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Illusioni ritrovate: “L’abisso personale di Abn Al–Farabi e altri racconti dell’orrore astratto”, l’esordio di Claudio Kulesko (una rubrica a cura di O. Suboh)

In un panorama editoriale saturo di pubblicazioni, che per eccesso di titoli in uscita rischiano di soffocare la qualità a discapito della quantità, esistono ancora isole felici. 
Scritture radicali, che non hanno paura di guardare in faccia l’abisso, e che si consegnano volentieri agli artigli dei propri demoni: perché la scrittura non è mai terapeutica, come scrive Michele Mari: alcuni scrittori «hanno nell’ossessione non solo il tema principale ma l’ispirazione stessa» e scrivendo «finiscono di consegnarsi inermi agli artigli dei demoni che li signoreggiano».
Questo è lo spirito che anima la nascita di questa rubrica, dal titolo che rimanda al celebre romanzo di Balzac Illusioni perdute: le vicende di Lucien, aspirante scrittore nella Parigi della prima metà dell’Ottocento, sono lo specchio di una società in cui le aspirazioni di ognuno fanno a pugni con i giochi di potere, gli inganni e le sopraffazioni per svettare sopra gli altri.
La ricerca di nuove voci capaci di sorprendere, di raccontare le metamorfosi del tempo in cui viviamo abbagliati da uno schermo luminoso qualunque, perennemente acceso come un faro sulla notte del mondo: gli esordienti e la scrittura, questo è l’ordine del discorso.
– Omar Suboh

 

La classe, Amirah Suboh

Conoscete voi stessi. Siate infecondi
e che la Terra resti silenziosa dopo di voi.

Peter  Wessel Zapffe, L’ultimo messia

 

Se tutto quello che ci circonda, la realtà delle cose, immerse nel manto che riveste la loro superficie per celare una supposta essenza, fosse soltanto la proiezione di un inganno ordito da un’entità imperscrutabile? Non è possibile ricondurre ogni evento alla logica analitica, al pensiero positivo, per ordinare l’informe e stringere il caos nella morsa del concetto: esiste una dimensione indecifrabile per la mente umana, ed è su questo presupposto che si apre il libro di Claudio Kulesko: «Non vi è modo di collocare certi avvenimenti in un sistema ordinato e razionale. Men che meno i loro nebulosi precursori: scariche di intuizione bruciante o, all’inverso, algide stalattiti, che si conficcano come pugnali nelle nostre menti […]. Forse vestigia di una mente primitiva, risalenti a uno stadio embrionale della coscienza umana o, addirittura, a oscure fasi precoscienti».

 


