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Boschi lupi luci. Poeti dalla Basilicata # 2 – Vito Santoliquido

La rubrica Boschi lupi luci. Poeti dalla Basilicata trae la prima parte del suo nome dal titolo di una raccolta di poesie di Felice Di Nubila e si pone l’obiettivo di presentare voci poetiche dalla terra lucana. La seconda puntata è dedicata alla poesia di Vito Santoliquido, nato a Forenza, in provincia di Potenza.

Odilon Redon - Un étrange jongleur (1885); fonte wikiart.org
Odilon Redon – Un étrange jongleur (1885); fonte wikiart.org

«Aver riguardo per quell’apocrifo / dolore»: sta in questa esortazione la chiave di accesso alla poesia di Vito Santoliquido; da qui scaturisce, allo stesso tempo, la sorgente che ne illumina l’impervia bellezza. Sì, impervia, come i tornanti interminabili che occorre affrontare nel percorrere le strade della sua regione d’origine, la Basilicata. Come accade lì, anche qui ci si imbatte di rado in rettilinei e può capitare che il coraggioso inerpicarsi sia all’improvviso schiaffeggiato da uno scarno cartello che, registrando una frana che si manifesta come ineluttabile, precluda la possibilità di raggiungere la meta, almeno per la strada che ci eravamo ‘pianamente’ e prosaicamente prefigurati.  Anche qui, tuttavia, la sosta inattesa, spesso sul ciglio dell’orrido («Un estremo passo giù dalla scogliera»), dinanzi ai «funebri / barlumi», e il conseguente cambio obbligato di percorso possono riservare, e riservano, aperture altrimenti inaccessibili, visuali su colori nitidi, come forse conoscevamo soltanto dall’immaginario, dal sogno, da un’intuizione mescolata di slancio in avanti e nostalgia di un’era perduta. Sehnsucht, dunque, e il richiamo al fulcro del romanticismo tedesco e, in particolare, a Novalis che ne è suo sommo interprete non è casuale da parte mia: nei testi qui proposti anche la prosa, come in Fossili, si illumina, trascolora e trasfigura per passare alla vita autentica, che si manifesta con la chiarezza e il nitore che le ‘usate cose’ hanno da tempo perduto. «Aver riguardo» vuol dire non solo porgere l’orecchio alla musica, semplice e ardua, palese e misteriosa, delle cose e dei luoghi («pollini d’argentini / arpeggi, d’intorno»; «lingue di lupo, rose-spine del / rovo»), ma anche ripercorrere, con la sollecitudine che sgorga da una familiarità scelta consapevolmente, forme, generi e voci di una tradizione poetica che parte da lontano e arriva fino ai tempi nostri, come evidenziano alcuni titoli – Madrigale privato, Ottetto – e i tributi a poeti e poetiche, vivi e partecipati, manifesti, come per Montale e Bertolucci, ovvero intessuti nei versi, in un gioco di rimandi a figure, armonie e citazioni rivisitate e rinnovate.  Chi legge e ascolta, sa che l’esplorazione del nascosto, la ricerca nell’apocrifo daranno frutti.

© Anna Maria Curci

Acquaforte

Questi passi lunghi lenti passi tuoi
a misurare l’estate, a battere
le pulsazioni del cuore – gli alluvioni
il vento la cocciniglia quel
cerchio di fuoco
nel vespro
ad anello del mare – persiane
d’ombra le tue
dita. Non
un’orma
sulla fanghiglia dei cento
autunni fa. Eppure tu
sei qui (e l’anima mi si stilla in gocce di nubi
grigio-azzurre, che
me le bevo
con le pupille). Schiudi lente le labbra: il corpo si svela
– sembra smaltato
alabastro
acquaforte (vedi le macchie, le luci-colori calcate
sulla pelle
assiderata, dalla gabbietta d’ossa vedi
che tralucono le lanterne
crepuscolari: le
lucciole). Osservo intanto
questo corpo
questo corpo mio assopito
tronco che lo sfogliano
i licheni nevosamente sfacendosi di funghi
e rugiada se ne sta
disteso in un campo d’ondeggianti ricci nocciola e
pietre
di cielo.

.

.

Anatomie del buio

.

