“Mi annoio come ci si può annoiare solo in presenza di altre persone,
di quella noia insofferente che forse è tristezza
o forse rabbia o forse rassegnazione”
Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa è l’esordio di Francesca Mattei, il libro è una raccolta di racconti editi da Pidgin edizioni. Proprio la Mattei è stata la prima autrice italiana ad essere pubblicata dalla casa editrice napoletana. E, non è un caso, che questa raccolta abbia visto la luce tramite proprio Pidgin, una delle realtà editoriali italiane capaci di creare una sua voce riconoscibile in mezzo al marasma editoriale.
I racconti di Francesca Mattei ricordano a tratti quelli di un altro titolo pubblicato da Pidgin, Viscere, di Amelia Gray. Le storie sono sottratte al tempo e allo spazio e i personaggi che le abitano vivono ai margini della società che noi reputiamo tale. Le tracce della scrittura di Francesca Mattei si potevano intravedere con estrema chiarezza già nelle sue precedenti pubblicazioni su riviste come Verde Rivista, l’Elzeviro, Clean, Split della stessa Pidgin, e Malgrado le Mosche. Su questi spazi della narrativa online si rintracciano spesso le nuove voci più interessanti del panorama italiano e la Mattei è una di queste.
Bastano poche righe del primo racconto, Muta, per entrare nel mood che l’autrice sa riversare in ogni sua storia. I racconti sono brevi e taglienti, le storie puntano il dito verso gli angoli delle strade che spesso noi evitiamo di guardare, ci portano nelle case che non vorremmo mai abitare, ci fanno vivere le giornate tipo di persone che forse avremmo paura a frequentare. I racconti de Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa abitano la malattia, le zone umide, il degrado non solo fisico ma dell’animo. Le storie si muovono spesso al buio o in posti scarsamente illuminati. C’è un dolore reale ed un dolore fantastico, la vita quotidiana e il surreale si mescolano col fango e il vomito, col sudore e con il sangue. Sono storie che scorticano la pelle del lettore e attingono ad increspature presenti prima sulla pelle di chi le scrive.
Il titolo mi ha riportato alla mente una canzone degli Amor Fou, Se un ragazzino appicca il fuoco, una colonna sonora che mi è girata in testa durante la lettura di questo libro. Pagine che non mettono nessuna coperta rassicurante. Invece i racconti ci inducono ad uscire di casa quando piove, quando fuori è brutto e c’è un vento che ti scompiglia i capelli e i pensieri. Proprio il fuoco, però, durante tutto l’arco narrativo di questa raccolta, può essere una soluzione, un modo di distruggere ma anche di sanare, come se le fiamme potessero cicatrizzare le ferite aperte dal racconto. Ognuno affronta le proprie angosce come può e come vuole, i personaggi sembrano correre decisi verso i precipizi, pronti a saltare, consapevoli che questo salto potrebbe farli sprofondare definitivamente, ma anche rivelargli la capacità di volare.
“sbircio mamma che guarda la TV mentre sbuccia le patate. Ha la faccia grigia e i capelli dello stesso colore e io la saluto e la lascio sola in una casa vuota e umida che è come una foresta pluviale o come una pozza di sabbie mobili.”
Le pagine dell’autrice proliferano nei pantani della mente e dell’anima. Le parole sono la goccia che scava la roccia della routine, si disperdono poi in mille rivoli, in giornate passate a calarsi o a strapparsi la pelle da dosso fino a rinascere in forma luminescente. Queste storie sono incidenti stradali, sono graffi, hangover prolungati e capogiri. Nel racconto Salvo, sembra di tornare al Posto Ristoro raccontato da Tondelli ma ora abitato dai nipoti di quei personaggi. Ordinarie storie di periferia che non fa sconti e che ti propone la sottomarca di un’esistenza degna di questo nome. Ma è in quella zona grigia che la letteratura vive davvero, che arde, per tornare al titolo della raccolta. Alla fine della lettura ci sentiamo come la protagonista dell’ultimo racconto, che dice del suo gatto mi rovina tutti i vestiti, ma io lo lascio fare. Non riesco a dirgli di no.
