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La sala delle deposizioni: il libro umido di Namī vālā – Parte II (di Danilo V Paris)

Parte II

“Il libro è l’estinzione”

 


Non tutti gli editori soccombevano alle scritture di cui decretavano la morte. Alcuni camminavano nelle stanze delle deposizioni come padreterni di un regno di cenere. Altri ne venivano soggiogati, ma riuscivano presto ad evaderne.
Presero il libro, misurava circa un metro per cinquanta centimetri ed era straordinariamente pesante.
Lo condussero come si conduce un prigioniero, una mano su un’estremità aperta, in prossimità dei capitoli delle vette, in cui si racconta del viaggio assurdo dei Balya, la cavalleria dorata delle lune di Moanne, e le dita di quell’altro impresse su quella opposta, quasi tirandolo, stropicciandolo in corrispondenza di una grossa planimetria della città infinita, l’obolo degli architetti. Lo portavano via dalla sala degli scaffali infiniti, vertiginosa e gotica come il giardino degli esili, con i ciuffi erbosi che spuntavano dalle colonne di libri, oscillanti nel vento bianco e gelido, più simili a parallelepipedi argillosi, tumuli di terra cresciuti come errori sulle spalle di una pianura di selezione controllata della conoscenza.
Da quel pianeta scesero verso la panchina al limitare della cordigliera ghiacciata sul vasto oceano, confinati in quella che era un’isola ai margini, addormentata, dove le cose letterarie sembravano esplodere internamente in manifestazioni del tutto anti-letterarie.
Per esempio, la copia fantasma di Caosmosi, di Felix Guattari, in cui si leggeva che “la parola si vuota allorché è sottoposta al giogo delle semiologie scritturali ancorate all’ordine della legge e del controllo dei fatti, dei gesti e dei sentimenti”, infilzata sulla sommità di una delle torri, aperta e trafitta da uno sperone centralmente, si esasperava per fuoriuscire da quella legge impossibile da aggirare, mentre minuscole creature, con le bocche deformate a forma di nave, grondavano giù, seguendo i rivoli che si propagavano osmoticamente in tutte le altre torri.

-Leggiamo, dunque – , si dissero, e allo stesso tempo – Non leggiamo, dunque. Mumble -.
“Recentemente ho capito, osservando attentamente Arca, filogrammi della segnatura, “si leggeva tra le miscellanee critiche del suo autore, a proposito di uno dei poemi generati dalle creature interne al libro ed usciti autonomamente, al di là dello spazio letterario, in forme recitative e celebrative, “e in particolare i due libri viventi dello scultore , i notes magici per le imprimiture memoriali, che le pagine del libro siano solo apparentemente scritte: se le osservavo più attentamente, esse erano invece opache, molli, umide, gessate e cerate, grondanti, attraversate da laminature d’argento e pigmenti ocra di origini vegetali estratti dalle terre rosse, invase di limonite ed ematite, straripanti, infuse, secrete in viscosità porpora dalle ghiandole delle murici. E per un attimo ho percepito che dalle mie dita fremessero, sfiorando le lettere, quelle generazioni di simboli, quasi come stessi toccando un brodo, dalle cui ebollizioni salivano, aggrappandomisi alle dita, le varie mitosi sgocciolanti, tutte lì, prese nel loro farsi e disfarsi indistinto.