1

«Vengo a liberarti dal buio…»
(Tu non sai di essere la densa
oscurità, quell’angelo con l’ali
di vetro, sulfureo smeriglio)

.

2

Vedi l’oro incendiarsi
al vespero, che tu immagini
dal celeste in sfacelo
sgorghi resina e rubini, e

carbonizzandosi di poi
ci seppellisca, non prima che per un
improvviso incanto
inazzurrandoci, girasoli in altre

plaghe di lucido
ebano, petrolio palpitante

.

3

Mi baciassero pure streghe
sulle palpebre algenti
.                                      − arido, qui
nel brumoso borro insonni
incarnazioni si sospira
in gotiche fissità e devastazioni
sbigottite anime, l’ascolti?
.                                               Imperscrutabile
lucifero, aligero transiti
in spirali d’incenso
frusciandomi tuoi funebri
barlumi per le vene della notte,
aprendosi la cruna-
abisso e giù nel mestissimo
vuoto precipitandomi
la tua cura
.                   chimerica −

.

4

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . poi che contemplo nei palmi fatti diafani si avvicenderanno cieli satelliti nuvole in fuga diramanti risfolgoranti asfalti plumbeo-umidi di pioggia, sì come in ossari in santuari in maestose brulicanti brughiere che furono già psichicamente, le ustioni silenziose di una prossima glaciazione, le bizzarre stratificazioni di una remota era geologica, e sarà il perlaceo della fronte troppo fragile spazzato dal monsone, turgido cupo, e poi gli amari meccanismi al mattino del fantasma, barbagli d’albe care, gl’irrequieti lemuri del tuo lare, incerti miracolosi Orienti di cherubini, e si udranno la luce in arabeschi lenti verdissimi millimetri di muschio, le mortificazioni viola del crepuscolo, in un metamorficamente fiorire-sfiorire di larve . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

.

5

(Dal cielo-stagno
fosforico batticuore:
monotono scolo
d’allume, rame, bitume…)

*

Che siano i lieti allucinanti
purgatori, m’inghiottano
nei loro traumi di mesmerici
ronzii, di pullulanti
fuochi in novembre, e nevi, e
mentre ancora come nell’incubo
sprofondandomi già

Scheletri di plasma nebulose le
luminosissime scaturigini dell’universo

.

6

E trascolorano le tinte;
vibrano impazzite
in pollini d’argentini
arpeggi, d’intorno

.                                (come fulgidamente
c’inondarono e fluide
teneramente mi rivestono
le polveri del giorno,
d’assopite nubecola
falene, così che cinereo
invanisco invisibile
bozzolo)

.

7

.          Come sconquassa
l’accartocciata reliquia di vita:
così nel petto la sanguinante
ruggine rosa abbuiandosi sgrana
delira, rosa nell’oro vermiglia

(schiara il gheriglio dei petali-
bocche in cui riposa un serafino
della tenebra oleosa
che la pelle va screpolando)

.

8

Intorno al cor mi son venuti
amore e il nulla con la fioca
solitudine: la mia stralunata
ridevole masnada Hellequin.

.

Arbusti, sale

e se t’asciughi al sole
sempre ti resta un po’
di vento fra i capelli.

.

.

Carbonizzare come bronco

Queste stelle che brucano il viola, e la luna
fruga nella stanza. Sbucano masse illuminate: i nostri corpi,
foglie ardenti imperlate, tra bocche questo
appiccicarsi tremolii di ti-amo − fari d’auto, occhi
lucenti di civetta.

(Ma questo senso del disastro, è sempre spettro, è
il morso – lingue di lupo, rose-spine del
rovo. Quest’affetto mai così vicino, questo me così da uccidere,
fare a pezzi, carbonizzare come
bronco).

.

.

Cetacea

Un estremo passo giù dalla scogliera
− Per odio − O
per dolcezza di cadere
− Forse uno stridente stormo d’aligeri
demoni − La tua mano chiara
e cara − Mi recupera lesto dal gorgo − Lasciami
sul fondo…

Tra lo sciabordare
attorto
di muscose catene e filamenti elegiaci di canti
sommersi − Magari riscopro −
Fumoso enigma d’un male mordace
− Anima
audace d’evanescente cetaceo.

