Scriverò qualcosa su di un argomento di cui non sono competente. Mi occuperò di critica d’arte. Lo farò però dal punto di vista di un teorico della letteratura, quale provo ad essere. Qual è il punto? Mi domando se le ipotesi di Francesco Orlando circa il testo letterario possono almeno in parte applicarsi ad altri ambiti.
Quale sarebbe nella fattispecie l’ipotesi di Orlando che vorrei testare applicandola all’arte figurativa? Questa: che il testo letterario dia voce sia alle ragioni delle ideologie correnti e vigenti ma anche alle istanze represse e ribelli. Non l’una senza l’altra, ma l’una insieme all’altra.
Insomma alla domanda ‘che cosa vediamo quando guardiamo un quadro?’ risponderei così: non vediamo solo una espressione della cultura dell’epoca, come vorrebbero certi filologi duri e puri, ma ci confrontiamo con una intenzione d’autore che si oppone e sfida quella cultura, che si fa portavoce di quanto quella cultura aveva negato e represso. E proprio perché il dipinto sfida l’ideologia del suo tempo, esso si emancipa almeno in parte dalla sua epoca e ci interpella direttamente a distanza di secoli, ci chiama in causa e ci chiede di rispondere attivamente.
Faccio un esempio: Dante sbatte all’inferno anche grandi individui come Ulisse, Brunetto Latini, Francesca, ecc. Lo fa, e in questo si fa portavoce di una ideologia o teologia vigente che condanna certi comportamenti, ma contemporaneamente, nel mentre li condanna irrevocabilmente, dà loro spazio e voce, così che essi ci appaiono contemporaneamente esecrabili e ammirevoli. Orlando chiamava questa situazione linguistica e testuale formazione di compromesso.
Questo approccio ci permette di comprendere come la letteratura affermi e neghi, neghi e affermi simultaneamente. Questo approccio ci spiega come la letteratura anche quando è scritta in sintonia con una certa ideologia sempre la supera. O meglio lo fa quando è vera, buona letteratura.
Veniamo ora all’arte. E prendiamo l’approccio iconografico come rappresentativo di una tendenza che sopravvaluta la dimensione (latamente) ideologica delle opere. L’approccio iconografico tende infatti a individuare dietro i dipinti dei ‘programmi’ d’autore. E cioè tende ad individuare delle consapevoli intenzioni d’autore, ispirate quasi sempre a dei testi sacri o profani, e comunque a delle verità precedenti, di ordine morale, religioso, filosofico ecc. I dipinti illustrerebbero insomma quelle verità. Mi rendo conto che si tratta di una semplificazione, ma insomma in buona sostanza di questo si tratta.
Do adesso la parola al critico d’arte Edward Snow. Ecco cosa scrive a proposito di Bruegel in un suo saggio dedicato a Giochi di bambini dello stesso Bruegel, intitolato “Meaning” in Children’s Games: On the Limitations of the Iconographic Approach to Bruegel: “La tradizione critica ci ha abituati a pensare a Bruegel come a un mero catalogatore di costumi contemporanei, o come ad un moralista le cui immagini possiedono un contenuto intellettuale solo in quanto esse illustrano proverbi o luoghi comuni morali” (29). Ora, si capisce bene che questi proverbi o massime morali non sono immediatamente evidenti a chi li contempla oggi, e che solo lo studioso, l’erudito, il filologo può ricostruirli e metterli a disposizione del pubblico.
Va da sé che se si accetta questa impostazione risultano poco affidabili le letture che si confrontano direttamente con il testo. E cioè che reagiscono empaticamente al dipinto. Prendiamo un caso tipico: esistono nell’arte olandese tra Cinque e Seicento dipinti che ritraggono scene aneddotiche di tipo popolare: feste, taverne, incontri tra amanti, ecc. (si pensi proprio a Bruegel). Ecco un esempio tra i tanti:

Festa contadina

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Danza nuziale
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Ora, solitamente chi guarda questi quadri reagisce in modo immediatamente simpatetico, sentendo e pensando ingenuamente che si tratta di scene in buona sostanza realistiche, che ci raccontano i robusti divertimenti popolari del tempo, che ci invitano a partecipare immaginariamente ad essi. Molti critici però, di impostazione iconografica, sostengono che si tratta invece di rappresentazioni allegoriche di vizi condannati dalla religione del tempo.
