La cura è una forma di dolore: ‘La mischia’, di Valentina Maini (a cura di Omar Suboh)

Zdzisław Beksiński, AA78

Credo che il mio romanzo possegga tante letture quante sono le voci che contiene.
Lo si può leggere come un’agonia. Lo si può leggere anche come un gioco.
Roberto Bolaño, Tra parentesi.

 

«Gorane un giorno ci ha detto la libertà è una gabbia sappiate».
Ci sono libri che si muovono taciturni, partoriti nelle segrete di qualche stanza imperscrutabile e che, come una mina deflagrante, esplodono nella quiete più assoluta tra le oasi di orrore e i deserti di noia: quelli della letteratura. La mischia di Valentina Maini (Bollati Boringhieri, 2020) è uno di questi libri. Pubblicato in un silenzio assordante, complice il tempismo (non) perfetto all’indomani dello scoppio della pandemia globale – il libro è uscito a febbraio duemilaeventi, i giorni in cui venne scoperto il ‘paziente 1’ a Codogno –, e vittima di un sistema editoriale in sovrapproduzione, con il rischio di soffocare la qualità a discapito delle opere più spendibili nel mercato, è riuscito comunque a farsi strada e farsi notare nella selva di novità non sempre imprescindibili.
Opera prima per la scrittrice – e traduttrice –, che riesce a irrompere sulla scena scombinando le regole del gioco, ribaltando il tavolo delle letture consolatorie, appaganti, da pagine pulite e impeccabili per forma e (assenza) di contenuti. Se, come scrive Giorgio Vasta in una recente intervista/inchiesta sulle scuole di scrittura in Italia, si andasse a imporre – come si riscontra in modo sempre più maggioritario – uno stile connotato da «trasparenza, intelligibilità immediata, assenza di nodi, di movimento spericolato, di crisi: se la scrittura venisse intesa come una questione di veglia, addirittura di lucidità, e non anche, tanto, di sonnambulismo –, allora questo per me corrisponderebbe a uno scadimento della didattica medesima». Chi pensa che la lucidità sia un valore assoluto nella scrittura allora dovrebbe fermarsi prima di varcare questa soglia: La mischia è la prova, come scrive Vasta, che scrivere è affacciarsi sul vuoto; abitare il linguaggio quando raggiunge il suo picco brancolando nel buio; è il caos delle traiettorie non prevedibili, che alterano ogni dettaglio compresso nella realtà in cui siamo immersi tutti i giorni trasformandolo in visione, aprendo spazi inattesi sia per chi legge che per chi scrive.
Gorane e Jokin sono due fratelli sonnambuli che si muovono in una Bilbao psichedelica e fosforescente, così come fantasmagorici sembrano tutti i personaggi che appaiono e scompaiono nello spartito polifonico di questo romanzo inedito e sorprendente per una scena italiana che sembra così avvitata su sé stessa, quasi incapace di immaginare scenari alternativi, registri innovativi e sperimentali, per raccontare il nostro tempo. Figli di una coppia di terroristi dell’ETA, la loro storia si intreccia con le vicende personali a cui vanno incontro perdendosi all’interno di un labirinto inestricabile, così come tutta la parabola della loro rincorsa verso una meta irraggiungibile, può essere letta come un tentativo di rispondere alla domanda: che cosa sia la libertà.

Il libro è diviso in tre parti. Nei primi tre capitoli della prima, assistiamo all’alternarsi dei punti di vista rispettivamente prima di Gorane, poi di Jokin e infine dei genitori di entrambi ad Arrautza. La seconda si compone di due movimenti che accelerano vertiginosamente l’andamento della storia innescando una serie di ipertesti e metanarrazioni spettacolari, dove il racconto del fratello scomparso Jokin, e la sua affannosa ricerca da parte della sorella Gorane, si moltiplica in un coro di voci – rese attraverso l’espediente dei verbali della polizia che hanno arrestato Jokin perché accusato di aver compiuto una serie di attentati –, ognuna con una sua particolare prospettiva in grado di trasmettere al lettore, oltre a una serie di innumerevoli indizi per ricostruire il profilo di Jokin, il carattere dei personaggi che compaiono e scompaiono come comparse nel palcoscenico della vita dei due fratelli.
Per tutto il libro – fatta eccezione per il secondo capitolo della prima parte – Jokin non parla mai, un po’ come avviene ne I detective selvaggi di Roberto Bolaño per Ulises Lima e Arturo Belano (i due poeti realvisceralisti, che partono alla ricerca di Cesarea Tinajero: poetessa autrice di una sola poesia, letta da nessuno, ma che segna profondamente l’anima dei due autori), ma è sempre raccontato dagli altri, da amanti, fidanzate, amici, lo psichiatra Jespersen (lo stesso che aveva in cura Gorane), e lo scrittore Dominique Laque: autore di un libro dal titolo Entangled, scritto nel tentativo fallimentare di venire a patti con i propri demoni interiori e provare a chiudere la ferita, che ancora sanguina, per un amore impossibile per la figlia Germana (amante di Jokin…). Gorane, venuta a conoscenza del manoscritto, segue le tracce come una poetessa selvaggia dei luoghi e dei personaggi citati, ma come in un labirinto senza fine, sembra non trovare mai l’uscita. Così, approdata a Parigi – una volta scoperto che il fratello tossicodipendente e batterista in un gruppo di drum ‘n’ bass ha lavorato in un museo locale –, si ricicla in svariati lavori: da donna delle pulizie, a spacciatrice (precisamente come tagliatrice di valigie, per nascondere nel fondo i mattoni di eroina da importare) nel tentativo disperato di ritrovarlo, un po’ come il tempo nel capolavoro proustiano.