Qiaokeli non sarebbe che uno di queste famiglie di filogrammi: un ente biologico partecipe della vita organica e sistemica dell’Umwelt, l’ambiente da cui si origina. La lunga gestazione è passata per circa dieci anni di vite in una forma criptata e quiescente.
Così l’Io si addormentava nella moltitudine di incontri a cui il libro, nascondendosi, si costituiva. La quiete e il silenzio, la premura con cui si custodiscono le parole, come se esse dovessero essere scritte per qualcuno che ci leggerà soltanto dopo che saremo morti, quando verranno estratte dal baratro sigillato quelle testimonianze che si scattano premendo la macchina contro il petto, e poi ficcandole in una scatola insieme ad infiniti nastri arrotolati di alogeni e nitrati e bit e nastri magnetici, che abbiamo raccolto senza vedere mai.
Come le messe in scena che l’hanno preceduto all’interno delle due edizioni del “Commiato delle scritture del post-mondo”, il libro è un oggetto VIVO.
Così come lo sono le lingue, che si modificano e rispondono biologicamente ai suoi parlanti quando ne attraversano la storia e la geografia.
Viene da chiedersi quante volte Shakespeare si sia pentito, rileggendosi, nella fase finale della sua vita, mentre scriveva The Tempest, di tutti quei passaggi inutili ai fini narrativi, scritti solo per concedere a Burbage, l’attore, di avere il tempo di scolarsi una birra fra una battuta e un’altra.
Eppure quei passaggi testimoniano la vitalità e l’impronta ecologica dell’incontro teatrale, l’irriducibile specificità della vita, la sua resistenza alla resa narrativa, la sua indicibilità.

O forse non si tratterebbe neanche di grandezze cellulari, di unità apparenti di infinitesime discontinuità: il libro non sarebbe che la tessitura delle difformi linee vitali che attraversano un sistema, la ripiegatura delle filiazioni all’interno di un Unico che non si conclude in sé, ma si forclude via, ri-indirizzandosi verso le diramazioni di cui non è che la convergenza temporanea. Un atlante delle derive, come il viso, che è il centro di ridondanza dei
significanti: e come il viso, esso può, mortificando la triangolazione occhi naso e orecchie bocca, rientrare nell’a-significanza del muro bianco”.

Le pagine frinivano o forse “bramivano”, come suggerì l’Editore B, mentre i due esperti ne sfogliavano il contenuto.
-Dunque, lo Scrittore vorrebbe determinare questa dissoluzione dell’Io nel circostante, neutralizzando la permutazione dell’individuo in valore di vendita sul mercato.
Come ricorda il Dogma Oulipo redatto nella persona di Italo Calvino, ogni espressione non è che la sua operazione di verificabilità’ nel contesto di un interesse collettivo di consumo.
In quel momento, l’Unico volò verso le sue narici e gli occhi dell’editore si gonfiarono di infiniti corpuscoli verdognoli. L’Unico, che nel concetto artefatto del Dogma, persisteva nella sua visione, venne contro effettuato dalla concreta moltitudine che abitava quello stesso unico.
Scoppiò. I suoi occhi erano due orbite oscure: la bile verdastra colava sulle sue guance, infiammandole. Nel panico, se le toccò con le dita, che si sciolsero immediatamente, lasciandogli soltanto un paio di moncherini putrefatti.

L’editore C, lo guardava terrorizzato, urlando e dimenandosi, impedendosi di toccarlo, perché l’Unico avrebbe infettato anche lui.

– Non lasciarmi così- lo implorava, mentre ogni cosa nel suo corpo andava disfacendosi in una molteplicità inadattabile-, guarda! Non sono io, sono tutti! Sono infiniti. Sono meravigliosi, anche se bruciano. Qui siamo tutto e niente, capisci? Io non sono nulla. Sono- qualcosa-di- ogni cosa e anche tu, che non lo vedi, non sei nulla.
Sei MICROSCOPICO!

E urtandolo, erigendosi sulla panchina in una massa di smeraldi in decomposizione, di moduli varicosi, palpitava, incombendo su di lui, mentre la foresta si era fatta avanti e le colonne tumulate di conoscenza vacillavano sempre più similmente ad una pianura di torri naturali crepate.

