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Le rotte di Janama e il destino dei Mhyr : canti nei quali perdersi (di Danilo V Paris)

Le rotte di Janama e il destino dei Mhyr

ARCA:FILOGRAMMI DELLA SEGNATURA

CANTO II

MHYR
(CANTI DEL DESERTO E DELLE NAVIGAZIONI)

I poemi dell’arca sono materiale di varia origine recuperati in miscellanee sparse, nei breviari dell’esodo Mhyr, dai poeti Balya come il nomade ‘Tvorets, Mriya, guerriero, nei “Canti degli astri e delle peregrinazioni”, in “Canzone del sogno”, e in Antologia Sommersa, dove compare la voce di Vyklyk, poeta delle confraternite Balya.

Il documento 14, attribuito a Yeghbayr Եղբայր, sembra includere, all’inizio, una descrizione o un commento all’originale forma poematica in prosa, ma poi le due versioni sembrano successivamente confondersi.

રણ ఎడారి Raṇa Eḍāri, secolo 25esimo

Documento 14, Yeghbayr Եղբայր

||||Ho osservato il Raṇa Eḍāri, il deserto delle mappe in rovina, gli appunti di Dhōrani terminano bruscamente dopo una ricerca archivistica su una funzione che identifica come * Nyampur* o *miscela di Dirac*: una trama sotterranea unirebbe elementi distanti nella mappa in una specie di rete sanguigna.|||||

Tra carte e sabbia
Veniva il deserto sui nomi dei paesi,
La polvere
E la pronuncia seccata del suo nome
spellava la voce del più giovane, Dhorani.

1)Fotografia artificiale del રણ ఎడారి Raṇa Eḍāri, Rōśanī, fotogafo di Koç 2)
Veduta ipotetica del રણ ఎడారి Raṇa Eḍāri,ਖੋਜੀ Khōjī( scuola di Paul Klee)
3) Veduta ipotetica del રણ ఎడారి Raṇa Eḍāri, Samruad (scuola di William Blake)
( in Cartografie dei deserti di Qiaokeli, Muraqib)

 

 

|||Era attraversata da grovigli di linee inestricabili, come quelle che segnano l’infinita mano di un esploratore primordiale.
“Il sangue ancora sgorga dalle gole degli scannati”, pensai, e mi sentii stringere lo stomaco: era la vita stessa che finiva nel discorso interrotto di Dhōrani. Gliel’avevano tolta. E ora vedevo il sangue gorgogliare sotto, nelle viscere del letto, rifluiva nei corsi della crosta innalzata dalle voci, all’insù, forando la crepa.
S’apriva il filogramma di stenti e il genoma srotava la cornice ed era un deserto di mappe andate a fuoco.
Ed era un deserto il desiderio dell’uomo.
Sentivo le scritture stingersi sotto il passaggio dei miei piedi,
il vento soffiare via i meridiani
e il sole bruciare le cuciture dell’atlante.

“Questa era l’Arca: la costruirono sui fili spezzati dei nostri figli”, aveva scritto Dhōrani, come se
una carovana lo stesse seguendo.
Passai la mano sulle crepe e, dentro, stava, infilata nel canale stretto, la serie fitta di ruggini e grani e più sotto, tra le dita, fino in fondo, estrassi il filo e lo tirai e veniva su, tra le schegge dure, impigliate lungo il filo.
E più lo tiravo, più il contorno s’acciaccava e la mappa sformata sfollava i confini dei fiumi e dei picchi, come se non Legge, ma filo d’erede tenesse nel giogo, le cose descritte, a bordo e frontiera.
E vidi, lì in mezzo, qualcosa, sotto una zolla, incavata, segnava “deserto cammino gaziram” ed infilata nel segno “Bakhmut: acciaieria sotterranea”.|||

