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Quel limbo tra infanzia e adolescenza: le ‘Piccole cose connesse al peccato’ di Lorena Spampinato (di Alice Pisu)

Con Piccole cose connesse al peccato (Feltrinelli) Lorena Spampinato torna a esplorare il limbo tra infanzia e adolescenza, a distanza di tre anni dall’uscita de Il silenzio dell’acciuga (Nutrimenti). Il romanzo si svolge nel tempo di un’estate. È il 1996. Annina, la giovane protagonista, lascia Catania per passare le vacanze nei pressi di Taormina con sua cugina Enza nella casa della nonna dove Angela, sua zia, ricorda gli anni della sua formazione sentimentale, i contrasti con sua sorella, le attese e le disillusioni, il peso della vergogna e l’onta del pregiudizio, amplificato dalla dimensione chiusa del paese. Sin dalle prime pagine emerge il dissidio irrisolto tra le due cugine, mosse dal desiderio di emancipazione dalla noiosa realtà piccolo borghese, alla ricerca di avventure e di nuovi incontri. Enza con la sua caparbietà e la sua bellezza insolente rappresentano motivo di irrequietezza e desiderio, anzitutto per Annina, che sviluppa la necessità di non apparire, di annullarsi, nella spasmodica attesa dei momenti di intimità con Enza che annullano ogni innocenza.
“Gli incontri radi per le feste – Natale, Pasqua – avevano svelato la crescita in altezza e poco altro: la magrezza ostinata delle gambe dentro i collant, i fianchi appena inspessiti. Adesso invece la sua adolescenza m’esplodeva accanto e si portava appresso un imbarazzo nuovo. Giravo la testa, distoglievo lo sguardo posandolo ovunque”.
A inserirsi tra le due minando un equilibrio instabile è Bruna, un’irregolare dalla bellezza “molesta” e dalla “frivolezza invidiabile” segnata dalla perdita del padre e dal rapporto conflittuale con la madre, alla ricerca di una rivalsa dall’ingiustizia del vivere. È un outsider, un modello di emancipazione e di autonomia di pensiero che guiderà Enza e Annina nell’intuire il significato sino ad allora sconosciuto di libertà, nel rapimento che la sua figura genera attraverso una visione inedita di autodeterminazione nella trasgressione e nello scardinamento della figura materna. La sua presenza permette alle cugine di entrare a far parte di un gruppo di amici, ragazzi scapestrati che vivono di espedienti e sono invisi alla comunità. Le fughe in motorino, i furti di biciclette, i falò, i divertimenti vuoti senza cognizione delle conseguenze, le serate in spiaggia dove scoprire al termine della notte “un guizzo di felicità”, innescheranno in Annina un groviglio emotivo inestricabile di invidia, gelosia, attrazione, nell’enigma di una sessualità repressa e mai scrutata in modo onesto.
La tensione che caratterizza le pagine è cadenzata dall’evoluzione indicata dai capitoli: disobbedienza, desiderio, colpa, peccato, salvezza. Definisce un crescendo tragico nell’indagare il significato della vergogna, il peso dell’oppressione, la ricerca vana di solidarietà tra “scampati”, la colpa, il pregiudizio che produce diffidenza, il senso di estraneità al presente che genera un indefinito spaesamento e invoca libertà da ogni vincolo sociale e famigliare. Il romanzo analizza il modo in cui ogni personaggio si relaziona alla perdita nel contrasto tra paura e esaltazione, educazione al sacrificio e ribellione, ferocia e superficialità, necessità di consenso e disubbidienza. Gli indugi descrittivi con continui flashback infantili che si sovrappongono a un tempo ovattato fatto di racconti, nascondigli segreti e pomeriggi passati a scrutare un riflesso violaceo nell’acqua, generano immagini vergate da una sottile malinconia, una quiete apparente che anticipa l’incombere del tragico.
L’indagine fisica prende forma attraverso una prosa densa di simbologie che indugia sull’osservazione del movimento delle figure che sfilano sulla pagina, per descriverne gli stati d’animo, le incertezze, le vibrazioni, i furori improvvisi e la rabbia latente, la necessità di una trasfigurazione salvifica alla disperata ricerca dell’oscillazione, del “dondolio dell’esistenza vera”.
“Nella corsa sembravano figure incorporee. Il sole brillante ne illuminava i contorni, le ombre si allargavano, si abbattevano sui nostri piedi. A tratti si udivano risate fragorose e urla oscene. l’ilarità scoppiava all’improvviso dall’errore: un passo falso, uno scivolo e una parola di troppo”.