– Il libro è l’ESTINZIONE, amico mio. Tu, IRIMIUS TALEB, ne sei parte, anche se ti ostini a evitarne la decriptazione. Hai zigzagato in tutto ciò che ti mettesse in comunione con il pubblico, dicevi, mentre quello che hai fatto è stato escluderlo, considerarlo abietto, parlare come il peggiore dei tiranni. In ogni pagina che hai scartato c’era la violenza necessaria a rovesciare il progetto di potere dell’uomo sull’uomo.

Quella voce non proveniva dal suo collega divorato, ma da qualcosa che ne stava alla radice, al suo centro, forse, un flusso o meglio una massa di secrezione in consolidamento, da cui pendevano le funi che tessevano il libro. Una di quelle funi emergeva da quel nucleo, fuoriuscendo da quell’ammasso di ribollente indeterminazione vegetale. Prese una delle estremità e sfilandola cominciò a correre ansiosamente, nella direzione opposta, dove i tumuli sembravano essere “cresciuti”.
Nel mentre, dietro di lui, il filo era venuto tutto via, e la presenza erratica del suo collega andava ristagnando nei resti mormoranti di una lingua proferita in luoghi SEPARATI.

Nonostante quella presenza se ne fosse andata, diluendosi, qualcosa sembrava permanere nel paesaggio: le funi, a osservarle bene, erano efflorescenze di qualcosa che tramava l’intera struttura della sala delle deposizioni.
Tutti quei libri giacevano apparentemente mortificati nel loro isolamento, mentre, come tuberi, avevano germogliato, vermificato. Le lettere, all’interno delle pagine, comunicavano con tutte le altre presenti negli altri libri, come reti di un interminabile micelio.
Tutto fermentava, esalando un respiro indefinibile.

Tutte le parole dei poeti uccisi, degli scrittori morti o perseguitati in piccoli villaggi, le sceneggiature criminali che furono scongiurate prima di poter sussurrare in orecchie innocenti, tutto emetteva un sibilo sommesso che allargava come toraci gli scaffali che li contenevano.

E l’editore capì, mentre percepiva di non essere in una sala delle deposizioni, nel luogo in cui le scritture venivano eliminate dall’esistenza, ma… in un organismo o piuttosto in un ecosistema impossibile: corpi mai stati vivi, ulteriormente morti. Un cimitero dell’inorganico ulteriormente ucciso che sopravviveva oscenamente.
E capì. Egli stesso, si guardò – se il termine era ancora giusto – la fune che aveva sfilato non aveva prosciugato la linfa di quello che era l’editore: l’aveva solo trasferita in quello che adesso palpitava nel suo corpo orribilmente ingigantito, scoppiato, in quello che adesso guardava a volo d’uccello la massa sconfinata dei tetti delle case dei Phylum, i sogni sacrificati nelle segnature, da cui poi sarebbero stati estratti i succhi linguistici, setacciando e depurando le espressioni che producono terra e non letteratura.
Da lì osservò le madri di Mhyr, i nomi sacrificati in esequie lunari sghiacciate dal fosso e lanciate nel turibolo incensato alle messi, che arrivavano a rima di conchiglia, per poi annegare rovinosamente, aldilà della scogliera, dove ” qualcuno li ha fermati ancora, nel serraglio della Storia,  li ha ammonticchiati tra le animule, inchiodando le assi”, fracassarsi la testa contro le rocce, mentre i figli si schiudevano sul filo dell’acqua, sgocciando via dalla nascita, riempiendo il cielo di innumerevoli lune, quel cielo bianco, da cui adesso la luce arrivava frastagliata dalle forme ondeggianti delle lune in esilio.
E quello che una volta era l’Editore e prima ancora Irimius Taleb non ebbe più coscienza di sé, rifluito tra le propagazioni della scrittura, un’esalazione che non passa per parola, ma per tremiti e fuoriuscite solforose: Namī vālā, l’Editore della scrittura sotterranea, non era che, egli stesso, qualcosa che soffiava, pulsava, l’Uno dei molti e uno dei molti, l’essenza umida della parola dimenticata.
Lì, mentre i tumuli scrittori ormai si sfilacciavano sul punto della segnatura, riconsegnandosi a una volatile, terragna inondazione, Namī vālā, o il ricorso del suo viso, si contorse in un sorriso e ricordò le parole di Eliot, accarezzandole in un pianto oceanico, come oceanico era il suo sentimento.
“Se la parola perduta è perduta”, intonava, “la parola spesa è spesa, Se la parola non udita e non detta è non udita e non detta, Sempre è la parola non detta, il Verbo non udito, il Verbo senza parola, il Verbo per il mondo e nel mondo”.
E quando ripetè le ultime parole, furono anche le ultime cose che vide.
“E la luce brillò nelle tenebre”.
Qiâokëlį era il libro, il mondo e l’estinzione e Namī vālā, l’Editore umido, era la stessa cosa.

