Un precario equilibrio tra il sì e il no, tra il passo e la caduta, tra l’essere qui o altrove: questa è la prima impressione che si ha nel leggere Dire tutto alle case (Interno Poesia, 2021), che raccoglie le poesie del francese Thierry Metz.
Campione di sollevamento pesi prima, manovale e operaio poi, l’autore si sposa a ventun anni e comincia a scrivere incoraggiato dalla famiglia. Nel 1988, con l’uscita della sua prima raccolta poetica, mostra al pubblico la sua non comune sensibilità. In quello stesso anno, la morte improvvisa del figlio di otto anni lo fa crollare: da quel momento inizieranno depressione, alcolismo e ricoveri ospedalieri, fino al suicidio, solo quarantunenne, nel 1997.
Metz scrive come costruisce. Il suo vissuto si condensa in un tempo interiore che lo fa parlare – come scrive Celan – “sotto l’angolo di incidenza” della sua esperienza personale. Fare poesia, per lui, è come cavare un manufatto dalla pietra: scava in fondo al proprio io alla ricerca delle ragioni che muovono l’agire umano e fissa sul foglio la sua visione della realtà: “Io estraggo dal giorno/ parola per parola/ con la forcella e la carriola/ ma senza chiedere/ come se/ un giorno/ avessi dovuto parlare”. Nei suoi testi si legge il continuo tentativo di dare una spiegazione ai fatti della vita e di starle, pur con difficoltà, attaccato: “C’è forse un centro/ che ogni parola prova a dire/ cancella il perché/ ma ne lascia intatti i dintorni”.
Nel far ciò, il poeta incide le parole nel silenzio, le giustappone ad esso in un dialogo che man mano li unisce intimamente.
Se costruire è l’arte di togliere, scrivere è per Metz la capacità di sottrarre e di usare la parola esatta che combaci col sentire, in quella tensione alla precisione che tiene in piedi qualsiasi opera umana. Per questo, nella raccolta si percepisce ad ogni pagina l’intento di far convivere vita e morte: “L’immane fatica di dire tutto alle case/ Lo sforzo di estrarle dall’argilla”.
L’immaginario di Metz è tangibile, fatto di muri e portoni, legna e fogliame. Persino il piccone racconta.
L’argilla e la cazzuola sono strumenti indispensabili come la parola e il libro: con i primi, il manovale edifica la casa, con gli altri, il poeta dà voce alle proprie emozioni attraverso i suoi componimenti. Le due operazioni sono entrambe faticose: “Una crepa/ nell’inverno/ che scrivere e vivere/ sono solo un viso/ contro una porta”.

Talvolta, il verso è composto da una sola parola oppure lo spazio tra i termini si allarga in modo tale da farli sembrare sospesi, isolandoli. Questa sequenza di pieni e di vuoti conferisce al testo una geometria ricercata e personalissima e conduce il lettore a soffermarsi su ciascuna parola come sul bianco della pagina. L’esito è quello di un testo policromo che, pur nell’essenzialità della lingua, genera continue domande e rimandi a infiniti significati.
Numerosi sono i versi che rivelano il tormento del poeta causato dal peso di un’esistenza spezzata e da un permanente senso di solitudine: “Scrivere una poesia/ è come essere solo/ in una via tanto stretta/ da non poter incrociare/ che la propria ombra”. Così come nel non-finito michelangiolesco vi è la liberazione dell’anima dalla materia, anche in questi testi la parola è lo strumento per liberarsi da una realtà che opprime, e tutto ciò che la intrappola – il passato e la quotidianità, la pietra grezza – conferisce ancor più drammaticità a una scrittura fatta di luci e ombre, di paure e prese d’atto, che testimonia lo sfinimento dell’autore nel cercare di riconoscersi dentro la vita: “bisogna morire già morti”, ammette consapevolmente Metz.
La sua poetica fa ripensare a quanto scrive René Char in Fogli d’Ipnos: “Questo tempo mai raggiunto è un baratro estraneo agli atti del mondo”: anche Metz focalizza il proprio sguardo verso il sé, scava al centro per recuperare la propria voce, flebile e potentissima: “Qualcosa è stato raggiunto/ non per superarlo/ ma per raggiungerlo ancora”. Se davvero il reale non esiste e se non può esserci un unico sguardo sulle cose, attraverso la sua poesia Metz trova il punto di rottura dell’ordinario in quel vivere che è continua ricerca di qualcosa che si allontana per inseguirlo ancora e che, in fondo, non è altro che ritirarsi da sé.
A cura di Annachiara Atzei
Cinque poesie da Dire tutto alle case (Interno Poesia, 2021)
Vagavo tra losanghe
Con tutti gli alfabeti della terra
Nelle tasche
E scrivevo sui muri
Sui portoni
Incollavo grandi lettere alitanti
Come rospi
Cifre color spiga
Che suonavano la pietra con i tacchi
Immane la fatica di dire tutto alle case
Lo sforzo di estrarle dall’argilla.
(1984)
*
Amo questo ramoscello
dall’albero al rovo
scoperto dai nostri passi
in cammino
tormentato da uccelli
poi gettato nel fuoco.
(1995)
*
La poesia cerca ogni volta la poesia
ogni tentativo la riporta alla poesia
a quello che di vicino si può dire
che esige lo sguardo
il silenzio.
(1995)
*
C’è forse un centro
che ogni parola prova a dire
cancella il perché
ma ne lascia intatti i dintorni.
Questa casa è abitata solo un istante
da chi non è entrato
non è uscito.
*
La cosa più semplice qui
l’erba la lega
la avvolge l’ortica
è bruciare
rendere alla voce
acque proprie
il proprio letto.
Una replica a “Costruire la casa come metafora del fare poesia: Thierry Metz, ‘Dire tutto alle case’ (A cura di Annachiara Atzei)”
Metz è stato un essere umano in “costruzione” (direi, riprendendo lo spunto dell’articolista) cui improvvisamente hanno sottratto il cemento per terminare le fondamenta. E questa sua vicenda di vissuto si affaccia (e come urla) nella sua poesia. Una bellissima poesia, purtroppo ancora pochissimo conosciuta, anche in Francia, da quello che so. Sia dunque assolutamente benvenuto questo articolo e la lettura, partecipata, di Annachiara. Ci sarebbe da aggiungere che le traduzioni, accurate, precise, pulitissime sono opera di Mia Lecomte. Traduzioni di altissima qualità che solo una poeta poteva fare e che accompagnano Metz in questo suo “petit tour” italiano. Grazie. Massimiliano Damaggio.
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