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La voce come accesso al desiderio. Riscrittura dell’esilio degli amanti: ‘L’amore inutile’ di Gianfranco Di Fiore (a cura di Maria Teresa Rovitto)

L’amore inutile (Wojtek Edizioni, 2023) del titolo è un’espressione attribuibile all’amante deluso, rancoroso che pure, però, non ha fatto o non può fare a meno della ricerca del moto perpetuo di un sentimento che sembra a volte produca energia dal nulla o, almeno, in contraddizione con qualsiasi altra legge fisica. Così, nell’amarezza, lo accosta al volgare concetto di utilità. Ma l’amore è indefinibile e per questo né utile né inutile; non si impara dall’esperienza, non c’è soglia oltre la quale si può dire di aver raggiunto una compiuta maturità.
Gianfranco Di Fiore (autore dei romanzi La notte dei petali bianchi, Laurana Editore, e Quando sarai nel vento, 66thand2nd, che nel 2018 viene candidato al Premio Strega) torna con un’opera che è un’indagine sull’amore, nella quale non c’è nulla di prevedibile fino all’ultima pagina, nonostante la riscrittura del topos letterario. Lo fa affidandosi alla forza indiscutibile della sua scrittura e a un’architettura narrativa raffinata che consta di due parti legate da un crescendo tragico e delicato allo stesso tempo.
L’ambientazione è un’anonima provincia del sud dove un lui e una lei, sul finire della loro prima giovinezza, si incontrano una sola volta e poi mai più. Ma sarebbe meglio precisare: una sola volta lui vede da lontano lei, chiede il suo contatto e iniziano a sentirsi telefonicamente e a scriversi delle lettere, nella speranza di vedersi presto. La distanza forzata è dovuta a un impedimento psicofisico di lei, conosciuta in un momento in cui la sua vita è stata interrotta dalle conseguenze di un intervento di chirurgia estetica; lei che piano piano, e ora anche grazie alla sua vicinanza, cerca di rientrare nel mondo e riallinearsi ai ritmi della convivenza sociale, ma senza voler essere addomesticata. Lui, un fotografo di umili origini, ormai consapevole delle difficoltà di costruire una carriera sulla propria arte, osserva lo strazio di lei e si convince sempre più che starle vicino sia la cosa giusta per entrambi: “[L]a sopportazione dei suoi lamenti gli serviva come antidoto per la propria ignavia”.
Nell’incipit leggiamo: “Quando una donna smette di parlare è solo per nascondere un dolore”.  E allora il miracolo è che lei almeno non smette di parlare e lo fa con lui, nonostante il suo isolamento.
La descrizione minuziosa della miseria e del degrado del paesaggio che fa da sfondo alla storia amplifica la desolazione di una relazione che vive dell’alternarsi di continui slanci, implosioni, offerte e ripensamenti e dialoga con le esistenze marginali di chi circonda i due protagonisti. Una comunità sfatta in un tempo sospeso da cui loro sognano di prendere le distanze e che funziona giorno dopo giorno come un nodo scorsoio.
La domanda ricorrente del narratore, e degli stessi personaggi nelle loro lettere, è: 

Ci si può innamorare di una voce?

 Un amore ridotto a una materialità sonora, ma mai disinteressato alle parole; la voce che si fa intima presenza e scatena il gioco perverso dell’immaginazione è il solo appiglio alla vita dell’altro e ne restituisce, forse più di ogni altra cosa, l’unicità, se si pensa al fatto che spesso con la vista cogliamo solo la superficie della realtà. Una delle condizioni che permette di concentrarsi su questa unicità è che chi emette la voce resti invisibile, un modo insolito di percepire qualcosa che va oltre le parole dell’amore che, in fondo, sono sempre le stesse. Una voce che qui si incava nei canali digitali sfondando la barriera del frastuono del mondo esterno; in questa storia ciò che distoglie i protagonisti dall’ordinario assume questa forma.
Voce che con la sua componente pulsionale e presemantica spinge l’eros. L’ambito della voce sembra, insomma, eccedere quello dello sguardo e quello delle parole; lì dove vibra sempre qualcosa di inespresso, irriducibile, come quella phoné che per i Greci era ogni suono umano o animale, umano e animale. 

“Il loro amore conteneva migliaia di cromie e sfumature, ed erano tutte superflue, non assorbite e respinte, così inutilizzabili da risultare necessarie”. 

Accettando la procrastinazione di un incontro e tutte le conseguenze afflittive di ciò, lui sembra accedere a una realtà superiore, sembra abbia il coraggio di elevarsi spiritualmente in questa rinuncia, in questa privazione. Ma è davvero così? È davvero solo questo? Il lettore percepisce che anche nella vita di lui è successo qualcosa, c’è altro, un non detto che affiorerà insieme alla consapevolezza di un altrove irrealizzabile.
L’amore pretende sempre la riunione degli amanti, così come sedimentata nel senso comune e nella storia dei corpi:

“Forse, per diventare amanti, bisognava rompersi. Rompere il suo corpo, rompere le parti di lei, e alla fine rompere anche le parole”

Nonostante la tenacia e la bellezza dell’estasi idealizzante, Non si poteva fare tutto con la voce.
Si alimenta, certo, di promesse, di giuramenti, di somministrazioni di irrealtà, della vicinanza di chi non si preoccupa della verità, ma poi ha bisogno di contatto, di credibilità, di testimoni, finanche di conformarsi alle aspettative altrui, a costo di diventare più insignificante, più normale e meno spaventoso, meno mostruoso. E se questo incontro non può avvenire, l’amore collassa. 

 “Non c’era niente di normale in lui, in lei e nel loro amore, e questo dunque era un miracolo, e solo un dio poteva aiutarlo”.

La scrittura sinestetica e piena di grazia di Di Fiore ci trascina con i suoi accenti lirici in un’atmosfera antica e archetipica; l’autore non fa a meno, però, di far rientrare i momenti di maggiore tensione emozionale con la scelta di crude radici semantiche.
Tutto si gioca sulla volontà di comprendere l’amante e di restare nella sua vita nonostante tutto, sulla consapevolezza di dover dare valore al momento della scelta, all’inizio. È solo andando avanti nella lettura di questo prezioso romanzo che capiremo qualcosa anche della scelta di lui, uno svelamento graduale che condurrà il lettore a fare le sue considerazione a ritroso.
Forse gli scrittori tentano di resistere alla fugacità di quell’inizio, come a quella di ogni altro istante che merita di essere fissato e, quindi, lo dilatano.
Su questo del resto si fondano tanti capolavori della letteratura. Se, ad esempio, Martín avesse compreso il mistero di nome Alejandra, Ernesto Sábato non avrebbe mai scritto Sopra eroi e tombe:

“Non arriverò mai a conoscerla del tutto, pensò, in un’improvvisa e dolorosa rivelazione. Era lì, a portata della sua mano e della sua bocca, in certo modo inerme, ma quanto lontana e inaccessibile! Intuiva che grandi abissi li separavano (non solo l’abisso del sonno) … Non ce la farò mai, pensò, mai. Però ha bisogno di me, mi ha scelto, pensò anche. In qualche modo l’aveva cercato e scelto, per motivi a lui ignoti”.

 

Di Maria Teresa Rovitto

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