Ecco per esempio cosa scrive Wolfgang Stechow a proposito del dipinto Danza nuziale (vedi qui sopra): «The front of the picture is defined by an abandon to human instincts … with no regard whatever for the solemn aspects of a wedding» (Pieter Bruegel the Elder). E altrettanto dicasi per Festa nuziale che metterebbe in scena il vizio della golosità. Giustamente Svetlana Alpers ha potuto scrivere che da parte di molta critica «Bruegel’s peasant paintings are treated today as moral sermons» (Bruegel’s festive peasants, 163). E a proposito di Danza nuziale ha poi scritto: «Without denying the genuine morale power of the Wedding dance, it nevertheless seems to me that it does engage human pleasure in the dance and the sexual encounters that dancing involves» (165). Che in effetti sembra quasi una osservazione di buon senso. E comunque è questa la sensazione (magari ingenua) che prova un osservatore contemporaneo.
Un’altra linea di interpretazione sostiene che quelle scene di festa discendono da una tradizione iconografica incentrata sulla vicenda del figliol prodigo. Insomma, il sottinteso di questi dipinti sarebbe il seguente: abbandonandosi a quelle feste, a quei divertimenti ci si perde. Si dà però subito un problema: a quanto pare, molti di questi quadri erano appesi sulle pareti della pia e benestante borghesia olandese. Giustamente perciò Gombrich si è chiesto: «che cosa significavano questi dipinti per il comune osservatore? Li considerava un monito contro il vizio, oppure ne assaporava con la fantasia gli illeciti piaceri?» (Un’antologia di scritti essenziali sull’arte, p. 526). In altre parole: erano lì per mettere in guardia chi li guardava da certi vizi oppure erano lì per divertire e distrarre quei borghesi e quelle borghesi ‘per bene’? Sembrerebbe che o è giusta una impostazione o è giusta l’altra. Ma, appunto, se pensiamo in termini di formazione di compromesso perché non immaginare che forse erano lì sia per mettere in guardia che per divertire? La formazione di compromesso in questa caso ci aiuta forse a dirimere una questione tra critica iconografica e critica cosiddetta mimetica (intendendo per critica mimetica una critica che si immedesima nel quadro, che ‘prende parte’ alla scena che lì si svolge). E’ infatti molto probabile che il pittore abbia dipinto dentro quelle cornici morali e teologiche prestabilite messe in luce dalla critica iconografica, ma è altresì probabile che la tendenza mimetica lo portasse a immergersi (e a farci immergere) in quella scena vivace e ricca di movimento. Che cioè l’artista si dimenticasse ‘mentre dipingeva’ delle sue buone intenzioni e si compiacesse di tutto quel movimento e affollamento e allegria, ecc. E che questo compiacimento si trasformasse poi in un certo uso degli spazi, del colore, ecc.
Ma per spiegarmi meglio do ancora una volta la parola a Snow. Ecco prima il dipinto a cui si riferisce:
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Giochi di bambini
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L’interpretazione iconografica sostiene che i giochi dei bambini simbolizzano la follia del mondo adulto, e che rappresentando tutto quel movimento disordinato e caotico il pittore intendesse condannare quella follia. Snow non nega che Bruegel risenta di questo luogo comune morale diffuso nella sua epoca (il dipinto è del 1560), ma sostiene che l’impatto visivo con il dipinto induce nello spettatore risposte più dirette e meno morali: le energie cinetiche che animano le sue accurate figure inducono nello spettatore risposte simpatetiche, di cui non si può non tenere conto. In altre parole, l’infanzia ci viene mostrata sia nei suoi aspetti violenti e demoniaci ma anche nei suoi aspetti innocenti, giocosi, divertenti. E’ come se tutto il dipinto fosse organizzato intorno a coppie di istanze in contrasto, e “lo spettatore fosse messo di fronte ad un incessante va e vieni tra aspetti antitetici” (p. 30).