L’allestimento dello scenario urbano fa da contrappunto al racconto dell’inquietudine. L’asfittico clima del piccolo paese, i pranzi di Ferragosto tra donne affaticate e orde di bambini urlanti, le immagini del mercato brulicante di persone accalcate davanti ai banchi di costumi luccicanti, teli ricamati e borse di paglia, pietre d’ambra e pentole, con il patetico sottofondo della banda che pare “un ritornello stantio, quasi un suono d’infanzia”, fanno da contraltare all’impotenza e allo stordimento che attanagliano la protagonista nella consapevolezza tardiva di un’indecisione fatale. La rievocazione di un’estate eccitante e dolorosa mossa dalle prime delusioni amorose, dall’agitazione e dalla tristezza, dal senso di tradimento e dalla speranza, porta Annina a prendere atto della propria incapacità di reazione e di imposizione intellettuale. La sua immobilità, il suo assentire muto tra fantasie di distruzione del presente, rappresentano un carico insopprimibile, esorcizzato sul finire del romanzo da un rituale liberatorio. Ogni figura avanza nell’esistenza con una maschera che nasconde un radicato male di vivere, disgrazie disseppellite nelle prime sbronze condivise, nella sospensione dal presente, nel miraggio di un improvviso benessere che genera l’impressione di irrealtà, di “poche, piccole cose al peccato”.
Spampinato pone a confronto le euforie e le incertezze giovanili con lo sguardo adulto sul senso di un’età nella scoperta per la prima volta del “gusto delle cose eterne”, che evoca le stesse attese e frustrazioni di una madre impotente di fronte alla disgregazione del suo presente, annientata da una malinconia dilagante resa nell’immagine di una casa che custodisce reperti remoti. L’abbaglio è reso nel contrasto richiamato da cose che restituiscono l’infrangersi di speranze e convinzioni, nelle foto sbiadite che attestano certezze come un’abitazione in città e una famiglia perfetta, e negli oggetti inutili, custodi di un tempo irraggiungibile, di una vita, “tutta, ripiegata nei cassetti e negli armadi, tra abiti intonsi e tovaglie merlettate”.
La figura materna è indagata da Spampinato a partire dal rapporto conflittuale tra generazioni, racconta il condizionamento fisico e interiore di chi è cresciuto con un’educazione che annullava qualsiasi impulso di ribellione e allontanava chi si macchiava della vergogna, decretandone l’oblio. In tal senso la madre rappresenta il fallimento della trasmissione di un impeto rivoluzionario. Cresciuta sotto il peso del giudizio famigliare e del pregiudizio sociale risponde sviluppando un culto – frainteso – dell’apparenza per riappropriarsi del suo corpo e della sua identità, ma riceve solo il disprezzo di una figlia che le scaglia addosso la sua rabbia latente. Il romanzo analizza un attrito perenne, generato dalla percezione di una generale incomprensione reciproca, che porta adolescenti a avventarsi contro le madri ritenendole responsabili di “scavare abissi “precipizi, burroni” destinati a far precipitare dentro le figlie ineluttabilmente, e che induce le madri alla resa, allo sconforto nella sensazione di una cocente solitudine, nel comune spettro della colpa originato nell’infanzia che sancisce un nuovo lessico per l’insofferenza.
L’interesse, mostrato dall’autrice già nel romanzo precedente, nel tratteggiare il tortuoso percorso identitario di chi cresce sotto il peso di un modello morale improntato sul rigore, riserva nell’opera una nuova attenzione alla ricerca di un rifugio nel silenzio, per rimuovere l’indicibile e placare la sofferenza e il terrore dell’abbandono. La percezione di un vuoto incolmabile scava uno spazio nell’immaginario, per trovare un sollievo aleatorio nella suggestione.
Con Piccole cose connesse al peccato Lorena Spampinato compone un romanzo di formazione atipico, che indaga la depressione, lo smarrimento, il senso di esclusione celati sotto la superficie, dietro il vincolo della leggerezza, che fanno da preambolo all’inesorabile. L’opera ricerca l’istante che anticipa la frattura scorgendo nel modo in cui il passato si frappone al presente il marchio di un tormento inestinguibile, la presa d’atto dell’impossibilità del ritorno a un luogo, a un tempo e a un’innocenza corrotti in modo irrimediabile.
“Ora però lo sapevamo: esisteva un punto oltre il quale cadevano le cose. Un punto vicinissimo, che si poteva persino sfiorare. Lì cadeva l’adolescenza, cadevano le estati. Le giornate abbaglianti. I volti delle persone conosciute, il loro accento. I corpi allo specchio. I desideri, la contentezza. Cadevano gli sbagli. L’odore della pelle. Le ciglia intrappolate dal rimmel. Le macchie sui vestiti. Le biciclette rosse, le biciclette blu. Il respiro acido della notte. I capelli tenuti da mollette. Cadeva la pioggia di agosto. Le scarpe fatte di cenere. I laccetti del costume. Le feste. Il sangue nelle mutande. Le dediche sui tovaglioli da bar. I nomi dei genitali. La vergogna. I baci. I jeans. Cadeva la vita. Cadeva soprattutto la vita, non tornava più”.

 

Di Alice Pisu 

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