«Una strana amicizia, i libri hanno una strana amicizia l’uno per l’altro. Se li chiudiamo nella mente di una persona bene educata (un critico è soltanto questo), lì al chiuso, al caldo, serrati, provano un’allegria, una felicità come noi, esseri umani, non abbiamo mai conosciuto. Scoprono di assomigliarsi l’un l’altro. E ognuno di loro lancia frecce, bagliori di gioia verso gli altri libri che sembrano (e sono e non sono) simili. Così la mente che li raccoglie è gremita di lampi, di analogie, di rapporti, di corti circuiti, che finiscono per traboccare. La buona critica letteraria non è altro che questo: la scoperta della gioia dei libri che si assomigliano». Mario Praz

Nebbia
L’ALBERO DELLE NEBBIE
lo scotano che avvampa nelle foglie
dopo le Feste meste
prende il rosso colore,
con i geli,
cade la pioggia fitta
sui ginepri,
ora nel magro sole
che s’accende
gocciola la quercella
intorpidita
e l’acero rifulge
nel greppo accanto,
spande il corniolo
un’ombra vasta
e viola
dopo, viene la nebbia
folta e nera,
ricopre fossi e macchie,
al monte della Conserva sale,
prende il cielo
il pastore che ha perso
la sua casa
vagava nella nebbia
instupidito,
belavano gli agnelli
da fare pena
sa ch’è lì appresso
ma c’è anche il dirupo
dove Lucia la rossa,
impigliati i capelli
tra i rovi folti,
s’è sciolta nella nebbia,
dentro l’erba molla
ma trapassa la bruma
il cespo acceso,
è una torcia che arde
e mai si spegne,
sale dritto alla stalla
il buon pastore,
ora gli agnelli belano
ma queti,
l’albero delle nebbie
li ha salvati
Seconda metà di novembre 1997.
da Nel tempo che precede di Umberto Piersanti
NELLA NEBBIA
E guardai nella valle: era sparito
tutto! sommerso! Era un gran mare piano,
grigio, senz’onde, senza lidi, unito.
E c’era appena, qua e là, lo strano
vocìo di gridi piccoli e selvaggi:
uccelli spersi per quel mondo vano.
E alto, in cielo, scheletri di faggi,
come sospesi, e sogni di rovine
e di silenzïosi eremitaggi.
Ed un cane uggiolava senza fine,
né seppi donde, forse a certe péste
che sentii, né lontane né vicine;
eco di péste né tarde né preste,
alterne, eterne. E io laggiù guardai:
nulla ancora e nessuno, occhi, vedeste.
Chiesero i sogni di rovine: – Mai
non giungerà? – Gli scheletri di piante
chiesero: – E tu chi sei, che sempre vai? –
Io, forse, un’ombra vidi, un’ombra errante
con sopra il capo un largo fascio. Vidi,
e più non vidi, nello stesso istante.
Sentii soltanto gl’inquïeti gridi
d’uccelli spersi, l’uggiolar del cane,
e, per il mar senz’onde e senza lidi,
le péste né vicine né lontane.
da Primi poemetti di Giovanni Pascoli
SERENO
Dopo tanta
nebbia
a una
a una
si svelano
le stelle
Respiro
il fresco
che mi lascia
il colore del cielo
Mi riconosco
immagine
passeggera
Presa in un giro
Immortale.
Bosco di Courton, Luglio 1918
da Poesie di Giuseppe Ungaretti
Una replica a “Il demone dell’analogia #39: Nebbia”
Tre suggestioni con timbri e colori diversi. Piersanti più denso, sensuale nel ricordo che si fa fiaba. Pascoli incantatorio con i suoi versi allusivi, simboli sospesi. Ungaretti scarno, nudo, nel suo silenzioso grido che dall’umano si volge oltre.
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