Come ha scritto Margaret Kaller recensendo il saggio di Snow “le figure appaiate sono raggruppate alla maniera di una sequenza estesa di riflessioni dialettiche su temi quali innocenza ed esperienza, isolamento e socievolezza, natura e cultura, e così via”. Difficile a questo punto, davanti ad una scena così movimentata e confusa, stabilire una volta per tutte quale immagine dell’infanzia possiamo ricavare dal quadro. Essa è senz’altro ambivalente, sospesa come è tra Medioevo e Rinascimento, e può ricordarci quella di Rabelais. Le immagini della infanzia di Pantagruele infatti “sono sia espressione di una ‘nuova’ esuberanza che di una anacronistica, deliberatamente primitiva in confronto agli standard di decoro che gli umanisti stavano rendendo corrente in quel tempo” (p. 40).
Snow citando Cézanne sostiene che Bruegel “pensa per immagini”. E altrove scrive:
Ho cercato di mostrare che le immagini di Bruegel tendono a funzionare – specialmente da Giochi di bambini in poi – come un mezzo primario di espressione, non come segni di idee verbali preformulate. Il pensiero di Bruegel, cioè, è per lo più inerente al processo di fare-immagini, e non ad una precedente attività che manipola il mezzo al fine di illustrare o codificare significati predeterminati. Il risultato di questo approccio [iconografico] è stato che il significato intellettuale della sua opera è rimasto largamente inaccessibile ai modi prevalenti dell’interpretazione storico-artistica, ognuno dei quali in un modo o nell’altro cerca di tradurre i dipinti in generalizzazioni verbali che corrisponderebbero alle intenzioni dell’autore ‘dietro’ all’opera. Per comprendere Bruegel sarebbe meglio seguire invece il suggerimento di Blake: He who wishes to see a perfect Whole, / Must see it in its Minute Particular, Organiz’d. (Jerusalem 91 : 21-22). […] Nello stesso tempo ho provato a […] mostrare che l’atto di dipingere era per Bruegel un ripensamento e spesso un rifiuto delle attitudini della sua cultura, e non un automatico rispecchiamento di essa; e che queste attitudini erano ad ogni modo tali conglomerati di differenze e di contraddizioni che esse non possono servire da punto di riferimento con cui stabilizzare i significati in gioco nelle opere pittoriche” (p. 53).
Interessante questo accenno all’opera d’arte come «ripensamento e rifiuto» delle attitudini dominanti in una certa cultura, perché si avvicina molto al concetto di ritorno del represso elaborato da Francesco Orlando. Vale però forse la pena di inserire qui un passo del critico Michael Baxandall che nel suo Forme dell’intenzione, ragionando sulle intenzioni di Piero della Francesca nel dipingere Il battesimo di Cristo, si pronuncia per una critica inferenziale, che parta cioè dal dipinto, che lo tratti come «oggetto di interesse visivo» e non religioso o filosofico, che non presti ad ogni singolo dettaglio «un suo significato simbolico», che tenga conto del quadro come una totalità organizzata, e che soprattutto tenga conto «dell’organizzazione delle forme e dei colori per come li vediamo disposti in questa opera specifica»:
Quando si affronta la mitologia classica o la teologia cristiana, sistemi maturati ed elaborati nel corso dei secoli, praticamente ogni dettaglio può avere un suo significato simbolico: gli alberi, i fiumi, i vari colori, i gruppi, che siano composti di dodici, sette, tre o un solo elemento. Tanti sono gli elementi e vari i loro significati. E per il Battesimo di Cristo esiste un’intollerabile quantità di materiali il cui utilizzo è lecito. L’acqua del battesimo, ad esempio, ha ben sette significati distinti […] E’ molto probabile che Piero sapesse queste cose, così come è senz’altro probabile che alcuni suoi contemporanei avrebbero pensato a tutto ciò, osservando una rappresentazione del battesimo di Cristo in generale e quella del battesimo di Cristo in particolare […]. Ma esse non ci servono, in modo immediato e considerate singolarmente, a creare il costrutto intenzionale che presiede all’organizzazione delle forme e dei colori per come li vediamo disposti in questa opera specifica. Qui si dimostra la validità della nostra idea di intenzione […]: le circostanze sono intrinseche alle forme e ai colori, ma se questi non le manifestano o non le chiamano in causa, non dobbiamo farlo anche noi. (190-191).
