
Richard Ford è considerato uno dei maggiori scrittori americani viventi. E lo è.
In attesa della traduzione dell’ultimo capitolo di quella che è diventata ormai la “tetralogia di Frank Bascombe” (Let Me Be Frank with You, che chiude la serie che vede come protagonista l’ex scrittore, ex giornalista sportivo ed ex agente immobiliare Frank Bascombe appunto, iniziata con The sportswriter, proseguita con Independence day e The stay of the Land – Lo stato delle cose, in italiano), ho finito di leggere gli ultimi due libri tradotti in italiano che mi mancavano: “L’estrema fortuna” (il suo primo romanzo) e la raccolta “Donne e uomini”.
Il filo conduttore di tutti gli scritti di Ford (ha scritto romanzi brevi e molto lunghi e racconti lunghi) è la percezione di sé nel mondo, la sensazione costante di una perenne, sfuggente inadeguatezza vissuta attraverso uno spietato confronto fra l’attimo fuggito e le aspettative infrante sulla realtà ostile e frammentata, la ricerca di un assoluto qui e ora, di cui si cerca con ostinazione di dare una definizione categorica che appare impossibile e che pure, in qualche modo, ci si sente legittimati a ricercare costantemente.
I personaggi di Ford si specchiano nella realtà in cerca di significati da dare alla propria vita e a tutto ciò che li circonda. Tentativo che non può mai riuscire e che, al più, conduce ad un eccesso di attività introspettiva che vorrebbe circoscrivere il reale ad una tavola degli elementi comprensibile e riutilizzabile, e che invece di radunare il senso finisce con il disperderlo. Il loro sguardo risulta perciò sempre cinico e affilato ma inerme, un debole risvolto della volontà che si frantuma contro un universo di significanti anarchici cui è impossibile attribuire valore, o utilizzare come grimaldello per ovviare alla difficoltà di realizzare sogni, ambizioni, desideri. Sguardo in ogni caso sempre malinconico e perduto in dati di fatto, immagini, relazioni che riempiono la vita, ne saturano ogni momento con una densità che sopperisce alla leggerezza (auspicata) derivante dalla serena accettazione di ciò che il destino, la fortuna, stabilisce in modo arbitrario per ciascuno di noi.
Il risultato letterario di questa vivisezione di ogni infinitesimo movimento dell’animo e di ogni suo possibile correlativo oggettivo è un tessuto a maglie strettissime, affascinante e coinvolgente, doloroso e divertente, vivo, mostruosamente vivo: “Certo che sei proprio un tipo buffo […] Non riesci stare serio un momento. Fai proprio sembrare tutto come se ne valesse la pena”. Così Rae rimprovera il suo uomo Quinn, l’eroe (eroe si fa per dire) del suo primo romanzo (The ultimate good luck – L’estrema fortuna, 1981, traduzione di Riccardo Duranti). E ancora: “Sei dolce, ma fai sembrare le cose peggiori di come sono in realtà”: lo sguardo troppo affilato distorce, rilegge la realtà utilizzando filtri che la stravolgono, la chiudono all’angolo, in un corpo a corpo dai risultati inaspettati.
L’estrema fortuna, sostiene la quarta di copertina, è un thriller esistenziale. Sarebbe più corretto definirlo un noir e quale noir non lo è? Risulterà essere l’unica volta in cui Ford si rivolgerà alla sovrastruttura di un genere, per farsi aiutare dagli stilemi che quel tipo di codice letterario mette a disposizione: traffico di droga al confine fra Messico e Stati Uniti, personaggi ancora più border line del confine che divide due paesi, due mondi così vicini, così fluidi e al tempo stesso così diversi l’uno dall’altro; avvocati ambigui, funzionari corrotti, pistole, passaggio di denaro, carceri, morti, soldati, caldo, pioggia. Eppure il protagonista è già un personaggio di Ford in tutto e per tutto: come in ogni noir che si rispetti anche qui il protagonista ostenta una propria amara visione del mondo, un destino incerto alle spalle di cui liberarsi e sogni di pochi centesimi in un futuro che spesso non prevede prospettive più lunghe di un giorno o due.
Nei tre romanzi brevi che compongono la raccolta Donne e uomini (Women with Men: Three Stories, 1997, traduzione di Riccardo Duranti e Vincenzo Mantovani), opera matura, scritta dopo due capolavori come The sportswriter e Independence day – quest’ultimo gli valse il Pulitzer), è chiaro il percorso che Ford ha compiuto in quindici anni: non c’è bisogno che i personaggi agiscano in un contesto letterario conosciuto. Essi vivono liberi. Non hanno bisogno di sovrastrutture artificiali, né di compiere gesta epiche per giustificare il loro status di personaggi di finzione. Nel terzo romanzo breve della raccolta (“Occidentali”) il protagonista è uno scrittore (sebbene non si autodefinisca tale, dal momento che ha all’attivo un solo libro autobiografico, trascurato e trascurabile, sul proprio divorzio) che si rende conto come le persone nella vita vera non siano “malleabili” come quelle dei romanzi: “Le persone vere tendevano sempre a essere se stesse […] erano sempre più dure”. Ecco, in tutti i suoi scritti sembra che Ford abbia trovato la chiave per lasciare che i personaggi rimangano sempre se stessi, conservino la loro durezza senza per questo lasciarli in una deriva esistenziale irrisolta, noiosa o improduttiva, ma riuscendo a conservare all’interno del racconto il dinamismo spirituale che agita gli uomini veri, costruendo sulla loro fatica di vivere lo specchio su cui misurare la nostra.
Nei tre romanzi brevi della raccolta il tema ricorrente è quello del desiderio di andare oltre; di mettere una cesura fra un primo e un dopo, la velleità di chiudere e riaprire capitoli della propria vita. Nel primo e nel terzo questo avviene durante un viaggio a Parigi, leit-motiv del mito letterario americano, qui rivisitato attraverso la lente dell’incolmabile distacco culturale che separa l’americano medio dalla nobile cultura europea. Viaggio cui comunque vengono affidate speranze di rinascita. Uomini che amano donne inafferrabili e per lo più incomprensibili: Joséphine nel primo (Il donnaiolo) è la imperscrutabile, ambigua, risoluta ragazza francese che dovrebbe prendere il posto di una moglie di cui il protagonista si accorge quasi accidentalmente di non essere più innamorato; nel secondo, Geloso, è Doris, patetica, struggente, emancipata e triste zia del ragazzo protagonista che in una serata di neve attraversa mille stati d’animo diversi prima di valicare la sua linea d’ombra dell’adolescenza; Helen Carmichael nel terzo, personaggio indimenticabile, eterea, scomposta, americana midwest al cento per cento ma dal destino banalmente tragico.
E gli uomini? In apparenza sono loro a tenere le fila della narrazione, ma sono come spaesati. Arrancano in un territorio sconosciuto e accidentato. Le donne vivono di più e meglio, soffrono di più e stanno male, gli uomini non sanno come venire loro incontro; soccorrono invece il loro amor proprio illudendosi di trovare riparo dalla sfortuna o dall’inutilità della loro vita rincorrendo sogni, fate, illusioni, non riuscendo mai, se non attraverso casi fortuiti, a spostarsi dal centro della scena, a rovesciare prospettive, a rimettersi in gioco.
Donne e uomini, Women with men, come recita il titolo originale, donne con uomini, come in un continuum solidale eppure così irrimediabilmente, reciprocamente incomprensibile, indissolubile.
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© Ezio Tarantino
Nota: dal blog: Blog senza qualità