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Anna Maria Farabbi, Abse

Farabbi_abse

Anna Maria Farabbi, Abse (Ponte del Sale, 2013)

Nota di lettura di Anna Maria Curci

La prima tappa del mio viaggio nella scrittura di Anna Maria Farabbi è avvenuta attraverso le poesie in dialetto umbro contenute nella raccolta Guardando per terra. Ed è stata subito una esplosione di giallo. Suono giallo, come già scrisse Kandinsky nell’omonima pièce teatrale, Gesamtkunstwerk, esempio di teatro espressionista che porto idealmente con me, sempre. Colore giallo denso e cocente, fuori dai contorni, incurante delle regole, ché la natura cresce e dilaga, si espande e si increspa in maniera sempre inaspettata e imprevedibile:

GIALLO
Io so nbotto giallo ntol cervello tsitto
dla soletudine. L’epo de lujo
che coce.
Lmiele.

So lmiele che nengue
drent’a la trippa dla notte:
ogne d’oro
lvento.

GIALLO

Io sono un’esplosione gialla nel cervello muto
della soletudine. L’ape di luglio
che scotta.
Il miele.
Sono il miele che nevica
dentro la pancia della notte
ungendo di oro
il vento.

Poi, attraverso la musica di Vincenzo Mastropirro, sono arrivate parole e note de La bambina cieca e la rosa sonora e, nel 2013, Abse, un testo che Ombretta Ciurnelli, nella bella ed efficace recensione per “Periferie” correttamente definisce «un prosimetro». Un’opera che è un viaggio, nella terra umbra e dalla terra umbra per tutto ciò che è umano, un’opera varia eppure straordinariamente unitaria nel suo seguire filo e cruna di colei che scrive e cuce e percorre e che così chiaramente esordisce – un programma chiarissimo il suo, non invettiva, non proclama, non falsamente dimessa dichiarazione di resa – nella sua professione di fede:

Io credo nel credere.

Per credere faccio l’orto e il pane. E imparo ogni giorno a tacere lavorando, tessendo il tempo, accettandolo.

Imparo i significati del fare, del rispettare e amare le creature che sorgono e, sorgendo, immediatamente invecchiano. Benedico l’invecchiamento: il mio, prima di tutto. Canto la poesia dentro di me, prima ancora di agire nell’alfabeto. Viaggio non verbale tra gli elementi.

(p. 8)

Ha una trama, questo viaggio che attraversa l’abse – espressione del dialetto umbro di Montelovesco, tra Gubbio e Umbertide,  per indicare il nulla, espressione che in quel dialetto paterno è vicinissima a “l’abise”, il lapis, la matita, espressione alla quale collego idealmente il verbo latino absum – e non scantona, non desiste, ma trova e raccoglie, volti e creature e terra e odori, colori, ancora, colori:

TRAMA

ho attraversato l’abse, il nulla
nel nulla ho trovato un paese
nel paese sono entrata
attraversando questi nodi pubblici:

la prima porta
la bottega dell’acqua
l’osteria del buio rosso
la piazza
la scuola
la biblioteca
l’ostia
l’asilo
l’ospizio femminile
il cimitero

ho infilato ogni filo creaturale nella mia cruna interiore
nascendo questo poema

io viaggio e canto
portando ovunque  comunque
l’ io profondo nel mio corpo    che è la mia casa

(p. 7)

« e dice/ che trapassare al nulla non è male» scrive Giovanna Bemporad in Esercizi vecchi e nuovi del 2011: qui, in Abse, non c’è abbandono, non c’è deliquio, non c’è trapasso, ma vista ferma e gesto accogliente, passo coraggioso e sosta consapevole, intenzionale segno di riflessione.

Dalla scrittura «sull’anima del ciliegio», dalla scrivania che non spezza mai il filo che conduce a strade ed esistenze, si sprigiona il canto della memoria, che la dedica esprime in toni delicati e vibranti allo stesso tempo, pegno e impegno al ricordo:

«Dedico il mio lavoro a Tereska, una bambina cresciuta in un campo di concentramento, fotografata da David Seymour nell’atto di  disegnare la sua casa  dentro il nero di una lavagna, in un centro psichiatrico, in Polonia nel 1948. La sua faccia brucia e nevica nello stesso tempo: mi chiede di restituire il mio lusso, di essere onesta fino in fondo, di rispondere a voce alta del mio fare, del mio andare, della mia letteratura grassa che manca ancora di rispetto verso i poveri, i fulminati, le creature che con il proprio petto strappano il filo spinato, liberando i  prigionieri. Ho trovato la sua fotografia tra mille altre, su un banco, durante uno dei miei viaggi. Da allora è dentro di me, come un’eredità che scalza di netto il superfluo, impegnando la mia aorta.»

Una scrittura che cammina, cammina «tra chi scrive versi ignorando la poesia», cammina ed entra attraverso porte, varchi e ingressi, ciascuna con la propria storia.

«Passo la soglia, richiudendo la porta dietro di me, cerimoniosamente. Sento la memoria e il presente di quel legno che annuncia tutto il paese.»