E la mappa dei loro tragitti
Il Raṇa Eḍāri
stava lì sotto, tutta in pezzi
e La riva,
spiantata nella rena
E la griffa delle bozze che si svia
L’una sull’altra
E Smacchia a miche di granaglia i paralleli
Li sgrava dall’appunto
Li tuffa a sepolcro di gesso
Qui, Il banco non s’attacca alla goccia
Si sterra invece a corolla di trasloco
E sotto, la traccia, gonfia a spira la crosta screpolata

E il fondo secca a siero il plasma
E la faglia lumeggiata imboccia ad albume e fibrina
E leggo il siriano sul quaderno di Dhōrani
“Il sangue, scrive, ancora sgorga dalle gole degli scannati”,
leggo, e mi si torcono le budella:
Non ha finito di scrivere.
Gl’hanno interrato le sillabe
nel suggello del doganiere.
E vedevo il sangue gorgogliare sotto,
nelle viscere del letto,

rifluiva nei corsi della crosta
innalzata dalle voci,
all’insù, forando la crepa.
S’apriva Il filogramma di stenti
e il genoma srotava la cornice:
ed era un deserto di mappe andate a fuoco.
Ed era un deserto il desiderio dell’uomo.
Sentivo le scritture stingersi sotto il passaggio dei miei piedi,
il vento soffiare via i meridiani
e il sole bruciare le cuciture dell’atlante
Ascoltai i fratelli, dicevano:
“Noi non abbiamo superato la sbarra.
Ci hanno stecchiti nel serraglio, hanno apposto il timbro della scordatura.
Ci hanno fiaccato la mola delle semenze nel codice di bave.
Dappertutto è questa bava di tenia e di sarcopto,
che lorda il bozzolo con l’imprimitura del contratto.
Noi abbiamo ruotato la sbafatura
e ci siamo squagliati il plasma delle generazioni dalle spalle.
Siamo imboccatura di polvere e ferita
: da noi nasce altra ferita direttamente nello spacco.
Noi nella crepa, crepe altrettanto, coliamo a picco nel giacimento ematico, con le guarnizioni
fissurate.
Questa, fratello, era l’Arca: la costruirono sui fili spezzati dei nostri figli”
Ma non c’era nulla da ascoltare: questo aveva scritto Dhōrani sui suoi appunti, come se una
carovana lo stesse seguendo nella sua ricerca o forse, come capitava adesso a me, come se li
avesse sentiti parlare dalla sabbia.

Passai la mano sulle crepe
E dentro stava
infilata nel canale stretto,
la serie fitta
di ruggini e grani
e più sotto, tra le dita
fino in fondo,
estrassi il filo
e lo tirai

e veniva su
tra le schegge dure
impigliate lungo il filo.

E più lo tiravo,
più il contorno s’acciaccava
e la mappa sformata
sfollava i confini dei fiumi e dei picchi
come se non Legge
Ma filo d’erede tenesse nel giogo
Le cose descritte
A bordo e frontiera.

E vidi, lì in mezzo, qualcosa
sotto una zolla
incavata
segnava “deserto cammino gaziram”
ed infilata nel segno “Bakhmut:
acciaieria sotterranea”.

Era una fessura stretta,
oltre il quale non riuscivo a vedere,
per cui tirai ancora il filo
che spanciò il resto della cucitura, sbucciando la pelle del Rana Edari in una fuoriuscita di placenta e ciottoli scricchiolanti, e dietro, un condotto, che si apriva in un baratro notturno, che si buttava a capofitto in un inghiottitoio illuminato fiocamente soltanto da una cosa che emetteva un bagliore al termine della discesa. Mi ci ficcai dentro e cominciai a strisciare, bruciandomi le braccia mentre le trascinavo contro quelli che sembravano detriti tenuti assieme da filamenti affilati come reti da pesca ed ero certo, continuando a scendere, che ci avrebbero preso, che si sarebbero infilati nella galleria, scannandoci come maiali, oppure lasciando cadere una granata prima che fossimo riusciti ad arrivare alla fine della galleria, dove ci sarebbe stata una feritoia aperta sulle fognature di Mariupolstrasse e il lungo corridoio affrescato dai fondi cieli rossi e neri e in mezzo c’era la cerniera, la cerniera bianca che divideva le due campiture sotterranee di Rotkho, la cerniera, la strappai a morsi e la fogna si squarciò nel mare, ne fui inondato e le gallerie si riempirono d’acqua e affogavo finalmente, i polmoni si gonfiavano fino a scoppiare, nuotai sott’acqua per sedici ore e risalii, a Pripjat.
E poi la vidi, la cosa in fondo al tunnel:
la luce scarna di un *Nyampur*,
il crogiolo delle mescolanze,
l’unione tra due Darā’iga,
“fonti di latenza Mhyr, da cui l’ immagine si concepisce,
e riassume gli estinti in un adesso disparente”,
come scriveva Dhorani, aggiungendo nei versi affianco:

VOCE DI MHYR:

“andare
via.. indietro… giù… lontano…
fin dentro la guaina marina
che apre la genesi
attraversando le rotte Janma
dove i tre semi gettati nel solco
sventano l’insegna del firmatario
conducendo i mhyr
via dalle reti
del grifagno assetato
impestato di gusci spaccati”

Mi sollevai, rovesciando tutta l’acqua che avevo in gola, ed uscii fuori da quello che era il sarcofago di un popolo
intero, un cordone ombelicale cresciuto a dismisura per contenere tutto il possibile scampato alle nascite ed espulso nuovamente nel bacino di Jara, dove i Balya, i crociati del nulla di Moanne, sarebbero venuti a raccoglierli, per portarli su… a slabbrarsi negli sfiatatoi.
E quando vidi la stanza, immacolata come una concezione che non fu mai, non avevo più bisogno di leggere gli
appunti di Dhorani, quando in me sentii dirmi che…

 

VOCE DI MHYR:
“I mhyr, attecchiti all’arca
andavano verso
il canale tumulato
dove la doglia li fodera
a torchio di natività”

Senza saperlo, sussurrai anche il nome del *Nyampur* miracoloso che mi stava davanti, con gli oceani raggelati
in un monotipo arborescente, e il geode schiumante che ne insufflava le brecce, gonfiandole, di quello che nemmeno poteva essere un *Nyampur*, tante erano le piogge che ne sfaldavano le zolle, “tanto si erano guastate le ossa a forza di remare”, scollando le sue placche, sghiacciate via dalle fosse : Zhyttia ਜੀਵਨJīvana, dove Pry’pjat
straripava, come la fine del mondo, e ricopriva ogni cosa, e la risacca apriva la sua fonte, e il mare era ovunque, mentre i mhyr sgocciavano, sbollendo come lune dai suoi fiumi appesi.

1. Apertura del ghiacciaio del Dnepr e risalita dei Mhyr, (Muktashif, celestografo Mhyr), in breviario dell’esodo
Mhyr,Anonimo

Mare bianco, amico del sale

Mi avvicinai, lo scroscio delle inondazioni era violento…e assordante, seppure quello fosse nient’altro che una mescolanza di immagini posticce, mi sentii portare…portare…giù…verso il vortice. C’era qualcosa lì , che gorgogliava, annaspando, annegava…per me, senza più sapere chi fosse a dire quelle cose che dalla bocca
sconciata dai flutti mi si stavano strozzando in gola:

“e nell’orcio delle voraghe del mare
affoga la sua voce
nei bisbigli delle valve.”

Sì… sì… e allungai la mano, mentre allungandosi in ogni direzione, mi sentivo trascinare
dalla marea, via via…sempre più a fondo.
“Vieni.”
Sì… l’avrei seguita… nel fondo, come diceva…

“Nel fondo, socchiusa nell’ovario è la voce, il ticchettio,
il diluvio, il fiume raggrumato
e il fossile scarnito
del gemello”

Il gemello, mi ripetevo…come se avessi dimenticato tutta la mia vita. L’altro. Il gemello. L’altro.