Ma torniamo a Bruegel. Chi scrive non vuole certo sostenere che l’interpretazione di Snow sia quella giusta, quella buona. Come ho già detto non sono competente. Mi interessa solo approfondire una questione di metodo e cioè valorizzare un approccio che si propone come tutto testuale, un approccio cioè che ricava il senso del dipinto dal dipinto stesso. Diversamente dagli iconografi Snow pensa infatti che l’intenzione, il pensiero di Bruegel coincide con l’azione di dipingere, con il suo fare-immagini. Non solo, per Snow i critici iconografi enfatizzano troppo la “somiglianza” rispetto alla “differenza”. Cosa intende dire? Che certi critici sbagliano a credere che il pittore si limiti ad assecondare, a rispecchiare le idee dominanti, ad illustrarle. La grande opera artistica costituisce appunto una differenza, una contraddizione rispetto a quel dato sistema di valori. Altrove Snow scrive che occorre distinguere tra didactic and imaginative impulses (44), che anzi spesso possono contraddirsi gli uni con gli altri. Ci torneremo, per ora limitiamoci a dire che qui Snow è in sintonia con l’idea di Orlando secondo cui la letteratura veicola un ritorno del represso rispetto all’ideologia dominante, che pure ha introiettato. Snow non esita a dire in modo quasi provocatorio che per afferrare il significato di un’opera dobbiamo fidarci della nostra “esperienza intuitiva” dell’opera: “E il nostro solo accesso al pieno significato delle tele di Bruegel è la nostra esperienza intuitiva dell’opera – precisamente quell’aspetto di essa che l’approccio iconografico tende a considerare come irrilevante o in conflitto con il suo contenuto intellettuale” (36). Altrove parla di “intuizione critica” e specifica che con essa non si intende “una selvaggia soggettività ma la concentrazione sulla sfumatura e il tono di colore, e su schemi di significato che evolvono sia dentro il singolo dipinto sia nella relazione tra quest’ultimo e le altre opere di Bruegel – tutti quei puramente ‘intrinseci’ fattori, in altre parole, che sono per definizione materia di interpretazione” (pp. 43-44).
Quel che Snow vuol dire è che interpretare un quadro significa essere capaci di percepire e valorizzare tutto il complicato sistema di differenze e affinità coloristiche, spaziali, tematiche che caratterizzano quell’opera. Significa andare al di là dei significati astratti, del senso morale o religioso cui l’opera rimanderebbe. A proposito di Giochi di bambini Snow scrive che certi motivi pittorici “non più ancorati ai proverbi a cui essi sembrano riferirsi, sono liberi di entrare nel gioco di immagini (e differenze) e hanno più a che fare con i termini che fondano la nostra esperienza di esistere nel mondo umano che con ogni possibile luogo comune che possa essere estratto da essa” (p. 47). Snow insomma non nega che Bruegel abbia in mente certe nozioni intellettuali e morali tipiche del suo tempo, ma prima di tutto osserva che le idee sull’infanzia diffuse in quell’epoca erano varie e spesso contraddittorie; poi nota che tali idee comunque si trasfigurano nel farsi dell’opera, e cioè diventano altro non appena “entrano nel gioco delle immagini”; infine, ci ricorda che Bruegel mette in scena esseri umani che agiscono nel mondo, nello spazio e nel tempo, e che noi possiamo e dobbiamo riferirci alla nostra comune esperienza della vita per poterci fare un’idea di quel che ‘fanno’, di quel che ‘accade’ nel dipinto, prima di riferirci a delle verità astratte che si presume siano sottese al dipinto (naturalmente per poter afferrare e valutare quel che ‘accade’ nel dipinto occorre certo avere alcune nozioni storiche e culturali relative all’epoca di Bruegel, ma non si deve però supporre che quel mondo sia ontologicamente alieno al nostro, si deve anzi supporre una fondamentale continuità esperienziale tra ‘noi’ e ‘loro’).