L’abisso personale di Abn Al–Farabi e altri racconti dell’orrore astratto
(NERO, 2022), è un libro che si colloca sul bivio di una tradizione che risale da Edgar Allan Poe, passa per H.P. Lovecraft – come paradigma della letteratura weird
, la stessa che prova a dare forma all’unheimlich, inteso come il perturbante, lo stranamente familiare – ed espande il proprio campo di ricerca andando oltre la speculative fiction, accogliendo in sé le lezioni della cultural theory, in un mix palingenetico tra Thomas Ligotti e Mark Fisher.
Un esordio squisitamente narrativo per un autore che si è già fatto notare per i suoi lavori saggistici, improntati sui temi della metafisica e del pessimismo filosofico, e che ritorna sulla scena con un testo brulicante, denso e inquietante: scritto con una prosa di una delicatezza unica e di luminosa profondità, sempre sull’orlo del baratro. Come se l’autore partisse dalla consapevolezza messa in luce anche da Michel Houellebecq nel suo saggio su Lovecraft, dall’evocativo sottotitolo Contro il mondo, contro la vita, quando scrive che «Se si ama la vita, non si legge. Né, d’altronde, si va al cinema. Checché se ne dica, l’accesso all’universo artistico è riservato quasi esclusivamente a chi ne abbia un po’ le palle piene».
Se il progresso della conoscenza non rappresenta più un orizzonte di sicurezza, e il futuro appare come una nebbia che oscura ogni proposito sul tempo in divenire, il terreno in cui ci muoviamo sembra Scivolare – come il titolo con cui si apre il primo dei sei racconti che compongono il libro, tutti uniti dal filo conduttore della presenza del soprannaturale nel quotidiano – da sotto i nostri piedi, inghiottendoci in una spirale di tenebre di cui non si vede il fondale. E partendo proprio da questo primo racconto, l’autore, sembra fornirci un appiglio su cui fare riferimento se volessimo risalire alle fonti che lo hanno alimentato: il filosofo e letterato norvegese Peter W. Zapffe, autore di un testo pubblicato nel 1933 dal titolo L’ultimo messia – in cui sostanzialmente, come ci ricorda Ligotti nel suo testo compendio della filosofia pessimista occidentale (e del pensiero di Zapffe) La cospirazione contro la razza umana, si ribadisce l’idea dell’esistenza come di una infinita tragedia –, citato dal protagonista, mentre rievoca il suicidio di un suo amico dei tempi dell’università, studioso, appunto, di Zapffe; mentre vaga come in uno stato di trance indotta da un incubo incommensurabile, e tra i boschi fa la sua comparsa un cervo ferito («Un grosso lembo di pelle e carne strappate, così profondo da lasciar intravedere le ossa e grondante di sangue»), proiettandolo verso un collasso totale: della sua mente e del corpo, come se precipitasse in un «vuoto mistico».
Il viaggio nell’assurdo prosegue con il racconto che dà anche il titolo alla raccolta e, come se fossimo a bordo di una DeLorean, ci ritroviamo catapultati ai tempi del Sultanato, seguendo  le gesta di un sapiente dal nome di Abn Al–Farabi mentre, risvegliatosi, assiste alla presenza di un vortice oscuro ai piedi del suo letto. La sua prima reazione, come uomo di pensiero, è quello di chiedersi quale possa essere la spiegazione: «Nella sua testa già si affollavano le ipotesi e i teoremi:“Il nulla non è che una mancanza, un buco nell’infinita grazia dell’Essere”; “Ciò che non è, è”; “La natura aborre il non essere e il vuoto, e persino il vuoto, essendo presente ai sensi e alla ragione, non è che la presenza di un assenza”». Da quel momento, il protagonista sembra vivere in perenne sospensione, come tra due mondi inconciliabili, in una sorta di «baratro scavato da un genio maligno», assistendo alla messa in atto di una cospirazione ordita dal potere che decreta la morte di tutti gli uomini sapienti, e ogni elemento della realtà – la lunga catena di eventi che lega guerre, epidemie e sofferenza – si rivela illuminato retrospettivamente di una luce nuova, il dispiegamento della trama nascosta, condensata nel vortice che fa la sua apparizione sopra la piuma d’uccello del Sultano.
Il dramma della Seconda guerra mondiale è rievocato nel terzo racconto, La persistenza delle ombre, in particolare quello di Hiroshima: il corpo carbonizzato all’istante di una donna che, al momento del decesso, sedeva sui gradini di una banca in attesa che aprisse, e che venne raggiunta dalla detonazione senza nemmeno avere il tempo di accorgersene. La sua traccia rimane attraverso la foto della sagome impressa sul muro della Sumitomo Bank di Hiroshima, come un monito per la memoria delle generazioni successive. E proprio un’ombra è la vera protagonista di questo racconto che, come in un cambio di scena il cui montaggio serrato segue il capovolgersi della vicenda, ci troviamo proiettati nella camera di un ragazzino dove – anche in questo caso –, ai piedi del letto, vede materializzarsi un’ombra, una sagoma indistinta. È la stessa ombra ritrovata  tra le pagine del libro di storia?, quelle che raccontano del dramma giapponese?  Da quel momento nulla sarà più come prima: è l’innesco di una serie di tragedie, tra cui la morte per essere stata investita da un’auto della povera madre, e la progressiva caduta nell’alcolismo cronico del padre, rinchiuso nel proprio isolamento. Racconto di apparizioni, di figure dai «vaghi contorni antropomorfi, e ombre», è la visione che investe la voce narrante, e il lettore, dell’onnipresenza di «miasmi di irrealtà, come se la sostanza futile e insensata dell’irrealtà stessa fosse custodita all’interno della stanza».
