
Chiude le porte quando la supplico di spalancarle, quasi non sentisse, come se tapparsi le orecchie potesse davvero isolarla da una voce che proviene da dentro. Come un rutto. Ogni mese. Nessuno mi ha insegnato a parlare pulito, a modo, non è mio compito, ma non capirmi significa non accettare qualcosa che non è possibile contraddire a meno di andare contro sé stessi, di cavillare sull’origine stessa dei desideri. Non può non capire, ma continua a ignorarmi. Come se non parlassi per entrambe. Ha un talento straordinario nell’evitarsi. Ad ogni sanguinamento lei sigilla le porte, qualche volta con due settimane d’anticipo, quando non dovrebbe far altro che seguire la vocina dal disotto e tenere aperti i battenti. L’efficacia della nostra comunicazione è subordinata alla sua voglia di ascoltarsi, di riconoscere gorgoglii dello stomaco e sfarfallii della testa come musica prodotta da strumenti al lavoro. Forse tento di inviare un messaggio attraverso impulsi troppo forti e troppo semplici per contenerlo. Vorrei smettesse di scampare all’umanità con la convinzione che funzioniamo meglio da sole.
Prima era tutta colpa della mamma, glielo concedo, ma adesso, perché viviamo ancora nell’eredità di quei giorni di proibizionismo? Sono sicura che la soglia del diventare grandi sia stata superata, la vita procede, cambia, eccetto un capitolo. Il nostro rapporto ristagna, appassisce, come due amiche d’infanzia che non si sono mai davvero sopportate, costrette all’amicizia dalle frequentazione dai genitori.
Credo le faccia schifo, ormai ne sono convinta. Meglio ancora: il disgusto di provare piacere per qualcosa che dovrebbe farle schifo. Il piacere rinnegato di una meccanica immutabile. Anche sottraendo tutte le variabili, noteremmo cremisi triangoli isosceli stagliarsi sul grafico mensile della libido. Eppure, sceglie di relegare l’apice ai momenti opportuni, quando sente di poterlo fare, dopo un convenuto numero di incontri, di occasioni per deludersi e innumerevoli sottrazioni all’ispirazione. Mai quando sente lo sfrigolio di un cavo scoperto sotto i muscoli delle cosce e d’istinto serra le ginocchia come per schiacciare una noce. Mai prima di quattro uscite, mai prima che abbia avuto modo di assicurarsi di questo e valutare quell’altro, non prima che un qualche immaginifico sentore di legame si sia fatto strada in lei senza chiamarmi in causa – mai successo, peraltro. E, alla fine, in qualche modo, riesce sempre a trovare un motivo punirsi. Ma siamo in due, in comunione – anche se, per fortuna mia, non paritaria – di piaceri e supplizi. E al nostro legame, a me, non ci ha mai pensato una volta. Mai una.
Di tanto in tanto, spesso su mia indicazione, ci è capitato di regalare appuntamenti a uomini che erano l’archetipo di coloro ai quali non si dovrebbe concedere nemmeno un caffè. In qualche caso, li rivedemmo anche più di una volta. Mitomani, egoriferiti, incapaci di rispettare se non in cambio di smaccate venerazioni; quelli che considerano naturale il ruolo rivestito dalle automobili nel corteggiamento, che mostrano saggezza riducendo tutto all’ovvio, che parlano con naturalezza scientifica delle discriminanti umane rappresentate da orologi “polsati” e “mezzi” posseduti. Ogni volta, la mattina, farfugliava una scusa per cavarsi fuori da una situazione che il risveglio aveva reso umiliante, nonostante avesse pilotato mezzo e possessore per tutta la sera. Di solito c’entrava anche la soddisfazione provata nella notte. Gli esseri di puro intelletto si sentono svalutati dai piaceri gratuiti. Forse dal concetto stesso di gratuità. Tanto più erano riusciti a gratificarci, tanto più si detestava per aver distillato appagamento da qualcosa che neanche avrebbe meritato la sua attenzione.
Qualcosa lassù converte il viso che riflette nello specchio in un abominio informe, distorce l’immagine che dovrebbe ricevere da tutte le superfici riflettenti e che riceverebbe, se sapesse utilizzare le lenti dell’oggettività anche su di sé. Il fatto che gli esseri umani siano esseri pensanti non significa che lo facciano spesso, e niente ci dice sui risultati. Non sono addestrata a ricercare un senso, ma lei sembra non sappia far altro. Non avrebbe dovuto leggere così tante parole di gente abituata a pensare così tanto. Illudono che l’abitudine a pensare sia un tratto caratteristico dell’umanità.