E’ significativo a questo proposito quanto scrive Snow circa la rappresentazione del corpo in Bruegel:
La viscerale simpatia verso la figura umana appare pienamente sviluppata in Bruegel per la prima volta in Giochi di bambini, e noi tendiamo a fare esperienza di ciò come di qualcosa di intrinsecamente positivo, per quanto disturbanti possano esser le immagini che qualche volta essa [la simpatia viscerale verso il corpo umano] genera. Essa comporta una fede rappresentazionale nella bontà del corpo, sia come base della nostra esperienza che come veicolo per la nostra identificazione con altri sé. Fritz Grossmann ha notato che “la concezione del corpo umano di Bruegel […] è essenzialmente una concezione morale”, e con ciò, purtroppo, egli la intende come “segnata dal peccato e dalla follia”. Noi potremmo forse accettare questa sua generalizzazione per i Sette peccati mortali del 1556, e anche (benché io pensi di no) per Il combattimento tra carnevale e Quaresima, ma una tale asserzione non può che risultare fuorviante per comprendere le opere che seguirono. In Giochi di bambini e altri dipinti, il corpo è ontologicamente dato, è il posto della esperienza vivente. L’uomo sdraiato sotto l’albero nei Mietitori di New York dorme per la spossatezza fisica, non per pigrizia, e la presenza del suo corpo lì è percepita come altrettanto primaria e piena della presenza dell’albero. Il nostro accesso alla sua fisicità è come l’accesso a una dimensione di esperienza condivisa, altrettanto fondamentale dell’esperienza del tempo e dello spazio” (p. 49).
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I mietitori
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In altre parole, noi possiamo e dobbiamo sentire la piena presenza corporea di quel contadino disteso sotto l’albero come fondamentalmente simile alla nostra, e nessuna informazione culturale accessoria che ci dica magari che si tratta di una rappresentazione della pigrizia, può incrinare quella nostra reazione di immedesimazione. Ma direi che per il nostro discorso sono molto più interessanti le cose che Snow dice nel suo saggio Meaning in Vermeer (contenuto in A Study of Vermeer) a proposito della ricezione critica di Jan Vermeer (un pittore attivo nella seconda metà del Seicento). Egli parte ancora una volta dall’approccio iconografico e cita John J. Walsh: “Una larga parte di pitture-con-commenti, specialmente stampe con iscrizioni e libri di emblemi, suggeriscono che molte erano da godere e da ponderare per le lezioni che esse avevano da offrire. La pittura olandese aveva una inclinazione a moralizzare che noi fatichiamo ad immaginare oggi”. Walsh ci dice insomma che non dobbiamo fidarci della nostra visione e reazione ingenua ai dipinti olandesi del tempo, e dobbiamo faticosamente riportarci ad una cultura pittorica “incline a moralizzare” il pubblico, oggi a noi estranea. Prendiamo per intenderci Ragazza addormentata:
Ragazza addormentata
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Ecco di seguito un commento di Madlyn Millner Kahr, riportato da Snow e abbastanza tipico dell’approccio iconografico:
La giovane donna personifica la Pigrizia, il vizio che apre il cancello a tutti gli altri vizi […]. Le mele sul tavolo sono attributi di Afrodite, divinità dell’amore, così come lo sono gli orecchini che la ragazza indossa. Le mele si riferiscono anche alla Caduta dell’Uomo e al Peccato Originale. la frutta, come le belle ceramiche, e gli oggetti d’argento, sono tipici simboli della vanità di soddisfazioni mondane […] Il messaggio del dipinto è: state in allerta e evitate le trappole dei piaceri sensuali. Tutte le soddisfazioni mondane altro non sono che vanità. La libertà della nostra volontà rende ognuno di noi responsabili di rinunciare alla terra in favore di una verità divina” (cit. p. 146).