Nella scoperta dell’orrore ovunque, Kulesko, sembra essere mosso dalla meraviglia e dallo spavento al contempo: come se partisse dall’idea che il caos può essere rappresentato soltanto come «un ammasso di semplici punti disposti a spirale e privi di direzione precisa», come scrisse Lovecraft. I personaggi descritti, come nel quarto racconto Noi, si fondono in una molteplicità di voci che, in una apparente piattezza, in realtà, divengono carichi di una energia misteriosa – portatori di un qualche segreto indicibile –, e il potere di persuasione ricreato dal suo autore, in virtù dell’universo descritto, fosse il messaggero di una tridimensionalità metafisica accessibile soltanto ai pochi iniziati del culto. Ogni percezione ordinaria si trasforma in una fonte illimitata di incubi, e la vera scommessa di Kulesko è quella di registrare i fotogrammi di un terrore obiettivo, privato di qualsiasi connotato psicologico e umano: una sorta di mitologia nuova, capace di trascendere l’umanità stessa.
I personaggi si muovono in ambiti non delineati, dai contorni non definiti, ma ambigui e terrificanti – penso all’albergo vicino alla stazione del quinto racconto, L’ascensione, mentre seguiamo le tracce di un pericoloso rappresentante responsabile di una catena di omicidi, tra i corpi ritrovati nei cespugli, torrenti e declivi, e ogni cosa rimanda al peccato, al dolore, alla gratuità dell’esistenza: «La senti l’oscurità? L’odio, la rabbia, il disprezzo, la disperazione, la futilità, l’insensatezza? Li senti?» –. Sagome vacillanti sempre sull’orlo del baratro, astrazioni della mente, raccontate attraverso espedienti narrativi dall’effetto vertiginoso: procedimento in grado di alimentare una suspence continua come il cliffhanger delle migliori opere seriali. E l’universo, o la Natura, non appare più come indifferente alla condizione umana, ma apertamente ostile a essa. Come scrive Ligotti a proposito di Lovecraft, anche per Kulesko il risultato sembra tendere alle stesse conclusioni: «Oltre a sfruttare l’atmosfera per meglio suggerire, nei suoi racconti, il rovesciamento delle leggi cosmiche e il superamento dell’esperienza umana […] dare coerenza (umore) a un mondo immaginario nel quale possiamo perlomeno fingere di scappare dalla nostra mera umanità ed entrare in spazi dove l’umano non ha un posto e muore da solo, piangendo, strillando o intimorito dall’orrore dell’esistenza».
In L’ascensione, a un certo momento, la protagonista riconosce dalla reception al piano inferiore risalire una musica inconfondibile: è Disorder dei Joy Division. I versi di Ian Curtis ci rimandano a una lettura approfondita del nostro tempo, come nel libro di Fisher Spettri della mia vita, quando l’autore riflette sullo spirito che anima la loro opera, dominata da sinistri presentimenti, di assenza di futuro, di dissoluzioni di ogni certezza acquisita. Gli anni sono quelli del biennio 1979–80, alle soglie di quel mondo che Deleuze ribattezzò con l’espressione «Società del controllo». Kulesko sembra far suo il verso di Ian Curtis in WildernessI travelled far and wide through many different times, contemplando le rovine del mondo, e il male che lo attraversa, con «il distacco soprannaturale del nevrastenico». Preso atto che la vita è soltanto un «ballo di marionette meccaniche», la depressione, come in Fisher, può trasformarsi in teoria sul mondo e sulla vita, e come i Joy Division rappresentavano per la musica l’antirock, avendo eliminato «il propulsore libidinale del genere», Claudio Kulesko rappresenta per la letteratura italiana contemporanea una sorta di antihorror – avendo accolto la lezione degli antichi maestri ma, come ogni buon allievo che si rispetti, avendoli cannibalizzati e trascesi –.
Il titolo che chiude il libro, Dell’origine e destinazione del nulla di questo mondo, può anche essere considerato come una sorta di manifesto, per quel che concerne la poetica dell’autore, dispiegato attraverso l’espediente narrativo di un seminario tenuto da un misterioso e anziano professore di filosofia, che fa la sua apparizione per portare al mondo la novella non più lieta dei tempi che ci attendono, davanti a una platea di studenti attoniti e incapaci di credere che questa sia la verità: «Quel che accadrà, invece, sarà che tra dieci, cento o persino mille anni, il Senza Fondo si ripresenterà a noi, indossando nuovi travestimenti. Nuove configurazioni, nuove forme di vita, nuovi modi di pensare. Creature al di là di ogni comprensione: cadaveri tenuti assieme da onde elettromagnetiche, macchine intelligenti, prodigi della tecnica. Miracoli, elargiti da un Dio cieco e idiota».   

A cura di Omar Suboh

2 risposte a “Illusioni ritrovate: “L’abisso personale di Abn Al–Farabi e altri racconti dell’orrore astratto”, l’esordio di Claudio Kulesko (una rubrica a cura di O. Suboh)”

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