Così continuiamo a leggere e a farci attrarre dai cambi di scena, dai dialoghi veloci e decadenti e a prenderci i colpi ben assestati dai cambi di direzione repentini tra le pagine.
Una visione a tratti nichilista della vita da portare sulla pagina, ma questo percorso è l’unica via percorribile per uscire dal pantano in cui molti di noi sentono di essere.
A cura di Raffaele Calvanese
Ma tu non la senti
Francesca Mattei
(racconto tratto da Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa)
La scorsa notte la voce nel condotto dell’aria mi ha detto Corri e io ho corso. Ho spalancato gli occhi e mi sono sollevata dal letto con la schiena rigida. Sono uscita senza mettermi le scarpe. Il terriccio all’esterno era freddo, freddo il marciapiede, freddo l’asfalto, fredda l’erba umida del parco. Non mi sono fermata neanche quando una scheggia di vetro si è infilata nella pianta del piede. Ho calpestato alcuni lombrichi e diversi mozziconi di sigaretta. In riva al laghetto artificiale mi sono arrestata di colpo perché il ronzio di un lampione mi stava parlando. Brava ragazza, diceva, Brava: adesso torna a casa. Ansimando ho guardato la notte che ingoiava ogni
cosa, lo specchio d’acqua scuro e piattissimo. Ho visto tutto con una lucidità nuova, improvvisa.
Poi mi sono voltata e sono tornata indietro. Il cielo ha cominciato a schiarirsi gradualmente, variando dal nero al blu e dal blu al rosa. La luce era ancora sopportabile. Sui viali, stormi di uccelli cinguettavano tra le fronde, un suono acuto e penetrante. Ho scavalcato qualche staccionata per seguire un gatto maculato, poi lui è scappato via e io ho preso la direzione di casa. Ho varcato la soglia mentre il Sole faceva capolino dal monte. Sono andata in camera senza guardarmi attorno, gli occhi fissi sui miei piedi polverosi e insanguinati che salivano un gradino dopo l’altro. La voce nel condotto dell’aria mi ha detto Dormi e io mi sono addormentata.
Mi risveglio sul pavimento, senza che nessuno me lo abbia ordinato. Mi accorgo che è pomeriggio inoltrato dal fatto che la stanza è immersa in un calore asfissiante. In bagno svuoto la vescica e mi lavo i denti. Dalla bocca esce una bolla minuscola e trasparente che va a schiantarsi contro lo specchio. Mi siedo sul bordo della vasca e resto a fissare i miei alluci malconci, che si muovono come vermi senza che sia io a controllarli. La voce risale le tubature del lavandino come un fiume in piena. Quando arriva in superficie mi dice che non ho più le ossa. Mi accascio sul pavimento del bagno, dove resto immobilizzata. Sento i capelli crescere, gli occhi roteare nelle orbite. La carne molle preme contro le mattonelle fresche, che si scaldano piano piano a contatto con il mio corpo inutile. La stanza intorno si muove come se respirasse. Verso l’ora del tramonto la voce arriva dalla plafoniera e mi dice Brava ragazza, bravissima: adesso alzati. Mi sollevo come un serpente ammaestrato. In cucina preparo il caffè. La moka borbotta, mi avvicino con un orecchio per capire se sta cercando di dirmi qualcosa e mi ustiono il lobo. Bevo una tazza di caffè amaro e acquoso, mi vesto, infilo gli occhiali scuri ed esco.
Non esco mai prima delle sette di sera, perché la voce mi ha detto che la luce mi fa male. In casa tengo sempre le tende tirate per restare in penombra. La luce elettrica non è un problema perché mi hanno staccato la corrente settimane fa.