 .

Débbio

Brulichìo d’albóre
àlido, sfogandosi fuoco
al confine − lontano
pandemonio (è un fruscìo
cinereo, come di falene…)
− fermo, assorto
in questo mio utero
d’oscurità

.                 (pànico
lucido nel sonno nero).

.

Forse anche noi come le cose scure

− Scortica gratta il marmo candido
della pelle, così netto
affondo nel nero fino alla calda
pasta di tenebra, vedi che affiora
luminoso blunotte, che
nube di bitume s’aggruma e sotto
la brulla crosta di perlacei
baluginii lune
che i miei avidi occhi si mangiano come
le alghe la luce

Tu mi dici parole
di stagno, le ricopro d’un
sonno rotondo io
me l’arrotolo nella
lingua
un sogno d’ambra

− Non ho paura dell’ombra
che avvena le mani, di respirare in gola
al buio immobili sotto
alle coperte, questo paradiso
in letargo che sono le cose di qua dal velo,
le cose che nel nostro (malchiuso…)
guscio-galassia velluto
perdono la forma, dimenticano
il nome loro
vero (se mai ne hanno uno).

.

*

.
(Forse anche noi come le cose
scure, come gli spettri…)

Stiamo come immersi in un’acqua
scura, proibita

.                            anima mia

− isolotti smarriti nel pacifico
scancellato, relitti viridescenti nell’abisso
di fluttuante
.                       vita

*

Come fari allora nel vespro
fiammante scrutiamo i silenzi
del cielo per trovarci soltanto
un’eternità dopo
l’altra.

Fossili

Il giorno si denuda della luce. Un milione di supernove rosso decrepito brucano la notte. Ci osservano distanti — noi così lontani da casa — intridendo carni e incubi di materia planetaria. Non vi è aria, né pioggia o bufera, ma atmosfera diafana fonda. C’è un silenzio spesso: col corpo ne fendiamo le trasparenze colorate di cattedrale. Cento streghe (portano candele e magnolie fra i capelli mogano) rintoccano l’occasione del nostro incontro, tra luminescenze d’ambra e fiorami di falene ischeletrite. Gli occhi chiusi, le mani masticano il vuoto: ombre, ciondoliamo: due sonnambuli. Dentro il bosco inanimato questo fiume gettato tra me e te: questo fiume mitologico lungo una vita, che come l’acqua corre, in un sogno. Sostiamo a riva (un sentiero si perde tra quei funghi melliflui, lì in basso, alle radici di questo buio osceno…). Sciamano saette d’intuizioni in preda a una follia metafisica. Solo: ci guardiamo, normalmente. Assistiamo alla prosopopea del dubbio. La mistificazione di pulsazioni assiderate ci ottunde. Basterebbe invece sbrinarci. Sgrondare fantasmi. Fluttuare: ninfee bianche sulla massa di vetro. Con delicatezza, sfiorarci. Soltanto, più niente. Paradossi cortesi, però, ci compitiamo, sfoggiando serenità nodose, spade di seta, sguardi d’acciaio. E l’inverno è prossimo.

La casa dei fantasmi

Tre piccoli diavoli mi mettono il mare nel cranio, e soffiano
sonno sulle ciglia. Mi germoglia un nero arabesco sul collo: noir come
tutto oggi l’anima il cielo
gli uccelli, ma non Tu-amore, per quanto io cammini
l’universo cieco. (È il rumore dell’invisibile –
i capelli elettrici si divaricano, nella casa le cose si
spostano da sole – e la coclea è un
labirinto
che al
riverbero
si
dilata)

.

*

Sto seduto in mezzo a una sala d’attesa bianca e semi-
deserta; parlo con qualcosa che non mi capisce. (Si farnetica
come fuori dal mondo
o
in società)

.

.

Le Fate

C’erano Fate a perdita d’occhio, un
campo, sedute compite, come
in chiesa, intente all’ascolto di non so che commediola
segreta – cose dell’altro
mondo, penso tra me… Poi una che
si alza, tutta barbuta, forse
una vecchia madre, mi regala
un pupazzetto portafortuna e verdi
guerrieri in miniatura coi
capelli di fuoco e alghe
viscose – oscure bambole vudù, forse,
non saprei… – Guarda
in alto! – Draghi cremisi fanno
il cerchio, le unghie sintetiche,
la fame scheletrica (una
cagna ringhiosa balza dal buio
e ammazza mio
fratello: ho implorato
– vile – fossi inghiottito, sparisse dal mio
costato anche la vita

.

