
Erano le undici, quando abbiamo deciso di fermarci a mangiare, Ribeiro ha svoltato e ci siamo diretti verso un paese costiero. All’orizzonte è apparso il mare, una sconfinata pianura azzurra disseminata di scogli e isolotti. Nel paesino c’era un porto molto trafficato, i traghetti collegavano le isole dell’arcipelago. Abbiamo scelto un bar a caso e ci siamo seduti a bere una birra, Ribeiro ha ordinato un panino al prosciutto, io al salame. Intorno a noi c’erano operai seduti a discutere animatamente, era facile intuire il tanfo dei loro aliti. Sui tavolini erano ammucchiate bottiglie di birra e posaceneri pieni di mozziconi, le bocche degli operai biascicavano, sbavavano, e producevano risate rauche. Il nostro arrivo ha attirato qualche sguardo dietro cui non c’era ombra di curiosità né di ostilità ma solo di scherno. Forse i nostri vestiti o i tagli di capelli stonavano con l’ambiente circostante: Ribeiro indossava la maglietta di Johan Cruijff del Campionato Europeo del ’76 in Jugoslavia, sudata e bucata. Io, invece, una patetica camicia che in mezzo agli operai mi faceva sembrare un damerino. La veranda del bar era una gabbia di uccelli ubriachi, le voci sciamavano impazzite in ogni direzione e svanivano nel caldo di mezzogiorno. Tra gli avventori ce n’era uno, seduto in disparte, che ha attirato la mia attenzione. L’ho fissato per qualche secondo mentre accarezzava il muso di un cane da caccia, una specie di bastardo pezzato. I nostri sguardi si sono incrociati e mi ha sorriso. Era un colosso di almeno due metri, aveva lunghi capelli legati e una camicia a quadri completamente sbottonata. Si è alzato e il cane l’ha seguito mentre camminava barcollando verso il nostro tavolino. Lo abbiamo invitato a sedersi e, sorridendo, ha simulato un saluto militare per presentarsi.
“Sono Felipe”.
“Ciao amico” ha risposto Ribeiro.
“Questo è Elias” ha detto, accarezzando il muso del cane. Aveva un’espressione distesa e amichevole. Anche lui, come gli altri, sembrava ubriaco.
“Che ci fate da queste parti?”
Abbiamo risposto con un espressione che significava niente, oppure che non lo sapevamo e in fondo non importava.
“Siete vagabondi?”
“Più o meno” ha risposto Ribeiro.
Ho sentito una voce alla radio. Sembrava recitare un copione che suggeriva un tono entusiasta. Ho fatto un gesto con la mano per spazzare via l’impressione sgradevole prodotta dalla voce e ho sentito Felipe dire “ Io abito dietro la spiaggia, in mezzo ai rovi, che ne dite di una visita guidata?” Abbiamo accettato.
Ribeiro ha pagato e Felipe ci ha invitati a seguirlo. Le vie del paese erano piene di turisti in costume, alcuni indossavano camicie bianche o lunghi vestiti di colori vivaci. I volti erano coperti da grossi occhiali da sole e cappelli flosci. C’erano solo vecchi e bambini e noi, tre figure oblique che si trascinavano sotto un cielo torrido, in compagnia di un cane. Felipe ci ha condotto lungo un sentiero di sabbia, le piante e i fiori intorno a noi erano grovigli di spine incenerite. Ci siamo fermati davanti ad una roulotte circondata da uno spiazzo ampio da cui si vedevano i bagnanti sdraiati in riva al mare. Il cane si è infilato in una cuccia mezza marcia e Felipe ha tirato fuori un mazzo di chiavi. La roulotte era minuscola e puzzava. C’erano vestiti ammucchiati un po’ ovunque. Su una credenza in disordine c’era un busto di Hermann Göring, e sulla parete, sopra il busto, una riproduzione da supermarket del famoso scatto di Che Guevara. Tra i vari oggetti ammucchiati ho visto una vecchia leika dorata con alcuni simboli nazisti incisi. Felipe ha sorriso, dicendo: “La mia abitazione è un museo del gemellaggio tra idee contrastanti. Io di politica non ci capisco niente”.