In strada cammino svelta. Il modo in cui mi guarda una ragazza mi fa pensare di avere le labbra sporche di dentifricio rappreso. Apro la fotocamera interna del cellulare per controllarmi la faccia. È pulita. Al tabacchino compro due pacchetti di sigarette e un gratta e vinci. Gratto ma non vinco. Gioco alle slot machine seduta su uno scomodo sgabello in metallo. Infilo una moneta dopo l’altra per ore, finché non è notte. Allora il tabaccaio chiude e io esco senza togliermi gli occhiali da sole. In piazza c’è una folla folta, organizzata a gruppetti. La voce fischia per farmi andare in una direzione o in un’altra, il lobo mi fa male e sento che si sta formando una vescica.
Quando mi avvicino a tre ragazzi seduti su una panchina, la voce mi dice Sei arrivata. Li saluto e bevo con loro, offro delle sigarette e loro mi lasciano fumare la loro erba. Sono tutti magrissimi e alti, sembrano fratelli.
Beviamo e fumiamo per ore; arrivano delle ragazze e poi se ne vanno. La gente mi parla, ma non riesco a sentire niente perché il lobo mi brucia e la voce mi dice continuamente AttentaallaluceAttentaallaluce, sempre più forte.
A un tratto mi ritrovo in un bar, stiamo cantando una canzone al karaoke e io cingo la vita di una donna. La voce mi dice Baciala e io obbedisco. La donna mi porta in bagno e mi offre un tiro di coca. La sniffo sulla superficie del lavandino e la donna sta a guardarmi. Ha i denti brutti e il mascara colato. Fisso lo specchio, che riflette la luce fredda della plafoniera. La voce mi dice Ora e io spacco lo specchio a pugni, urlando. La donna indietreggia spaventata. Io sbavo e scappo con ancora addosso gli occhiali da sole.
In strada l’aria è fresca e tutto è completamente oscurato dalla notte senza Luna. Cammino lungo il marciapiede, sento le nocche bagnate di sangue, la scheggia nel piede e il lobo pulsare, ma la voce mi dice Brava ragazza. Allora salgo in macchina con un tipo biondo dal viso ovale. Durante il tragitto mi parla incessantemente di quello che ha bevuto e sniffato e io gli chiedo di offrirmene un po’. Tiriamo un altro po’ di coca e quando entriamo nel locale la musica fortissima mi rimbomba nell’orecchio marcio. Bevo un cocktail allo zenzero e fumo una sigaretta. Prima di spegnerla, ne accendo un’altra con la punta di quella che ho appena finito e vado avanti così per ore o giorni o minuti o chissà. La voce non mi parla più e non so cosa devo fare. Ho perso il ragazzo biondo, ma ne ho trovato uno che mi offre continuamente della speed e io accetto.
D’improvviso la stanza intorno a me sparisce, sento i rumori ovattati, come sott’acqua.
Mi riscuoto e sono nel bagno, il ragazzo della speed mi sta spogliando e io lo lascio fare, ma quando arriva agli occhiali la voce urla NOOO e non smette fino a quando non finisce anche lui, che si riveste in fretta e mi lascia lì, seduta sulla tavoletta del water, con le mutande alle caviglie.
Per un attimo il tempo rallenta, la voce tace e sento il mio corpo abbandonarsi, allontanarsi dalla notte, dalla voce, dalla coca e dai cocktail.
Esco solo quando la discoteca è semivuota. In strada la voce sibila ma non dice niente. Il sangue si è rappreso lungo le dita, le mie dita bianche, ossute e corte. Cammino senza una meta, una direzione vale l’altra. Perdo la nozione del tempo e mi accorgo d’un tratto che il Sole sta per spuntare. Il cielo a est è di un rosso intenso, spaventoso. L’azzurro si espande inesorabile.
La voce esce dalle crepe dei muri e mi dice Corri, l’unica salvezza è nel buio, la luce è vicina, non farti prendere.
Ma è troppo tardi. Il mio corpo, succube, pallido, indifeso, è già colpito dal sole. Mi lascio cadere senza far rumore. L’asfalto è butterato e grigio, immobile. Mi rannicchio come un animale nella sua tana. Chiudo gli occhi e la luce scompare.