ਪੇਸ਼ਗੀ Pēśagī, Origine dell’archivio sepolto, Nicolae Vlassa, 1961

“Si dice che ਪੇਸ਼ਗੀ Pēśagī fu aperta dal crollo del Primo Libro: ਡਿੱਗਿਆسقط Ḍigi’ā Saqat, il
Caduto, il Violato, lo Scomparso, L’Estinto.
A battezzare l’evento dell’immaginazione fu un libro estirpato alla vista dell’uomo: il primo libro non fu mai letto e probabilmente, per questo motivo, alcuni psico-archeologi credono che gli uomini abbiano continuato a sentirsi come perseguitati da qualcosa che non è voce, né suono, né gesto: ma segno, scrittura, in-esistenza impressa come testimonianza della lingua dell’altro spazio, varcato dall’Estinto.
Ḍigi’ā Saqat, il Suicidato della Prima era, strappò le maglie vegetali che tramavano le fosse incise di Jiahu e le Tavolette di Tărtăria a Săliștea, a Vinča e precipitò. A lungo. A fondo. Intelaiando quello spazio auto-generato, invalicabile, di tutte quelle cose che vennero cancellate per imprimere il marchio del discorso che vince su quello che soccombe, scappando tradito tra le cose che marciscono, infettano, sgorgano con dolore dalle profondità.
Non era un caso che in seguito, i materiali che vennero usati per tracciare segni, provenissero  dal mondo vegetale, dai recessi del rimosso della coscienza illuministica.
Ptahhotep realizzava con sempre più precisione questo tradimento fondativo del mito scritturale: in esilio nelle valli sotterranee di Alba Iulia, sotto le infestanti colonne fungine, tra i mucchi di spore luminescenti e le lunghe lastre di silicio umido, si svegliò con le mani zuppe, immerse poco sotto lo stagno di minerali sciolti e solforosi, mentre i molluschi gli salivano sulle dita, riempiendole di pigmenti.
Se le passò sul torso, poi sulle braccia, al centro del petto, sul naso e sulla fronte, sui piedi rinsecchiti e sulle mani decrepite; e i molluschi gli saltavano via dalle dita, trascinandolo contro i muri delle caverne:
Qui, Prima era, Condanna, La Cacciata, L’espulsione, la vendetta del Caduto.
Qui nasce e muore Ptahhotep, ਡਿੱਗਿਆسقط Ḍigi’ā Saqat, il Caduto, il Violato, lo Scomparso,
L’Estinto”.

 

Di Danilo V Paris


Note:

“Le immagini sono Darā’iga e nascono da Darā’iga. Immagini-trovate: virtuali dell’espressione ibernata di
I Darā’iga non sono ‘schermi’ o ‘computer’. Sono organismi di variabilità continua che orbitano temporaneamente nella nicchie del Rana Edari, il deserto delle mappe in rovina, visualizzando le immagini del mondo erede-antenato“.
I Darā’iga, ne il Rana Edari, Annali Anonimi

Tutte le immagini sono prodotte da Midjourney Inc.

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