Di questo si tratta, di ciò che manca; del difetto, da cui il tormento. Sventolata con tenerezza la bandiera dell’eros, ma subito ripiegata, con poche parole di abbandono – per bocca di chi per amore si annulla – vediamo il finale di Inviti superflui. Il racconto si spegne «dentro a una vita che ignoro»: parole che sono l’irrevocabile segno di una relazione impossibile, frattura, sanzione di lontananza.
L’autore, con tutto l’amore che lo nutre, passa attraverso le stagioni, «in rinvio di morte».[1] Le percorre e al contempo le oltrepassa. «Ma il tempo che avanza / vedete, è solo un breve passo / in ciò che eterno resta», ci dice Rilke.[2] Già, la «cosiddetta poesia»… che è dappertutto e non c’è mai, manca, sempre. Come manca il tempo, del resto. È un tempo più che altro dimentico di sé a stagliarsi sul fondo di Inviti superflui. Se tempo è misurazione, prodotto dell’uomo, l’amore no, si produce solamente attraverso l’uomo e per questa ragione possiamo sì comprenderlo ma non interamente capirlo, non dominarlo: l’amore sfonda, eccede ogni misura. E, come la poesia, manca, sempre; e insegna, anzi disegna la strada, un cammino solitario.
L’autore allora in parte è l’amore, manca a se stesso, e in parte, invece, è alle prese con un amore antenato, primigenio e impersonale. Tutto lontano, lontanissimo, come un favoloso inverno «dove si visse insieme senza saperlo».
All’inizio del racconto vediamo il protagonista stringersi in una favola. Poi, subito, la magia cara all’autore prende corpo, cresce in tutta la sua voce. Voce che si dà per evocazione al cui centro si pone il silenzio. Sono percezioni, o meglio premonizioni, prima e più delle parole. Da questo silenzio, la favola: o animarla, sciogliendo i nodi dell’esistenza semplicemente tacendo («poiché le anime si parlano senza parola») o morire in essa, ammutoliti («né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio»).
Con Buzzati siamo dunque di fronte a uno specchio. Occorrerà trovarsi o perdersi, ricordarsi o dimenticarsi. Riflesso in questo specchio vediamo appunto l’amore eccedere noi e «il tempo, questo quadro di noi».[3]
È così, di stagione in stagione. L’inverno è rifugio dal vento freddo e dagli eventi, dove si prepara il mistero, fatto di antico e di incantato. La primavera poi, nella vastità della malinconia, sta dentro cieli grigio-bassi, emblemi di un nord in cui vagare e vagheggiare, complice la città, l’incantesimo delle periferie. Quindi l’estate, con l’intero suo segreto trattenuto nelle sue manifestazioni naturali. E l’autunno infine, che fa vibrare l’inquietudine intorno a uomini e cose, la vita con i suoi fantasmi. E di nuovo, sullo sfondo, la città.
Un’inquietudine dolce accompagna le visioni di Buzzati, di cui sovrana è la notte, là in fondo, spessa, pronta a tutto con le nostre ombre. Notte che sospende la ragione, cuce addosso l’ignoto. Come la notte dipinta nel 1934 da Pavese nel suo Paesaggio, dove «le grandi campagne / si fondono in un’ombra pesante», dove «ogni pianta ha un suo freddo sudore nell’ombra / e non c’è più che un campo, per nessuno e per tutti».[4] Come la morte, che impone di tornare a se stessi,confusi «tra innumerevoli ombre». Che sia campagna o città, sempre e da sempre dell’uomo e della sua notte si parla; dell’andarsene, alla ricerca di sé, un sé interamente solo. Con la vertigine addosso, in caducità consapevole, fino all’estraneità da se stessi.
Per scrivere di questo silenzio, il ricordo pare l’unico termine possibile: un «ti ricordi?» infatti batte incessantemente a ritmare il racconto, al pari di un reiterato «ma tu» che biforca di continuo il sentiero.
Come se in Inviti superflui, della cronaca di un amore emergesse soltanto l’essenza, quello che resta: l’attesa.[5] Sempre, al di là della cronaca, del farsi degli eventi.
In mezzo al superfluo e come in mancanza di vista, s’infittiscono via via immaginazione e mistero passando così a un grado superiore d’amore, di mancanza. Nella luce del distacco, dentro la musica del vuoto, mentre una tensione decisiva ricovera sempre più l’amore nella casa del linguaggio.
Per questo, alla fine, in Buzzati troviamo un uomo che a ben vedere non sa dire no. Che diretto contro se stesso, contro ogni ragione della mente, abbraccia la sconfitta amorosa. Nel suo niente, volendo ancora «cose insensate, stupide e care». Perché in questa speciale dimora del linguaggio può esserci quello che non c’è. Essere e niente, nient’altro se non la confessione di un desiderio che non smette, che come una poesia dice:
non rinuncio a vederti
ma sono solo,
posso solo
pensarti
«e mi piace dirti queste cose».
Cristiano Poletti
[1] L. F. Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, Milano 1992, p. 90 (trad. E. Ferrero).
[2] R. M. Rilke, I Sonetti a Orfeo – XXII, Garzanti Milano, 2006 (trad. R. S. Virgillito).
[3] L. F. Céline, id., p. 95.
[4] C. Pavese, Lavorare stanca, in Le poesie, Einaudi, Torino 1998, p. 23
[5] Riferimento esplicito al film Cronaca di un amore di Michelangelo Antonioni (1950): «Aspettare è una parola che mi piace. Tutti aspettiamo» si ascolta nei primi minuti del film.
Una replica a “Rileggendo gli Inviti superflui di Dino Buzzati”
L’articolo mi ricorda la fabbricazione del volume “L’attesa e l’ignoto”, libro di saggi dedicati appunto a Dino Buzzati e pubblicato dalla mia Arcolaio. Il saggio di Cristiano si dota di un dettato a singulti che rende ancora più interessante la materia trattata. Ciaao, Cris. Bei ricordi milanesi! Un saluto a tutti!!!
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