Come con Gioacchino, adesso finge di non ricordarsene, ma se ne ricorda eccome. Fu la prima volta in cui si lasciò andare, chiuse gli occhi e prese a disegnare onde sinusoidali con i muscoli pelvici sopra la sua pancia, le gambe divaricate abbastanza da dispiegare le labbra contro la colonna di peluria che dall’ombelico portava al pube di lui, ringraziando mamma per l’obbligo d’iscriversi a danza classica nonostante il genere di conformazione fisica che la classica ripugna. Venimmo una, due, tre volte, come in una catena di sbadigli. Quello fu il mio primo orgasmo che condividemmo con qualcuno. Ma non ce ne fu un secondo. Tutto il mondo – quello che interessava a lei – sapeva che Gioacchino si scopava tutta la popolazione femminile del corso di teatro-danza , e lei aveva appena avuto il coraggio di lasciare Rodrigo la prima volta. Se Gioacchino non era pratico nell’arte di pensare, Rodrigo non sapeva pensare a niente che stesse a più di due metri da lui, cosa o persona che fosse.
Risultato: non vi erano affinità elettive con Gioacchino, e poi non era stato lui a farla venire, era stata lei a scordarsi che vi fosse qualcuno dentro e a prendersi quello che la presenza di Rodrigo a stento le concedeva di immaginare. Lasciarsi travolgere da un piacere così intenso e al contempo così privo di significato la mise in aperto conflitto con quasi tutto ciò che aveva letto sugli uomini e sull’amore, tanto che per un po’ smise di leggere – e non mi dispiacque. Fermare le elucubrazioni e assecondarmi sarebbe anche la soluzione più efficace per ridurre la bile e dormire meglio. Deglutì decine di coiti deplorevoli prima di riadagiarsi sulla linea piatta di un amplesso a settimana rigidamente programmato da Rodrigo. Lui doveva entrare al conservatorio, se la sua donna l’amava doveva capire che lui, di amare, non ne aveva il tempo. Con Rodrigo le affinità elettive in fatto di melomania erano molte. Ci condannò per altri due anni prima di trovare qualcun altro. Riguardo chi venne dopo, che nemmeno vogliamo nominare, la storia fu tutta diversa. Per entrambe. Niente di vagamente simile era mai stato predetto, ma lui non era giusto, per usare le parole di nostra madre. Ma quella sensazione di pioggia, il gocciolio in crescendo contro il vetro di un lucernario che accompagnava il suo nome illuminato al centro del display, non è più stata restituita. Con lui c’era tutto e anche di più. Se solo fosse stato giusto. Chissà poi cosa intende la mamma quando lo dice, non glielo abbiamo mai chiesto. Adesso la sta chiamando Marcel, posso sentirlo da qui: nulla, meno ancora che se chiamasse un’amica, eppure con lui non è stato male, anzi. Anche lui si è divertito, sebbene ci abbia mentito, non poteva essere la prima volta che lo faceva con una donna. «Ciao amo!». Il mio involontario origliare viene ostacolato dallo scroscio d’acqua calda del bidet con cui si coccola per tutta la telefonata. «Amo, non sai quanto mi prude in questi giorni, eppure dovrebbe avere la polvere ormai».
Dopo, è lei a chiamare Raffaele. Non voglio crederci, Raffaele, architetto, l’insipienza fatta uomo, quasi vorrei farle aumentare il prurito. «Ciao» il tono denso e rabbuiato della doppiatrice anni cinquanta, alla Di Meo, come le hanno insegnato in accademia, triste, fiera e artificiale. «Ciao Flora, come stai?». «Benissimo, e tu? come va con lo studio?» nessuna nota di sarcasmo nella voce, tutt’altro, guizza in alto di un’ottava in segno di vivo interesse. «Beh, sì, insomma, qualche divergenza di vedute» tentenna. «Di che genere?» incalza lei. «Sulle cose da fare». L’insipienza. «Ho capito» risponde lei. «Allora tutto a posto, Flo?» e due. «Certo, perché me lo chiedi? è successo qualcosa?». Pausa. «No, niente, è solo che ho visto un libro e mi ha fatto pensare a te, un libro di poesie della Pozzi» potessi dominarla integralmente, forzerei il suo indice sul tasto rosso che non esiste attraverso il coso con cui parla. «Te lo prendo, lo vuoi?».