Poi ha sputato. La sua incapacità di risolvere gli elementi dialettici in una sintesi mi ha commosso, forse era il risultato di un ragionamento sottile, sofisticato, oppure, più probabilmente, si trattava di un istinto, che lo rendeva immune al fanatismo ideologico. In entrambi i casi, il risultato, lo elevava ad uno stato che, ai miei occhi, appariva toccante, ammirevole, saggio e forse un po’ svitato. Ci siamo seduti su un divano, davanti a noi c’era un tavolino basso con alcuni ossi di seppia disposti a caso. Ho pensato che Felipe fosse un collezionista pazzo, senza metodo né criterio, un accumulatore selvaggio. Non era un nazista né un comunista, non che il pensiero mi preoccupasse, in realtà non me ne fregava un cazzo. Ribeiro si è alzato e con un balzo si è avventato davanti ad uno scaffale con qualche libro. La roulotte era minuscola, c’era appena lo spazio per girarsi. I libri di Felipe erano romanzetti sentimentali con copertine variopinte e titoli come Le tenebre del desiderio, Ribeiro li sfogliava e poi li riponeva al loro posto finché non ne ha scelto uno e si è seduto sul divano con le gambe incrociate e l’aria meditabonda. Felipe se ne stava appoggiato ai fornelli in un angolo della roulotte, con un’espressione bonaria e un sorriso lievemente imbarazzato.
Ribeiro ha letto una frase: “In fondo ai miei ricordi c’era uno scrigno d’argento” poi, con tono serio e affettato, “sognavo di immergermi nella palude e sprofondare nel ricordo di quella notte” abbiamo riso tutti, e Felipe ha detto, come per scusarsi “È roba che mi tiene compagnia, la roulotte è un luogo solitario”, allora abbiamo smesso di ridere. Ribeiro continuava a leggere in silenzio, mentre Felipe cucinava e io fissavo il busto dallo sguardo pateticamente severo. Gli occhi erano assurdamente tondi e sporgevano, così sembrava di osservare lo sguardo di un esaltato. Qualsiasi tipo di atteggiamento autoritario mi riusciva odioso e comico.
Uno sguardo, uno slogan, un uniforme. Ma il mondo intorno a me è fatto di slogan e di uniformi: è una parata e io preferisco starne alla larga o perlomeno ai margini. Felipe ha servito gli spaghetti, un piatto per me e uno per Ribeiro, lui invece ha mangiato direttamente dalla padella unta e dopo il primo boccone ha detto, con aria triste: “Ah, quante amarezze, ragazzi” e noi abbiamo annuito in silenzio.
Tutto in Felipe ispirava sentimenti malinconici e anche una certa tenerezza. Aveva un volto da vecchio attore hard sconvolto dall’Aids, il suo naso sporgeva come un becco granitico, gli occhi, due minuscole fessure, erano circondati di piccole rughe, come radici o terminazioni nervose.
Quando parlava inclinava il capo e guardava un punto situato tra le punte delle scarpe di pelle ormai logore, dalla vernice sbiadita o addirittura scrostata come fango secco. E sorrideva. Sotto la branda in cui dormiva ho intravisto la canna di un fucile, Felipe se n’è accorto e l’ha afferrato. Io e Ribeiro abbiamo appoggiato i piatti al tavolino e lo abbiamo osservato accarezzare l’arma.
“A che serve il fucile, Felipe?” ha chiesto Ribeiro.
“Dalla palude emergono gli spettri” ha sussurrato Felipe, poi ha alzato la testa e con un tono da invasato ha aggiunto “Devo proteggere la mia solitudine, ragazzi”.
Dopo una breve pausa, interrompendo con un suono rauco il silenzio che sembrava precedere un gesto eclatante, ha gettato il fucile sul divano tra me e Ribeiro. La tensione è svanita e ho provato una delusione amara. Ma cosa mi aspettavo?.
Felipe ha cambiato tono, ho afferrato i piatti e li ho appoggiati in cucina. Nel frattempo Felipe ha preso il mio posto sul divano e ha iniziato ad osservare gli ossi di seppia, come se disponesse i preparativi per qualche stregoneria. Ha tirato fuori dalla tasca dei jeans una bustina di cocaina, l’ha rovesciata sul tavolino e ha usato gli ossi per dividerla in parti uguali. Gli ossi sembravano amuleti di una divinità acquatica. Io non mi faccio, ma ho osservato i gesti di Felipe, e li ho trovati misteriosi, persuasivi, le sue mani erano le mani di un monaco reietto; ogni scatto, misurato con una certa sapienza, esprimeva con precisione una saggezza antica, sepolta, e riemersa in una circostanza che non aveva nulla di sacro. I movimenti ipnotici si dissolvevano in una serie di immagini successive ma sovrapposte, come se tutto accadesse in un unico momento estratto a caso da quel pomeriggio sospeso in mezzo alla palude. Ribeiro ha consumato il pasto rituale con Felipe, poi si sono abbandonati sul divano. Sono uscito dalla roulotte a leggere. Intorno alla roulotte c’era un recinto di rovi in cui sciami di insetti svolgevano rituali esoterici. O almeno questa è l’impressione che ho ricavato, osservando, confusamente le loro operazioni ripetitive e apparentemente inutili. Ho scritto dei versi che poi ho riletto provando un senso di imbarazzo che mi ha perseguitato per ore. Dalla roulotte non arrivava alcun rumore. Quando sono rientrato iniziava a scendere la sera, come un lenzuolo nero gettato su una riproduzione in scala del mondo. Felipe e Ribeiro dormivano. Mi sono seduto sulla branda e li ho osservati per un po’. Fuori dalla roulotte si iniziavano a sentire dei rumori, come se la sera avesse risvegliato la fauna del luogo e gli animali fossero usciti a rovistare tra i cespugli come vagabondi che frugano tra i rifiuti. Felipe si è alzato di scatto scrollandosi di dosso il torpore, e ha afferrato il fucile.
