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Riempire di senso ogni spasmo: Come d’aria, Ada d’Adamo (di Annachiara Atzei)

La bellezza può avere tante forme, manifestarsi in molti modi. Ada d’Adamo l’ha sempre desiderata, e ciò non è strano se si pensa che fin da piccolissima frequentava la scuola di danza e, in seguito, della danza ha fatto il nucleo delle sue passioni e del suo lavoro, indirizzando l’interesse alla grazia del gesto, alla precisione del dettaglio e all’armonia del corpo. Probabilmente, mai avrebbe pensato di trovare la bellezza in Daria, l’unica figlia possibile, arrivata a stravolgerne inaspettatamente ogni atto, specie il presente.
Come d’aria (Elliot), candidato al LXXVII Premio Strega, racconta la storia personale e struggente della scrittrice di Ortona e di lei, Daria, affetta da una grave malformazione cerebrale, e del loro rapporto simbiotico, caratterizzato da una necessaria vicinanza fisica, da corpi che si toccano, da braccia che sollevano, da mani che accarezzano e accudiscono. Questa esperienza lacerante, descritta con lucidità e rigore, l’ha costretta a porsi numerosi interrogativi che riguardano sia il futuro – quel “dopo di me” che spaventa i genitori di persone disabili – ma anche il passato, cioè la ragione stessa del dare alla luce.
Nel 2008, la lettera indirizzata a Corrado Augias e pubblicata su la Repubblica le uscì dal petto come un grido. Scriveva: “Un “bravissimo” medico non è stato in grado di leggere da una ecografia che mia figlia sarebbe nata con una grave malformazione cerebrale (…) L’aborto è una scelta dolorosa per chi la compie, ma è una scelta e va garantita. Anche se mi ha stravolto la vita, io adoro la mia meravigliosa figlia imperfetta. Ma se avessi potuto scegliere, quel giorno, avrei scelto l’aborto terapeutico”. Con le sue parole, proprio nella condizione di madre di una piccola venuta al mondo, ha rivendicato per tutte il diritto ad autodeterminarsi, anche per quelle donne che optano per una diversa alternativa. Il termine “vita” – dice – non è un vessillo da sventolare, ma un valore sul quale riflettere senza pregiudizio. E, in questo memoir sincero e crudo, dimostra coi comportamenti che vedere assicurata una possibilità di decisione non si scontra col concetto di esistenza, ma, anzi, lo riempie di senso.
L’intreccio viscerale tra la mamma e la sua bambina è tale che ogni mutamento, piccolo o grande che sia, destabilizza una quotidianità costruita con gli anni e la pazienza, accollandosi angosce e pesi fisici ed emotivi. Dover affrontare giornate dure, fatte di stanze di ospedale, di un sistema scolastico spesso inefficiente, della complicazione di reperire personale adatto alla collaborazione familiare, è l’ostacolo che continuamente si frappone al tentativo di mantenere quanto più possibile la serenità. Tra le pagine, cita William Butler Yeats che, in un verso, recita: “Le cose crollano; il centro non può reggere”. Quando il perno di un sistema in equilibrio viene meno – sembra dire – la realtà si modifica e deve essere ricostruita, rimessa in piedi con ancor più dedizione. E ogni cedimento è allo stesso tempo la spinta per riprendere da dove si era lasciato.
Cosa può destabilizzare ancora di più il cammino? Una diagnosi di tumore, stavolta per la stessa autrice. Quando Ada d’Adamo riceve la notizia della malattia, comincia a misurarsi con ciò che le rimane: nel periodo dilatato delle cure, il solo obiettivo è quello di sconfiggere il male, ma il corpo non è più capace di fare ciò che faceva prima di ammalarsi e lentamente lei comincia a cambiare: il cuore diventa di pietra, il pensiero va alla morte.
In una scena famosissima di Philadelphia, Andrew Beckett – interpretato da Tom Hanks – avvocato di successo stigmatizzato per l’AIDS, al culmine della sofferenza data dalla malattia si commuove ascoltando un brano dell’Andrea Chénier e coinvolge lo spettatore in un’onda di emozioni difficili da dimenticare: in un crescendo di musica e parole, esplode tra le lacrime del protagonista un inno all’amore come essenza di ogni cosa. Ma come si riesce ad amare sapendo di una imminente separazione? Ada, quasi immobilizzata a letto, si identifica in Daria: il suo corpo infermo sperimenta i limiti di quello della figlia e ciò che prima percepiva attraverso l’altra persona ora comincia a incorporarlo. Via via, il corpo appare vero e proprio personaggio principale all’interno della narrazione: luogo di memoria, conoscenza e sentimento.
Il titolo del libro è un gioco di parole, così come Ada e Daria vivono una nell’altra. Fino a che Ada non si farà D’aria. Un’altra grande intellettuale celebra questo tema allo stesso modo. In Lettera a un bambino mai nato, Oriana Fallaci – che affronta il discorso della paura della maternità e del dolore della perdita – scrive: “Mi passa il freddo a dire che la vita esiste, mi passa il sonno, mi sento io la vita. La vita non ha bisogno né di te né di me. Tu sei morto. Forse muoio anch’io. Ma non conta. Perché la vita non muore”.
Qui, due esseri umani sono uniti al punto tale da diventare una sostanza unica, un unico spazio dove continuare a restare.

 

Di Annachiara Atzei

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