.

Madrigale privato

[…] è ancora
tua vita, sangue tuo nelle mie vene. (Eugenio Montale)

 

Sospiroso immelanconito amore −
ci fu il tempo di un voto,
cuor-di-smeriglio, a strapiombo sull’acqua
informe scura (ed erano i giorni
l’ore ceneri di futuro), non lo sai, forse.

Non era quel giuramento di bava
e mercurio alla burrasca allora
un fiammifero, se ora
sul tuo petto poso − i tuoi occhi
nocciòla, dove annuvola

ancestrale dea malinconia −, e
ascolto un tuo scosceso
battito, risuonandoti un cuore
di fauno (mai così tetra San
Marco, come stasera) a un canto: «Edelweiss»

(dolcissimamente interdetto
fatto −— smarrito il sangue in un pànico,
breve).

.

.

Mélo

…e c’è
come rimbombo di tempesta
.      la città trasparente, il vento spazza
. strami d’oro-azzurro, gonfiandosi
.                  a est una plaga di magnesio
da aver riguardo per quell’apocrifo
dolore, quel germinale
grumo d’inquietudini-carni «Migra vai
piume scalze in Irlanda,
va’ a danzare
con furia per radure di ghiaccio,
fin che nel bosco
sfogliandosi la pelle
(madida, cerea)
in preziose
scaglie di serpente non sarai
selvatico in volto
dolce d’erba nel sole al suo calare
.   − E i ricordi
i perduti (credi, ne avrà ogni volta
nostalgia la tua spoglia umana),
quelli
ti rimpolpano fanno interferenza
col presente, ti fiutano
con la devozione dei lupi al mattino,
falci di mantide (sono, forse,
tra i più sofisticati
demoni della noia, le facce-
licheni di Siberia mani
dure di betulla)», immagina, come
se trasalissi di spavento
nell’arnia molle della casa quando
fuori è nero e l’altre ombre
dormono; stralunato
languore
di un’upupa barocca,
poi che le radici
brune intorte non si staccano
dalla calce dei giorni
uguali
diorama d’orchi e fauni
spettrale wayang kulit dei tuoi lari.
E si dà la colpa al tempo. «Non puoi,
angelo, sempre salvarmi dal buio»
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ma ecco, poi me lo imparo,
ancora, che
sei tu, sei tu la cellula
di luce il favo d’oro, e allora noi
terrestri, noi falene
di fuoco bruciamo e divorïamo le tenebre,
guardaci,
in preda a una gioia
.            preistorici.

.

.

Ottetto

[…] lasciando
avverarsi senza resistenza il dominio
del nero (Attilio Bertolucci)

 

… e ormai ti sembrerà normale,
che indelebile una nube nera
si stampi sul tuo espero di miele
− indecifrabile zona annerata

del cuore (spariscono le anitre
selvatiche se s’avventurano
nel denso fumo − incarboniscono,
vedi nella luce incendïate elitre)

.

.

Sciamano silfidi

Ripullulando il buio, tarlano
monti boschi dormienti
pance di sonno (oh!, la malia
del sonno, sogno poco:
fughe brevi, verdi esclamazioni
di vita…), più di tutto
sfiocano i volti (ma il tuo,
mia gioia di fuoco, perdura
luminosissimo); e m’oscuro
più non parlo la lingua
umana, così umanamente
bruma, bufera −
sogno ultravioletto
discanto.
.                Sciamano
silfidi: è muschio che a scaglie
mi macula l’epidermide
cerea aliena, fossile di serpente.

.

.

