
La proliferazione dei fenomeni, conseguenza della complessità del mondo contemporaneo, ha alimentato l’idea di poter ricondurre ogni cosa alla sua spiegazione logica e razionale.
Mai più lontani dalla verità, almeno per il piccolo Teddy, protagonista dell’ultimo dei Nove racconti di J. D. Salinger: «Lo sa cosa c’era dentro quella mela? La logica. La logica e la mania intellettuale. Ecco cosa c’era. Così, è questo il mio principio, se uno vuole vedere le cose come sono veramente, deve vomitarla, liberarsene».
La mela biblica di Adamo, simbolo dell’albero della conoscenza, rappresenta il modello sul quale si è livellato il pensiero occidentale, dal principio dei tempi a oggi. Ma chi può dire, veramente, che le cose siano quelle che sembrano? Perché siamo stati abituati a dare un nome alle cose? Perché un suono prodotto dall’unione di alcuni segni codificati e trasmessi per generazioni è stato stabilito, arbitrariamente, che significa quella cosa lì? E se invece un pezzo di legno non fosse semplicemente un pezzo di legno, ma un’altra cosa? Una intuizione come questa, o illuminazione finale, non poteva che venire da un bambino: «Quello che so per certo è che non comincerei con le cose da cui di solito cominciano le scuole […]. Credo che prima di tutto radunerei tutti i bambini e gli insegnerei a meditare».
Andare oltre le convenzioni può schiudere orizzonti inesplorati, scoprire che per esempio tu non sei un nome, e la curiosità di scoprire le cose per come sono veramente potrebbe alimentarsi da sé, senza un’istituzione che mi dica cos’è A o cos’è B. La vera chiave di lettura dell’opera di Salinger – in una prosa che dire asciutta o minimale mi sembra riduttivo – è metafisica. Forse andrebbe ricercata nel buddismo Zen, più che nei libri di critica letteraria. Nel concetto di vuoto o di vacuità, lo stesso che rende l’invisibilità dell’autore mai così pertinente come in questo caso. Ritiratosi appena le luci della ribalta lo hanno consacrato come uno degli autori fondamentali della letteratura americana del Novecento, Nove racconti è un’opera che trascende se stessa, che solleva il velo di Maya della realtà fenomenica per aprirsi alla vastità dello spirito, diretto verso quell’illuminazione finale a cui, forse, arriverà Franny, in quell’altro capolavoro che è Franny e Zooey.
La storia della famiglia Glass, inaugurata con il racconto Un giorno ideale per i pescibanana, è la storia di un paese intero, gli Stati Uniti d’America, così ossessivamente attratti verso l’abisso, affetto da nevrosi, follia suicida e bramosa tensione verso l’autodistruzione di sé.
L’alternanza di punti di vista, prima Franny, convinta di poter raggiungere “una visione tutta nuova del significato delle cose”, e dopo di lei Zooey, scandisce il ritmo della narrazione in un progressivo sviluppo che sembra condurre a un fine che in realtà, come il buddismo Zen insegna, non arriverà mai. Attraverso la recitazione costante, quotidiana, di una preghiera, Franny è convinta che solo in questo modo potrà liberarsi dall’ego: perché tutto è permeato dall’ego e la cultura, o il cosiddetto mondo culturale e degli intellettuali non è esente, anzi: cosa rimane oltre le loro «affettazioni personali»?
Franny prova a spiegare al suo compagno, Lane, la storia del contadino russo dal braccio anchilosato che vaga nel mondo alla ricerca dello staretz che lo inizierà al metodo per raggiungere Dio: «Se anche ti mettessi a girare il mondo intero in cerca di un maestro, qualche guru, qualche santone, che t’insegnasse a recitare bene la preghiera a Gesù, cosa ne riceveresti? Come diavolo puoi pretendere di riconoscere un autentico santo quando lo vedi, se non sai nemmeno riconoscere una tazza di brodo consacrato quando ce l’hai proprio sotto il naso?», le obbietta il fratello attore Zooey.
Il tempo è scandito da tensioni insopportabili, il confronto nella famiglia si apre verso la totalità dei conflitti interni che, inevitabilmente, finiscono per inglobare le contese che oppongono generazioni intere nate nel segno del progresso, dell’emancipazione dalla propria condizione sociale di partenza, ma che, come una epifania, fanno dire alla madre dei due, Bessie, forse la più grande verità concepibile nell’universo monadico della famiglia Glass: «Non capisco proprio a cosa serva sapere tante cose ed essere tanto intelligenti e così via, se non riuscite a essere felici». Già, viene proprio da chiederselo.
La lettera del narratore in terza persona delle vicende qui descritte, il secondo genito Buddy Glass (scrittore e alter ego di Salinger stesso), inserita come un testo dentro al testo, apre squarci determinanti per la comprensione del libro nascosto, come uno sfondo invisibile dietro l’opera stessa: il vero percorso verso la conoscenza dovrebbe essere intrapresa come itinerario verso la non-conoscenza; gli insegnamenti di Sri Ramakrishna sono prioritari a quelli di Omero e Shakespeare; del Bhagavad Gita e, forse, proprio da quest’ultimo è possibile cogliere il nucleo essenziale della realtà.
Nell’epoca del burnout, della società della stanchezza, dell’imperativo del lavoro ad ogni costo a ogni ora, contro tutto e tutti, dell’infamia come palingenesi dell’onestà sublimata nel dissolvimento di tutte le ideologie novecentesche, lasciate alle rovine di un mondo dove la denuncia degli altri si trasforma nella rivalsa personale come reazione allo stato di cose, la frustrazione prende il posto della ribellione, le buone maniere e l’accettazione supina del presente, in tutte le sue sfaccettature più miserabili, il vero abito da indossare di giorno all’occhio indiscreto della massa compatta e priva di forma, e la notte, prima di coricarsi, lontani dallo sguardo del Grande Fratello. Lavorare per il piacere di lavorare, incredibile bestemmia! Il desiderio di perseguire qualcosa senza pensare ai suoi frutti, impossibile!
Eppure è scritto così: «Chi lavora egoisticamente per un risultato, è un infelice». E come Kafka, alla fine di tutto, ci rimarrà la fioca consapevolezza che essere felici rimane «essere in mezzo alla gente».
A cura di Omar Suboh