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Gordon Lish e Carver: ovvero rendere minimale ciò che minimale non è. Less is – davvero – more? (di Chiara Scipioni)

È di parecchi anni fa la notizia della (presunta) bufala del minimalismo di Carver, quel particolare stile letterario che prese piede negli Stati Uniti verso gli anni Ottanta, caldeggiato (e forse addirittura plasmato) dal suo editor, Gordon Lish. Che tagliava, tagliava, fino a far diventare – appunto – minimale ciò che minimale non era, o non lo era del tutto, almeno.
In Italia fu Baricco a portare alla ribalta la questione. Non che a scoprirlo fu Baricco, tutt’altro. Se ne diceva già da una decina di anni e era diventata oramai una leggenda metropolitana, ma il primo a scriverne fu D.T. Max in un articolo apparso sul New York Times alla fine degli anni Novanta. Il magazine di cui parlava Baricco riportava in copertina un ritratto fotografico di Raymond Carver e c’era un lungo articolo in cui D.T. Max diceva che da “vent’anni circola una voce, a proposito di Carver, e cioè che i suoi memorabili racconti non li abbia scritti lui. Cioè, per essere precisi: lui li scriveva, ma il suo editor glieli correggeva così radicalmente da renderli quasi irriconoscibili”.

Fonte: The Guardian

Per farla breve, Max era andato a Bloomington, nell’Indiana, in una biblioteca (la Lilly Library) a cui Gordon Lish aveva venduto tutte le sue carte, dattiloscritti di Carver compresi, con le correzioni apportate. Confrontando prima Di cosa parliamo quando parliamo d’amore e poi molti dei racconti carveriani venne fuori che “nel suo lavoro di editing, Gordon Lish ha tolto quasi il 50 per cento del testo originale di Carver e ha cambiato il finale a dieci racconti su tredici”.
Alessandro Baricco verificò la questione andando a scartabellare alla stessa Lilly Library di Bloomington dove erano conservati i dattiloscritti di Carver con le correzioni di Lish e ne raccontò la cronaca nell’articolo L’uomo che riscriveva Carver apparso il 27 aprile 1999 su «la Republica», di cui sono i virgolettati citati, che dice:

Così mi son seduto, ho chiesto il fondo Gordon Lish, e mi son visto portare uno scatolone da
traslochi, pieno di ordinatissime cartelline. In ogni cartellina, un racconto di Carver. Il dattiloscritto
originale con le correzioni di Gordon Lish. […] Sono andato dritto al più bello […] dei racconti di
Carver: Di’ alle donne che usciamo. Un marchingegno pressoché perfetto. Una lezione. […] Otto
paginette e una trama molto semplice. Ci sono Bill e Jerry. Amici del cuore fin dalle elementari. Di
quelli che si comprano la macchina metà per uno e si innamorano delle stesse ragazze. Crescono.
Bill si sposa. Jerry si sposa. Nascono bambini. Bill lavora nel ramo grande distribuzione. Jerry è
vicedirettore di un supermercato. La domenica, tutti a casa di Jerry che ha la piscina di plastica e il
barbecue. Americani normali, vite normali, destini normali. Una domenica, dopo pranzo, con le
donne in cucina a riordinare e i bambini a far casino in piscina, Jerry e Bill prendono la macchina e
vanno a farsi un giro. Per strada incrociano due ragazze, in bicicletta. Accostano con la macchina e
fanno un po’ i fessi. Le ragazze ridacchiano. Non gli danno molta corda. Bill e Jerry se ne vanno.
Poi
 tornano. Non è che sanno benissimo cosa fare. A un certo punto le ragazze posano le biciclette e imboccano un sentiero, a piedi. Bill e Jerry le seguono. Bill, un po’ spompato, si ferma.
Si accende
 una sigaretta. Qui il racconto finisce. Ultime quattro righe: “Non capì mai cosa volesse Jerry. Ma tutto cominciò e finì con una pietra. Jerry usò la stessa pietra su tutte e due le ragazze, prima su quella che si chiamava Sharon e poi su quella che doveva essere di Bill”. Fine. Freddo, asciutto fino all’eccesso, metodico, micidiale. […] Puro Carver. Un finale fulminante, e un’ultima frase perfetta, tagliata come un diamante, semplicemente esatta, e agghiacciante. Quell’idea di impietosa velocità, e quel tipo di sguardo impersonale fino al disumano, son diventati un modello, quasi un totem. Scrivere non è stata più la stessa cosa, dopo che Carver ha scritto quel finale. Bene. E adesso una notizia. Quel finale non l’ha scritto lui. L’ultima frase è di Gordon Lish. Al suo posto Carver, in realtà, aveva scritto sei cartelle: buttate da Gordon nel cestino. Leggerle fa un certo effetto. Carver racconta tutto, tutto quello che, nella versione corretta, sparisce nel nulla dando al racconto quel tono di formidabile, lunare ferocia. Carver segue Jerry su per la collina, racconta lungamente l’inseguimento a una delle due ragazze, racconta Jerry che violenta la ragazza e poi si rialza, e rimane come intontito, e inizia ad andarsene, ma poi torna indietro, e minaccia la ragazza, vuole che lei non dica niente di quel che è successo. Lei non fa che passarsi le mani nei capelli e dire “vattene”, solo quello. Jerry continua a minacciarla, lei non dice nulla, e allora lui la colpisce con un pugno, lei cerca di scappare, lui prende una pietra e la colpisce in faccia (“sentì il rumore dei denti e delle ossa che si spaccavano”) si allontana, poi torna indietro, lei è ancora viva, si mette a urlare, lui prende un’altra pietra e la finisce. Il tutto in sei cartelle: che vuol dire senza sbrodolature, ma anche senza fretta. Con la voglia di raccontare: non di occultare. 

Il minimalismo, si sa, dipinge una quotidianità disarmante bandendo ogni introspezione, descrive con un linguaggio scarno ciò che è ordinario, forse addirittura banale. Soggetto del racconto è la quotidianità, popolata da uomini passivi, nevrotizzati da accadimenti triviali che ne canalizzano le emozioni. Una normalità spiazzante che però cova paure ataviche, dubbi esistenziali in cui il lettore inevitabilmente incappa leggendone. (Un po’ quello che è accaduto poi in un certo tipo di letteratura italiana: declinando il movimento carveriano in positivo, ne è un esempio Momenti di trascurabile felicità di Francesco Piccolo).
C’è chi dice che il minimalismo nacque come contrapposizione agli eccessi del postmodernismo.
C’è invece chi, come Stefano Ercolino nel Romanzo massimalista, sostiene che coesistesse col massimalismo.
Quello che è certo, riguardo a Carver, – e lo dimostra Principianti, pubblicato postumo da Einaudi nel 2014, dopo che era stato edito (e editato!) coi tagli di Lish in Di cosa parliamo quando parliamo d’amore – è che i tagli ci furono davvero e che, senza quell’aiutino dell’editor, in special modo sui finali, è molto probabile che il successo dell’autore sarebbe stato diverso, forse ridimensionato.
Non c’è da discutere sul fatto che Carver fosse un abile scrittore (e chi ha letto qualcuno dei racconti di Principianti lo sa), ma il fatto innegabile è quanto poco sia attrattiva l’esegesi carveriana nel finale di racconto. E questo è vero sempre, in letteratura e no.
Personalmente, non amo il minimalismo, infatti è il massimalismo di scrittori come David Foster Wallace che mi affascina, quindi penso che, se Wallace non avesse avuto il talento che a Carver (forse) è stato dato dai tagli di Gordon Lish, avrebbe potuto terminare La scopa del sistema con: “Sono un uomo di parola”, con tanto di punto fermo alla fine.

 

Di Chiara Scipioni

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