Le immagini annotate in questo viaggio oltre più di una soglia hanno la forza e la nitidezza della poesia di Christine Lavant  – penso a C’è odor di neve della poetessa austriaca per la quale Thomas Bernhard ebbe parole e sentimenti di genuino elogio e leggo in Abse:

vedo cadere delle noci di neve
diventano arance attraversando il tramonto

torno all’eremo pensando allo stagno gelato
i pesci rossi immobili

                     venticinque gennaio ore sedici
                           inverno sul ponte

(p. 15)

Una poesia che si nutre della terra, che ne ha scelto la cura, nel rispetto dell’avvicendarsi delle stagioni:

Cenando accendo la candela perché festeggio
l’orto annuncia primavera

domani mattina zapperò sotto il respiro e la scrittura
delle rondini

ventuno marzo ore venti
                                                  imminenza

(p. 17)

Mai, neanche per un momento, dimentica questa poesia il pegno e l’impegno con la memoria, non c’è traccia di Arcadia qui. Mentre i piedi, talvolta «dimentichi del loro potere», mentre la vita sì, lei sa sempre di condurre, il pensiero corre verso «popoli in carcere e in manicomi e in campi di concentramento» e dona alla parola la sua qualità, la qualità: è parola responsabile che si lavora, zappando l’orto e scrivendo e pestando e pregando:

il mio piccolo pavimento scricchiola a furia di pestarlo
ci sono popoli in carcere in manicomi e in campi di
concentramento
creature con la pena di morte    con la miccia accesa in
corpo
io pesto e prego
lavorando la parola responsabile

venticinque giugno ore diciannove
                  la parola sul pavimento dell’arca

(p. 20)

Amore è «parola responsabile» nella scrittura di Anna Maria Farabbi, è, anch’esso, indissolubilmente legato a una pacata, ferma e sempre rinnovata professione di fede nel “coniugarsi a tutto”, attraverso e poi oltre l’unione con il “tu” che si ama, è tutt’uno con la percezione di sé e degli altri, di sé con l’altro da sé, insieme su questa terra:

mi chiamo annamariafarabbi    vengo dalla terra
scrivo argilla e parlo aria   accendo il fuoco per cuocere
le parole  e mangiarle con te

ho passato il confine da bambina
perché la mia famiglia non era casa né cuore
non ha scolpito le linee del mio palmo

ho studiato  il vuoto
dell’ago
ora cucio direttamente con le dita
e con il filo che mi nasce dal corpo

ascolto te    il tuo suono tra le righe della pioggia
mentre spargi la lingua nella mia bocca

intensamente intimamente

ma oltre te
umilmente   amore mi coniuga a tutto
togliendo all’io l’io

                                                         nome e bacio

                                                giocando a mosca cieca

(p. 32)

La lingua della parola responsabile sa trovare il modo più limpido – originale, con un ritmo e una musica propri – per rendere questa costante e sempre nuova  “coniugazione”.

Canto tutto questo
scrivo poesie per terra come i madonnari

Le voci, di un’anonima madonnara, di un barbone, da luoghi di morte e distruzione – dopo il terremoto a L’Aquila, nell’Emilia, dai campi di sterminio, dalle fosse comuni, dall’eccidio dei monaci tibetani  – si levano insieme a quella di Anna Maria Farabbi, che scrive e prende appunti e registra e raccoglie, accoglie e sfoglia pagine di diario e storie, da Gaza, dal Pakistan, dal manicomio, dalla strada, dall’ospizio femminile, dal cimitero, dai binari e il tritolo e Peppino Impastato, tende l’orecchio o l’appoggia sulla terra, per meglio cogliere, come in Africa, come sappiamo dai nativi d’America. La lingua della parola responsabile torna a essere, talvolta, il dialetto umbro:

l’abise lguaderno e la lengua nme

camino la frontiera    sto tsitta
fora spancella più tsitto de me
lbianco me schiara e me nengue drento
me scrive lsilentsio

i so solo che da cinina mè nuto adosso lvento
e ma buttèto nterra
pu so armasta sola ncla terra
ho sentuto desse gnente
e nduelle

i so solo nfilo femmina ntlabse
ntra che ltempo lvento me magna e msona

la matita il quaderno e la lingua in me

cammino la frontiera    sto zitta
fuori nevica più zitto di me
il bianco mi schiarisce e mi nevica dentro
mi scrive il silenzio

io so solo che da piccola mi è venuto addosso il vento
e mi ha buttato in terra
poi sono rimasta sola con la terra
ho sentito di essere niente
e in nessun luogo

io sono solo un filo femmina nell’abse
tra che il tempo il vento mi mangia e mi suona

(p. 46)

Arca, tenda è la parola responsabile e ha un suo dizionario, canta «la lievità dentro l’orrore della perdita»:

la poesia deriva dalla cultura della tenda
tappeto che viene a me per uscirmi dalle mani

sostanze fonetiche gutturali palatali dentali labiali
elementali

fasi lunari in un lunghissimo filo tra i nodi

illuminati dall’interno

dizionario

(p. 86)

La «nomade contadina di sé stessa» racconta:

I compagni della carovana cavalcando i cammelli
sono tornati indietro
disperatamente alla prima acqua dell’oasi.
Mi hanno lasciato il peso.   Il peso
è sale bianchissimo. Attraverserà con me il deserto.