__________

Originario di Forenza (PZ), dove tuttora vive la sua famiglia, Vito Santoliquido è nato il 26 dicembre 1989. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Filologia moderna presso l’Univeristà “Ca’ Foscari” Venezia (ottobre 2014): area d’elezione le letterature medievali romanze.
Alcune sue poesie sono uscite per Magi Editore, altre sono state accolte a suo tempo dalla stessa redazione di “Poetarum Silva”.
Cura la rubrica di poesia inedita per la rivista di libera cultura “deSidera”. Gestisce un blog personale, guidato dall’idea di associare liriche e immagini: lesommeilinterrompu.wordpress.com.

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Boschi lupi luci # 1 – Luciano Nota

14 risposte a “Boschi lupi luci. Poeti dalla Basilicata # 2 – Vito Santoliquido”

  1. è bello ritrovare la poesia di Vito Santoliquido cresciuta e più decisa nel segno.
    ricca, come già notai al primo incontro (quei quattro inediti pubblicati qui un po’ di tempo fa), di rimandi e rivolta in avanti, rivolta all’indagine dell’ombra della vita.

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  2. Gradevoli. Poesie di riflessione, senz’altro influenzate dagli autori citati, nello stile rassicurante da certame letterario, un po’ di maniera. Notevoli per un venticinquenne. Un saluto.

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  3. nessuna competizione (certame) con gli autori citati né tanto meno con quelli non citati eppur presenti.
    i due esergo, da Montale e da Bertolucci, in realtà dialogano con una tradizione di riferimento ed è fatto, a mio avviso, inevitabile per ogni poeta, giovane o meno giovane (a patto di non voler fare la parte di quelli che “a io scrivo solo, non leggo gli altri per non farmi influenzare”).
    fortunatamente Vito Santoliquido esibisce ciò che è giusto esibire; allo stesso tempo cela ciò che, non il pudore, non il decoro, la dimensione esistenziale del suo dire ritiene opportuno celare.
    spiattellare del resto non è opportuno mai, a patto di non voler ancora una volta finire nella schiera di tutte quelle voci che esibiscono il “corpo” della propria poesia senza averlo prima saputo vestire.
    noto ancora una volta, per esempio, la presenza o il ritorno al ‘madrigale” dopo i recenti esempi di Gianluca D’Andrea e Alessandro Salvi (entrambi pubblicati da L’arcolaio).
    e malgrado l’esergo montaliano non vedo traccia di montalismo di maniera; bensì vedo, noto e riconosco una ripresa ben più lontana (che non sarebbe dispiaciuta al Contini che dava in lettura a Montale le “Rime” dantesche, e che avrebbe apprezzato quel “cuor-di-smeriglio” dal sapore antico).

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    • PS
      Siccome c’è chi commenta i commenti altrui oltre che il testo, devo precisare che per maniera non intendevo quella di Montale, semmai la generazione successiva, l’ultimo Luzi, l’ultimo Bertolucci e altri poeti non sperimentali degli anni ’80-90 al cui stile mi pare molti giovani si siano un po’ adeguati. Appunto la maniera che si privilegia nei certami letterari degli ultimi anni.
      Santoliquido è bravo, tecnicamente inappuntabile e ne apprezzo anche la sapiente perlustrazione nel fiabesco (Le Fate, riletta più volte, è veramente bella). Ma il confine tra perfezione tecnica (nello stile di altri) e manierismo è molto sottile.
      Tra l’altro ci accomuna la passione per la poesia medievale, e si percepisce nella letteratura. Un saluto, a rileggerti.

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  4. credo, in quanto redattore del blog, e anche perché il primo sempre in questa sede ad avere proposto a Vito di pubblicare delle sue poesie; dicevo, credo d’avere se non il diritto, sicuramente un buon motivo per commentare.
    soprattutto quando ritengo che il commento sia depistante e carico di alcuni pregiudizi critici che noto nuovamente confermati.
    sarei ben lieto se le nuove generazioni guardassero davvero al Luzi poematico o al Bertolucci dagli anni Settanta del secolo scorso in poi.
    io, invece, vedo schiere di epigoni di correnti avanguardiste che smisero di fare scuole già quando le presunte/pretese scuole erano attive.
    ma non era questo il senso del mio commento al commento, che in realtà voleva solo ricondurre la discussione ai versi di Vito Santoliquido.

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    • Non mi va di rispondere a una prosa senza maiuscole, uno stile che mal digerisco, perciò volentieri passo e chiudo. Buona serata.

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