Questo tipo di interpretazioni non sono certo ‘sbagliate’, e anzi dal punto di vista filologico sono altamente affidabili, tuttavia esse contrastano con la nostra esperienza diretta dei dipinti di Vermeer. In altre parole e banalmente queste interpretazioni non rendono conto dell’impatto estetico comune con quelle tele. Noi infatti guardiamo la giovane donna dormiente e siamo affascinati da lei, e così fatichiamo a interiorizzare l’idea che attraverso questo dipinto Vermeer altro non voleva se non condannare la pigrizia, ecc. C’è qualcosa che non torna. Certo, forse è tutta colpa della nostra incapacità di rifarci alle idee di quell’epoca, di guardare a quei dipinti con lo sguardo degli uomini di quel tempo, e tuttavia non è facile sottovalutare del tutto le nostre reazioni spontanee. Possibile che questa nostra spontanea sensazione di interiorità e mistero sia falsa, sia solo anacronistica? Dovremmo addirittura liquidare quelle sensazioni come non pertinenti. Ecco come lo dice Snow: “Questo approccio [iconografico] genera risposte così poco attrezzate per trattare con le complessità dialettiche di Vermeer, e così remote da ciò che ogni appassionato amante di immagini potrebbe mai pensare su di esso” (146). Per capire quanto poco e male il dipinto di Vermeer si adatti alla lettura moralistica e iconografica prendiamo in considerazione un dipinto che invece si adatta benissimo a quella lettura: La serva pigra di Maes:
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La serva pigra
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Quanto più esplicito e moralistico è in effetti Maes! La donna anziana con il suo gesto ci invita a reagire in termini morali alla situazione, e noi non possiamo esimerci dal farlo, siamo costretti a farlo. Il dipinto di Vermeer no, non costringe a quella reazione e anzi ci lascia come in sospeso circa il suo significato ultimo. Vermeer certo si rifà allo stesso motivo ma poi ne ricava qualcosa di diversissimo. Per capire di cosa ci parla il dipinto dobbiamo perciò predisporci ad “una lettura puramente intrinseca dell’immagine.” Notiamo infatti insieme a Snow che “Vermeer abiura ai gesti esplicativi. Gli oggetti emblematici che egli include intensificano piuttosto che spiegare l’atmosfera enigmatica. Essi segnalano la presenza di un significato ma d’altra parte rimangono muti e resistenti almeno quanto quelli della maggior parte dei pittori olandesi sono trasparentemente espressivi. […] La stessa ragazza è resa, […] in modi che prevengono una lettura inequivocabilmente morale o psicologica della sua presenza. L’espressione sulla sua faccia muta dalla preoccupazione alla calma e viceversa davanti agli occhi di chi guarda. La sua posa suggerisce sonno, o almeno abbandono a qualche evento interiore, sia esso pena, desiderio, o fantasia; ma la mano che riposa leggera sul tavolo funziona come un segno di equilibrio consapevole, una delicata rassicurazione della presenza continua del mondo e della presenza del sé ad esso. E così ciò che può essere letto come una immagine di Pigrizia e Accidia tende ad essere più persuasiva se intesa come una concentrazione – uno stato di grazia al di là della portata della volontà, non uno stato di un disordine morale che regna in conseguenza di una assenza di volontà” (p. 152). E più oltre prosegue così:
Qualunque significato esista in Ragazza addormentata ha a che vedere con l’esperienza del vedere, e esso [il significato] può essere portato a coscienza solo quando le distanze che la comprensione morale e psicologica imporrebbe vengono meno. […] ‘Epifania’ può essere un termine troppo estremo per la gentile calma che emana da dipinti come questo, comunque in essi il senso del significato della vita, il suo nucleo affermativo, è fatto manifesto. Percepirli come concrezioni di lezioni morali che ammoniscono contro gli allettamenti del mondo, significa mancare l’essenza di Vermeer. (p. 154)
Come si vede, Snow ci invita a tenere conto della nostra esperienza ingenua, intuitiva del dipinto. Non certo a fidarci solo di essa, ma comunque a partire da essa.
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(continua il 22 agosto)
(già apparso nel blog universitario I Dispacci/ Rapporti da luoghi lontani)
2 risposte a “Saggio sull’iconografia: su alcuni confronti possibili tra critica d’arte e critica letteraria – di Stefano Brugnolo (prima parte)”
Interessantissimo! Stefano sei imprescindibile.
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[…] Leggi la Prima Parte del saggio […]
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