(p. 98)

Il cammino prosegue, tra l’acqua dell’oasi e il fuoco del camino, la sabbia del deserto e le alture dell’Appennino umbro, talvolta mano nella mano con la nonna.  Lia, lei in dialetto, la poesia, è, come colei che la scrive – creatura e coscienza,  natura e cultura – camminante, incontra figure mitologiche e bibliche, si affianca alle esistenze che incontra e sa tacere perché a queste sia data la parola, è liturgia, è Zeltwort (Paul Celan), è shekinah che da lungo tempo ha preso le distanze, individuandone impostura e imposizione,  dalla triade «dogma verità potere».

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Anna Maria Farabbi è nata a Perugia il 22 luglio 1959. Ha pubblicato numerose opere di poesia, narrativa, teatro, saggistica e traduzioni dall’inglese e dal francese.

Bibliografia

Opera edita poesia:

Firmo con una gettata d’inchiostro sulla parete, Scheiwiller,1996 in 7 poeti del premio Montale.
Fioritura notturna del tuorlo, Tracce, 1996, riedita da Blu di Prussia, 2011.
Il segno della femmina, Lietocolle, 2000 con cd.
Adluje’, Il ponte del sale, 2003.
Kite, su portfolio di 9 opere grafiche di Stefano Bicini, Studio Calcografico Urbino, 2005.
La magnifica bestia,Travenbooks/Alphabeta  (bilingue in italiano e tedesco) 2007.
Segni, con opere grafiche di Stefano Bicini, Studio Calcografico Urbino, 2008.
In Nomine, con incisione di Simonetta Melani, Due Lire, 2008.
Larosaneltango, canzoniere per musica di Diego Conti, Studio Calcografico Urbino, 2008.
La neve, Il pulcino Elefante, 2008.
La luce esatta dentro il viaggio, Aljon, 2008.
Solo dieci pani, Lietocolle, 2009.
Avemadrìa, Lietocolle, 2011.
Biblioteca in Almanacco dello specchio, Mondadori, 2011.
Abse, Il ponte del sale, 2013

Opera edita di saggistica e traduzioni:

Kate Chopin: il risveglio, Regione dell’Umbria Centro di Pari Opportunità, 1997.
Alfabetiche cromie di Kate Chopin, Lietocolle, 2003 (monografia su Kate Chopin.).
Un paio di calze di seta, Sellerio, 2004 (saggio e traduzione di racconti di Kate Chopin)
Il lussuoso arazzo di Madame d’Aulnoy, Travenbooks /Alphabeta, 2009 (saggio introduttivo e traduzione di favole di Marie-Catherine d’Aulnoy)

Cura dell’opera:

Luce e Notte, esperienza dell’immagine e della sua assenza, Lietocolle, 2008.
Antologia di Ammirazione Femminile per l’Associazione Il Filo di Eloisa, Lietocolle, 2008.
cura e traduzione Agenda delle Fragole, Lietocolle, 2011.
cura dell’opera poetica postuma di Paola Febbraro, Stellezze, Lietocolle, 2012.

Teatro:

la bambina cieca e la rosa sonora, Lietocolle, 2010, su musica di Vincenzo Mastropirro, voce di Enrica Rosso, Massimo Achilli per la multivisione, per la pittura Paolo Sciancalepore.
la morte dice in dialetto, Rossopietra, 2013

Opera edita di critica d’arte:

Maria Cammara, Poggibonsi, Lalli Editore, 1999.

Opera edita di narrativa:

Nudità della solitudine regale. marginalia, Zane Editrice, 2000.
La tela di penelope, Lietocolle, 2003.
Leièmaria, Lietocolle, 2013

Opera edita di narrativa per ragazzi:

Caro diario azzurro, Kaba edizioni, 2013

Monografia sull’opera:

Francesco Roat, L’ape di Luglio che scotta, anna maria farabbi poeta, Lietocolle, 2005.
Milena Nicolini, Attraversamenti di Abse, Rossopietra, 2013

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5 risposte a “Anna Maria Farabbi, Abse”

  1. Splendido pezzo, Anna Maria. Illuminanti le molte connessioni da te proposte (sarò di parte, ma mi commuovono in particolare quelle con poeti e scrittori di lingua tedesca). La tua lettura è chiara, circostanziata ed appassionata; impagabile il corredo bibliografico. GRAZIE.

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  2. Leggo le tue parole con grande riconoscenza, Antonio, tanto più che sono formulate da chi, come te, ha grande attenzione, come merita, per la scrittura di Anna Maria Farabbi. Attenzione per un viaggio di esplorazione i cui pregi si rinnovano e si estendono a ogni lettura.

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