 «È così difficile permettere a chi ami di farsi male concedergli l’opportunità di distruggersi odiarti morire». Se cresciuti ed educati in un contesto dove la famiglia non è più espressione dell’oppressione contro cui si battevano i critici della società del sessantotto, ma è libertà estrema, possibilità di fare quello che si vuole (senza orari, regole e senza autorità alcuna), allora la ribellione che si manifesta non è più emancipazione, ma sterile antagonismo contro il nulla. Ribellarsi significa qualcosa di molto più ampio, è la storia di un affrancamento da un sistema che deve essere compreso, in prima istanza, per essere combattuto, e questo fa della libertà come concetto la paradossale ricerca di un autodisciplinamento: lo stesso a cui va incontro Gorane che, come l’acqua prima e il fuoco poi, fluisce lungo il fiume metafisico della esistenza, sperimentando, sporcandosi le mani, e poi appiccando il fuoco alla casa: la sua può essere letta come una autentica ribellione. Ma ciò non significa abdicare all’imprevedibile, alle deviazioni dai percorsi prestabiliti. In una panoramica più ampia significa conferire ancora più valore alle deviazioni: «La vita, nelle sue storture porta con sé doni meravigliosi, anche quando sembra che ti stia punendo, e ti si para davanti con sentieri ripidi che avevi spacciato per discese, proprio mentre stai per stramazzare ti ricorda in qualche modo che nella strada sbagliata che hai intrapreso c’è un regalo, un regalo che potevi trovare solo lì e che nessuna buona strada avrebbe mai potuto offrirti».
La mischia è mescolanza di ricordi e fantasie rievocate nella corrente di avvenimenti che, impetuosamente, si rovesciano sulla pagina proiettando il lettore in una affannosa ricerca che lascia senza fiato – come una sorta di noir metafisico, dove si aspetta di scoprire l’assassino, ma con gli occhi della mente rivolti verso mondi altri: composti da geometrie complesse e uova astratte, disegnate da Gorane nella sua attività creatrice di pittrice –.
La terza, e ultima, parte prova a tirare le fila di questa folle corsa verso la rivelazione finale: la sintesi (impossibile) di una estenuante ricerca verso il ricongiungimento con la propria metà, quella di Jokin: riflesso speculare di Gorane, così come allo stesso modo tutti i personaggi sembrano riflettersi prismaticamente l’uno sugli altri, alterando la percezione di spazio e tempo, scardinando le coordinate rassicuranti di una narrazione lineare e conclusa, così come i colori di frattali invisibili sembrano moltiplicarsi negli occhi durante un’ esperienza psichedelica, conferendo l’illusione di aver intrapreso un viaggio senza fine.
Ricordare equivale a utilizzare la forza della fantasia, e scrivere non significa esporre la propria visione del mondo, ma somiglia di più a un gettarsi nell’ignoto, ad andare incontro verso qualcosa che non si conoscere, alimentando il mistero stesso di ogni attività creativa. Scrivere è più una forma di ascolto, e di ricezione, piuttosto che di affermazione del pensiero che ci sostiene, così come nelle parole dello psichiatra Jaspersen, la cura corrisponde al prendersi carico del dolore degli altri: «Questo è forse il ruolo di chi cura: condividere una parte della pena. Assumersi il dolore altrui, diluirlo e farlo sparire da qualche parte nell’universo. Essere parte dell’universo che sparisce».   

A cura di Omar Suboh

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