L’ennui était pour lui si absolu, si éternel,
qu’il prenait les proportions de l’immortalité.
Lui qui n’avait jamais été un catholique fervent,
il se remit à prier tous les soirs avant de se coucher.
Mais ses prières s’adressaient à Satan.
Leggere Baudelaire a diciott’anni può decisamente cambiarti la vita. Se vi sembra troppo forte il verbo cambiare, diciamo allora che anche influenzare descrive bene il potere della sua poesia che, certamente, conserva qualcosa di subdolo, anche a centocinquantasei anni dalla morte. Sembra succedere sempre qualcosa nel cimitero di Montparnasse: siete mai stati a visitare la sua tomba? È una lapide semplice, per una sepoltura tanto travagliata. C’è sua madre (chissà invece Mariette dove sarà), c’è Aupick e ci sono molte bocche. Impronte di rossetto danno colore al grigio chiaro della lastra. I baci postumi conservano un impulso intenso, forse idealizzano una passione. Che è il problema principale di quasi tutte le passioni. Le ho viste da vicino quelle labbra, somigliavano all’illustre morto sottoterra: la traccia di qualcosa che germoglia ancora e cambia forma, continuamente.
L’erotismo implicito che spinge a baciare una tomba lo capisco, c’è sempre qualcosa di corporeo nella devozione, nella gratitudine e che può esplicitarsi in varie maniere, le quali coinvolgono spesso tutti i nostri cinque sensi. La poesia di Baudelaire li ha scomodati e depredati tutti, per questo alcuni suoi versi pulsano ancora oggi. Ecco perché c’è qualcuno che non solo ne legge e rilegge i testi, ma si reca ancora a Parigi e leccherebbe il suo sepolcro. Non è un culto, non si tratta di questo, è molto più profano di così, è quel verbo di cui scrivevo prima, influenzare.
È la stessa pulsione, passione postuma, che ha spinto me ad andare a vivere per un periodo in quella capitale. Ci sono andata spesso al cimitero, c’era un sibilo. Nel vento, un macabro appuntamento.
Oggi mi rendo conto che è la stessa immagine che apre questo fumetto così erotico e barocco, di Yslaire, Mademoiselle Baudelaire (non è stato ancora tradotto qui da noi, ma se conoscete il francese conoscerete una versione inedita e piena di sperma e livore, di quella vicenda che fu la vita intima del principe dei nembi).
Dunque, un funerale, un cimitero, un poeta che muore dilaniato dalle conseguenze della sifilide e del laudano e una donna in disparte. Sembra un noir, piacerebbe a Chandler questo incipit.
La donna di spalle è sempre e solo lei, Jeanne Duval. La musa e l’invisa. Le sue spesse trecce, i suoi umori, la unghie piantate nella carne, il sesso. Lei che è invecchiata, forse sopravvissuta, decide di raccontare, dal suo punto di vista, lo sbocciare e lo sfiorire di quei Fiori del male. Lo fa scrivendo, immaginando, una lunga lettera a Caroline Archimbaut-Dufays, la madre di Baudelaire. Di tante figure femminili la più invadente, ben più indiscreta e detestabile delle amanti liriche, quelle che si contrapponevano a lei, in un binomio più letterario che reale.
Vuole mettere ordine Jeanne, vuole dare la sua versione dei fatti, da attrice di ultimo ordine a spettatrice: e così torna indietro, agli anni della giovinezza, trascorsi in diverse camere d’albergo, ci sono tutti gli indirizzi, sono per Caroline, sono quasi un invito a verificare di persona l’odore del loro letto, la sporcizia sul pavimento, le macchie di sangue sul fazzoletto. Di Baudelaire il ritratto è prosaico, a tratti infantile – è un dandy incapricciato, è sommerso di debiti ma pensa al bianco dei suoi colletti, al taglio dei suoi abiti.
Jeanne è carnea, ancorata più di lui all’esistenza concreta, ha l’anima e gli artigli di un gatto, ha sette vite e il poeta gliele ha consumate quasi tutte. Un ossesso, Baudelaire, sopraffatto dalle sue stesse metafore, la poesia scarnifica il suo senso stesso del bello, il verso lo dilania, lo commuove, lo tenta. Ha bisogno di alterare tutti i sensi, ha bisogno del dolore soprattutto: vuole uccidersi ma non vuole morire, meglio, vuole uccidersi perché si crede immortale.
È così che nasce una metafora. Nessuno era sceso tanto profondamente nelle viscere di un’epoca, di un’umanità sanguinante per uscirne a sua volta imbrattato, a sua volta dissanguato, era il poeta-albatro, custode di una visione che condanna alla solitudine e allo scherno. Non c’è spazio per una sensibilità del genere, è uno sguardo sul vuoto esistenziale che non tutti posso sostenere. Ma Jeanne sì. Ed ecco che il verso fra loro si trasforma in spasmo, in sospiri, in orgasmi. Averla accanto è per Baudelaire un imperativo verticale, una beffa necessaria, un grido di protesta indispensabile, un atto politico, un veleno personale utile a generare il necessario antidoto.
Siamo abituati a pensare alla figura di Jeanne Duval come a quella di una musa maledetta, una musa dissacrante; la critica letteraria l’ha fortemente idealizzata – stereotipata quasi, relegata a un ruolo puramente estetico-sessuale – esistono esempi celebri: Albert Feuillerat la descrive come l’amante-vampiro nell’opera che dedicò allo scrittore con José Corti nel 1941, Pascal Pia, amico di Albert Camus, la insulta addirittura, definendola “subdola, bugiarda, dissoluta, spendacciona, alcolizzata e per di più ignorante e stupida”.
Ma di lei esistono pochissime informazioni certe, la sua stessa immagine è avvolta nell’enigma: c’è una fotografia di Nadar, ma non è mai stata autenticata, restano i disegni realizzati da Baudelaire stesso, le poesie a lei dedicate che ne proiettano un’ombra sensuale e misteriosa, ma è una donna oggi definita “l’invisibile de toute une époque”. Eppure è tutt’altro che invisibile. Leggiamo di lei e della sua profonda influenza attraverso le poesie più intense di Baudelaire, ne è l’irrinunciabile tormento.
Yslaire, con grande maestria, dona contorni netti a quei lineamenti ingoiati dalla sifilide, dal pregiudizio borghese e dalla noia, quest’ultima il vero grande male, l’abisso più oscuro.
Com’è finita? Esattamente com’era iniziata: non senza un arcano distacco, nella maledizione e nel dolore. Ma un’immagine commovente e simbolicamente potente chiude la storia di queste due vite consumate dall’arte, la paralisi parziale che li colpì: una paralisi complementare, la parte sinistra lei, la destra lui:
“De lui, je ne veux conserver que le souvenir de ces rares mots secrets, auxquels il me répondait amoureusement ‘Mademoiselle…’ à défaut de n’avoir jamais pu m’appeler ‘Madame Baudelaire’”.
Di Giulia Bocchio