“Sono tornati” ha sussurrato.
“Chi è tornato?”
“Quei cinghiali del cazzo”
“Hai paura dei cinghiali, Felipe?” si è informato Ribeiro.
“In un certo senso” ha risposto, stringendo la presa sul fucile, “Là fuori tengo il mio tesoro, la roba, insomma la droga, e quegli stronzi la dissotterrano ogni sera, finché non faccio scoppiare qualche colpo”. Si è precipitato fuori; ho lanciato un’occhiata a Ribeiro e l’abbiamo seguito. Nella penombra si intravedeva una sagoma nera che scavava freneticamente.
“I cinghiali si fanno? Sembrano disperati” Felipe non ha risposto. Ribeiro ha sorriso, o forse ha fatto una smorfia che ho scambiato per un sorriso.
“Ora spari, Felipe?” ha chiesto Felipe si dimenava come uno che cerca di spogliarsi al buio, in preda ad uno spasmo erotico, senza seguire alcun percorso logico di svestimento.
Voleva procedere verso la sua preda, ma la forza di gravità, con la complicità di un paio di grammi di coca e qualche bicchiere di scotch, lo spingeva indietro verso le pareti della roulotte. Si dev’essere rassegnato perché è rimasto incollato alle lamiere. Ribeiro ha fatto un gesto per dissuaderlo, mi ha lanciato uno sguardo preoccupato, poi abbiamo visto la canna del fucile sollevarsi come un’erezione. Le mani di Felipe erano gonfie e viola, aveva diverse cicatrici, forse nei momenti di sconforto si mordeva le mani nel tentativo di strapparle via. Il fucile ondeggiava. Si svolgeva tutto con una lentezza esasperante, così ho alzato lo sguardo al cielo e ho visto le stelle. A Felipe, se avesse avuto il tempo di osservarle, sarebbero apparse come perle luccicanti dai contorni incerti. Minuscole porzioni di materia instabile, scosse da fremiti isterici. Quando il fucile di Felipe ha sparato non si sono disperse, come avrei creduto, ma sono rimaste immobili a fissarci. Il rinculo ha spinto Felipe contro le pareti della roulotte e quando Ribeiro l’ha aiutato a rialzarsi erano ormai deformate. Ho acceso una lanterna appesa sopra la porta d’ingresso che serviva ad illuminare il tavolo e le sedie di plastica nelle notti estive. Il salotto di Madame Verdurin, se Madame Verdurin fosse stata una tossicomane che intratteneva vagabondi e leggeva romanzi rosa. La luce ha illuminato una sottilissima striscia bianca a cui seguiva una striscia di sangue nero. Tra i cespugli si dimenava il corpo peloso e moribondo di un cinghiale. Felipe si è trascinato con l’aiuto di Ribeiro e ha riso come un maniaco. Non era rimasto niente della sua espressione mite, il suo sorriso si era decomposto, singhiozzava ed esultava. Era Hermann Göring, nelle foreste della Prussia Orientale, a caccia di cervi. Ribeiro ha lasciato cadere Felipe e ci siamo avvicinati al corpo. L’ho osservato a bocca aperta, come se assistessi a un prodigio, mentre estraeva il coltello dalla tasca e incideva la pancia del cinghiale.
La vittima sacrificale ha smesso di produrre suoni e ha rigurgitato le interiora sulla sabbia. Ho vomitato, poi credo di essere svenuto. Quando mi sono svegliato ero seduto su una sedia e Ribeiro se ne stava davanti a me, a fumare. Felipe si era addormentato, steso per terra, con i pugni chiusi.
Ribeiro mi ha allungato una sigaretta.
“Cosa rimane quando una persona esaurisce le maschere da indossare?”
“Un mostro?”
“Anche”
“Uno specchio?”
“Anche uno specchio”
“E poi?”
“Un gesto”
“Un gesto?”
“Un gesto idiota”
“Eclatante”
“Sì. Come se volessi intrattenere il mostro nello specchio”.
Di Marco Pianti