ME L’AVETE PORTATO VIA

“Shh…”,
mi diceva… di stare calmo… e mi cullava tra le sue braccia sciogliendosi in me, mentre l’arca colava a picco, coliamo tutti
a picco, insieme… insieme,
“Sali…”,
diceva, non capivo… di salire, sì… da lontano…
”Sali”, diceva…”la folata l’investe soltanto di fianco”
e piansi… per un tempo indefinito, per sempre, credo… e lo raccoglieva nella sua coppa, mentre i mhyr le sformavano il
dono dalla frana del suo cranio zuppo…

Le toccai la mano. Era gelida come eternità di stagione che arranca lo sfacelo

Sfiumò la sponda e me la congedò come un cappio

Ne sfaldai la cima e ne feci annodature di tornio
In numero di 91 per ognuno che fosse
L’inceppo abissato
Nella crosta,
scasati via, come insetti.

Partivano, già saccheggiati e io ne osservai per molte ere le partenze e le assi schiodate dal puntello dell’arcolaio
Lei mi colmava la brocca per il sorvolo degli eufrati
e ne bevvi,

da tutti ne bevvi
per sfociare le radici e come grano il figlio
scosta la fenditura e semina lo sfratto
Che sia di casa. Che sia la sola casa per la viscera che si spolpa di dosso il batterio.
Ancora precipito? Si, cadevo… e rovinavo… morivo, a forza di remare…  fin quando squamato, la pelle spacciata sgabbiò
E la riconsegnai al ghermitore delle conce,
che l’unghia non fosse più fodero
e ferita si riunisse a ferita

in solco di fondale sguainato a selci

ammainate ai lenzuoli del picco

 

AIKHTIAR”

Era il mio nome.
Mi chiamò, figlia di cui ero figlio, diede il nome al padre che smagra nell’osso la marchia del timbro.
Mi chiamò, risalito come alga bianca e delusa
e medusa, che il mare arena sul litorale, vuota .
“Lì”, mi disse, indicandomi la propagazione delle funi, interrate in cocci nella sabbia di coralli,
“lì, segnati nel flusso, che nel corso dissipa, stanno impressi”

Chi sei, le chiedevo, non capivo, tanto era cambiata nel volto, da che partimmo,
e anche nel *Nyampur*, la casa in custodia nelle sue tempie
quando mi parse che dalle ciocche inondate delle sue lontane fronti,
cadessero non di mare, le folle, ma di rena e pista, zigrinata solo in foce.

E dove la seguivo, la sabbia cancella i fari, quando toccammo Khyber e Bolan, li vidi trapassare la conca sfuocata di Pamir, e le ciglia ingigliarsi di vento per 120 giorni a Zabol a Sistan.
Chi sei, chiedevo, e mi dava la mano e svociava in sorriso svociava :
“ Lo sai..Io sono Anjuman, l’Ammutata, e Sasara sono l’Immota. Io sono Stasis ..di Janma..e sono gli Oltre.
A rovescio di sillaba, ho invertito la genesi e traboccato la schiatta di sorbo”

E quando arrivò, io sapevo già. Fletto i muscoli, mi dissi, e sono nel vuoto.

E di vuoto in spora di silicio e bromo, cadevo, ancora, ma sveglio, in fil di cromo ed elio, sfondavo la riva seccata, il mollusco nasceva salamandra
E la murena insaccata a flebotomo pasceva la guazza infossata,
a sterro gessato e steppa di sale

l’epermenia mi pungeva le ciglia
e l’oasi in gola scorticava le mute insabbiate nel fuso,
e Dhorani si accollò sulla carta lo stesso cero afflosciato a bavaglio
e mi diceva l’editto, mi seguiva nel groppo:

“Quante volte è stata tolta dalle labbra la canzone,
che quando caddi nel profondo,
me la cacciarono via srotolata dalla lingua
, come nella conchiglia la perla,
me l’ero nascosta stretta,
mi scrostarono di bocca anche quella,
si sganciò via da sputo e rifluì nella risacca.”