Qualcosa in questa sciapa imitazione di uomo la intenerisce al punto da volersi spogliare – nel senso di “programmare presto o tardi di farlo” – ma non è la chiamata alla nudità che muove dal basso verso l’alto, no, questa scende dall’alto verso il basso, come una sorta libidinosa moneta di riconoscenza con cui ripagare la comoda normalità offerta. Il genere di uomo che piace a tutti quelli che non devono averci a che fare, amici, mamma, zia. Papà, pure. Il cibo scondito regala sensazione di salubrità, la candida si ciba di zuccheri, l’estratto di stevia diviene una sorta di profilassi. Più tardi la sento strillare, è la mamma, qualcosa a proposito del bilocale e dei trent’anni, del fatto che si debbano fare le cose giuste, non è mai stata in ritardo fin’ora e non capisce perché uscire dai binari proprio adesso, ma niente a proposito di ascoltare i consigli di quella di sotto. Anche stanotte di dormire non se ne parla. Una volta, con l’uomo che per noi è sempre stato e sempre sarà “Lui”, con maiuscola da nome proprio, dopo aver chiuso i rubinetti si dormiva che era un piacere. La palpebra precipita, la supplico di lasciarmi un p0′ stare. Qualcosa mi strattona di sopra, quasi posso vedere quello che vede lei senza traduzioni, senza condotti e centrali che smistino il segnale. Lui, un numero le cui cifre si leggono come le lettere di un nome, quello che non nomina nemmeno quando la obbligano a parlarne, come fanno le nonne coi brutti mali. Rispondi, rispondi, rispondi, impone il mio afono comando.
Lascia squillare, lascia sfumare, è passato un anno ma Lui ancora la ama, ci ama, noi e tutto ciò che corre nel mezzo, lei spera che prima o poi se ne faccia una ragione, che capisca che non è cosa buona e giusta, troppi problemi con gli amici, in famiglia; a loro non piacciono gli sconosciuti. In famiglia tali si resta finché non si viene presentati da qualcuno di autorevole. E fuori, con quelle relazioni scelte e cercate, per le quali ha dovuto superare varie fasi di valutazioni, la situazione è anche peggiore. I maschietti che lei porta in casa abbisognano di presentazioni di terzi che garantiscano sulla loro genetica rispettabilità. Forse avevano ragione, troppo inquieto, le persone buie prosciugano la luce degli astri che gli camminano accanto. Ma, dio, quanto male fece quella volta. Piaceva a entrambe, forse non in egual misura, ma le quote devo sempre ripartirle con l’inscatolato di sopra, in cima, e non sono mai uguali. È giusto così, proporzione variabile. I nostri non obbligano, guidano le scelte secondo infallibili assiomi derivati dall’esperienza dei predecessori.
Quella volta, io fui quella che premette di più, ma perdemmo entrambe allo stesso modo. Lui non fu il primo di cui ebbe il coraggio di parlare coram populo, a cena. Ce ne fu un altro, un po’ di anni prima, una cosa estiva; Gabriele, forse? Papà disse: «Flora, non ti dirò mai con chi frequentarti e mai metterò veti, ma tu vuoi fare l’artista, giusto? L’attrice, la ballerina, quello che è, ecco: il papà di quello lì fa il postino e la mamma lavora alla Conad. E lui è un demente». Lei ci rimase male, ma non voleva deluderlo, e non aveva ancora gli strumenti per farlo, se anche ci avesse provato. Eravamo piccole, non contava niente. Ma con Lui fu tutto diverso. Quella volta, papà non disse nulla, bastò la mamma: «Quello lì non è risolto. Non è giusto». Non solo questo, dovette tornare sull’argomento due volte al giorno per un anno prima di riuscire a persuaderla.
Qualche folle, molti secoli prima di questi eventi, diffuse con successo la convinzione che i genitori fossero infallibili. Con gli anni, ha imparato a decifrare le smorfie raccontando sempre meno. «Sì papà» recita ancora con voce aguzza da bambina colpevole. Mille volte e almeno una di troppo, almeno per me, nata con due paia di labbra, una bocca, tante opinioni e nessuna parola.
Di Giacomo Cavaliere
Giacomo Cavaliere è nato a Torino il 16 luglio 1995 e ha studiato Storia all’Università Statale di Milano. Si è occupato di esposizioni collettive e personali d’arte contemporanea, sia in qualità di curatore e addetto stampa che di autore di critiche e recensioni. È stato membro della redazione storica di Frammenti- Rivista. Alcuni racconti sono apparsi su l’inquieto, Bomarscé, Malgrado le mosche, Sulla quarta corda, Waste, Narrandom, Neutopia, Blam e Il primo amore e altre. Riceve la menzione speciale della giuria di “InchiostroNoir 2022” della Città di Verona e rivista Inchiostro. Figura nella selezione finale di “Mensa in Fabula” e Premio Zeno 2022 e ottiene la borsa di studio del Literatur TANDEM 2023.