossessione, poi diventa rabbia, diventa paura e, soprattutto, smarrimento. Matteo a un certo punto smette di girare per le strade della sua provincia e sono le strade a girargli intorno, il paesaggio e le persone osservate lo assorbono, lui e la sua macchina diventano una specie di trottola che non sa come fermarsi. La prosa di Agostinelli vive di accelerazioni che non lasciano scampo, colpisce ma non è cinico, trova un modo efficace di raccontare questo tempo, per una volta fuori dalle grandi metropoli, e fa pensare a una cosa che è ovvia, ma non immediata: il famoso crollo dell’Occidente, dell’uomo, l’aumento delle sue paure, non esisterebbe se non si guardasse anche ai posti dove, apparentemente, le cose non accadono. Non grattacieli, ma villette. Non Suv, ma utilitarie. Non tangenziali, ma provinciali. Non aperitivi, ma centri commerciali. Nessun magazine, ma quotidiani locali. Molti vecchi, birre e autolavaggi.
© Gianni Montieri su Twitter @giannimontieri
Una replica a “Una frase lunga un libro #22 – Gianni Agostinelli, Perché non sono un sasso”
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