S’aperse il lucernario nell’ugello e io Mi caricavo i sacchi degli altri, a quelli scaturiti nel fumo
nerastro
li guardavo, frammisti nella frolla
e neri, combustati,
sgusciati dalle presse in salnitri e carbonii ed azoti
e la pelle fumava, gialla
gonfiava amatolo e nitrava a barbagli la terra minata

Da una fenditura del Dnepr,
si staccò un pezzo del ghiacciaio,
e con i Mhyr trapassavo la fonte,
e venne l’edera gelata di sfacelo che arranca,
s’avvinse al filo la placenta e spaccò la boa,
sfiammò il salnitro ed Amu Darya li sgocciò
uno ad uno, per 91
nella riva seccata di silicio
e li stiparono ancora,
fremendo,
Nimruz spalancò la voragine
s’estinse la faglia,
e il lievito stillò
dalla buccia scollata
a ginepro di steppa.

 

E di nuovo, dicevo, Fletto i Muscoli e sono nel vuoto.

 

 

VOCE DI AIKHTIAR:

“Aikhtiar”dissi” io sono la Consegna.
Le funi mi posseggono i tragitti e
indietro nel seme oltraggiato
mi conducono le stirpi.
L’immota mi fu testimone, quando non era ancora.”

Così disse Aikhtiar, la Consegna,
e a lungo, seguì le correnti
e i relitti riaffiorati dei Mhyr,
annodati stretti lungo le reti dello sfiato,
fu lì, dove la boa trivella lo scafo,
quando caviglia s’affigge a macigno,
e cola a picco lo scisma a fenditura d’usuraio.
E Aikhtiar fu lì, con 91 Mhyr a gocciargli dalle guance,
mentre la fibra spezza il baccello dalle valve
la diga si spaccò e il fondo inondò la buccia
Risaliva l’esiliato, che brucia di corallo
e i Mhyr lo trassero alla spiaggia,
sulle rive di spiga e madri di bronzo,
a foggia d’arbusto annerato,
stringevano il figlio, era carbonizzato.
Tornavano, tutti, tra remi e rocce,
con i corpi indorati dal torcersi del puntello
diranno a vederli che è fallita la consulta della sbarra.
“Io sono Aikhtiar, la consegna.
Le funi mi posseggono i tragitti
e indietro nel flutto la trincea del salmo mi conduce.
Sasara, L’immota-oltre mi fu testimone, quando non era ancora.
Ora la fune trapassa il graticcio
E fora l’argine del segno.
Che siano vivi per tutti coloro che sono vivi, ma che siano morti per tutti coloro che li vollero morti.
Che siano vivi, ma che siano morti per vostra mano ai vostri occhi.
Questo è il perdono che Aikhtiar, la consegna, scelse.”

E mentre madri e sorelle andavano a baciare i loro figli,
gli altri, gli sgozzatori, che si vedevano i corpi avvizziti
camminargli sulle cispe sbottonate, mollarono lo scalo
e si appesero alla corrente.
Chi aveva messo la staffa sulla darsena
Era adesso eletto del calvario
e sarebbe sbollito via, insieme ai Mhyr
in forma di cosa che nasce e non è ancora.
E io che fui testimone della risacca e dell’approdo, traevo le funi, e me le ritrovai in mano come pietra d’argilla che sbozza e impolvera, mi soffiarono via dalle dita, come campanella verde sui passi del giorno, a frantoio dello strappo, vidi il nome che sanciva il rovescio: ‘alsamt mihiun, Silenzio di sale, che rimetteva Gaziram tra le rotte delle nascite Janma e le navigazioni di Mhyr.
Raccolsi la campana verde di mio fratello, Dhorani,
me la passai tra le mani, sfregandola,
la feci suonare un’ultima volta,
e infine la sotterrai
sotto le sabbie cocenti di ‘alsamt mihiun.
Silenzio di sale, dormi in pace.

 


Di Danilo V Paris

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