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“Finalmente Rebatet!” Edoardo Pisani racconta un maledetto

Rebatet durante il processo

On les tient pour sorciers dont l’enfer est le maître.

Corneille, Polyeucte

Lucien Rebatet è uno dei migliori scrittori del secondo dopoguerra francese, ed è un caso che abbia potuto esserlo. Nato nel 1903, dichiaratamente fascista fin dagli anni Trenta, nel 1946 viene condannato a morte per collaborazionismo. In seguito, nella trasmissione Radioscopie, del 1969 (consultabile in Rete), Rebatet dirà che è stato Robert Brasillach a salvarlo, perché dopo la fucilazione di Brasillach la Francia non ha voluto altro sangue, altri morti fra gli intellettuali, e così la sua condanna è stata commutata ai lavori forzati. In prigione, incerto sulla propria sorte, Rebatet affissa sul muro una citazione stendhaliana, da Il rosso e il nero: “Soltanto la condanna a morte distingue un uomo. È la sola cosa che non si compra.” Avrebbe potuto aggiungere un altro pensiero di Julien Sorel: “Sarò un mostro per la posterità”, affermazione a cui fa da controcanto una frase del suo Michel Croz, protagonista de I due stendardi: “Sarò giusto più abominevole ai loro occhi” – perché Rebatet era ormai divenuto un mostro.

Di scrittori mostruosi, o meglio di scrittori qualificati quali mostri, la Francia del secondo dopoguerra – che usciva dalla drôle de guerre e da Vichy – ne ha conosciuti parecchi. Rebatet è spesso accomunato a Céline, il mostro dei mostri, per ragioni non solo biografiche ma anche artistiche, letterarie; Rebatet considerava infatti Céline uno dei massimi scrittori francesi del Novecento e, come lui, ha scritto un pamphlet antisemita, Les Décombres, meno estremo stilisticamente delle Bagatelles o dei Beaux Draps eppure altrettanto e forse più “colpevole” – perché meno “arrabbiato”, perché meno “istintivo”. Nel suo libro maggiore, I due stendardi, un romanzo di oltre milletrecento pagine concluso in carcere e edito nel 1951, ci sono peraltro diversi pastiche céliniani, nella seconda parte, fra i pensieri furiosi del protagonista, che si rivolta a Dio e al clero e urla e maledice il mondo, divenendo finalmente l’altro stendardo, non più quello di Dio e della sottomissione bensì quello del Diavolo e della rivolta. E tuttavia la vicinanza di Rebatet a Céline termina qui; Rebatet è un autore classico, non un innovatore come Céline; semmai può essere accostato a André Gide. Ma a questo torneremo in seguito.

I due stendardi, romanzo che un critico/scrittore come George Steiner considera uno dei capolavori nascosti del Novecento, è stato tradotto in italiano solo settant’anni dopo la sua pubblicazione, l’anno scorso, dalle Edizioni Settecolori, che ne hanno fatto una splendida edizione, seppure con qualche refuso.

Pochi anni fa, nel 2015, Les Décombres veniva invece ristampato in Francia, suscitando di nuovo scalpore e ottenendo un buon successo di vendite; Rebatet è ancora uno scrittore letto e ammirato in Europa, se non da molti, da alcuni ben preparati lettori. Come nel caso di Céline, la condanna postuma e la presunta mostruosità di Rebatet attirano l’interesse dei borghesi e degli artisti, dei benpensanti e degli altri scrittori e dei giornalisti, in breve del pubblico colto. Ora che il fascismo è messo all’indice ovunque, nel proliferare di una democrazia forse troppo autocompiaciuta (e quindi meno “democratica” di quanto si creda), non c’è niente di più gratificante che poter leggere le opere di un uomo che non esitava a definirsi fascista, cioè proibito, cioè sconfitto, cioè diverso, anche dopo il 1945, a differenza di molti pentiti o convertiti dell’immediato dopoguerra.

Eppure I due stendardi non è affatto un libro fascista. È anzi una grande opera umana, un affresco al tempo stesso sentimentale e letterario – e musicale – della Francia degli anni Venti e quindi dell’Europa del primo Novecento. La vicenda può essere riassunta brevemente. Michel Croz è innamorato della ragazza di un suo amico, Régis. Régis aspira a diventare prete, mentre la sua fidanzata, la bella Anne-Marie, è destinata a finire in un convento e a farsi monaca. Michel si dispera. Ci sono molti personaggi secondari, fra cui Guillaume, Yvonne e padre Reboul, e comparse adorabili come “Zoccoletta” (una quindicenne che Michel pedinerà invano, e sono fra le pagine più riuscite del romanzo). C’è la Parigi di Pigalle e di Montmartre, e c’è Lione (ma non solo). C’è Kafka non ancora tradotto in francese (letto da padre Reboul) e ci sono Baudelaire e Rimbaud e Mallarmé; c’è Proust appena scoperto e subito amato e ci sono Mozart (il Figaro) e Wagner e Stravinskij e soprattutto Nietzsche. Rebatet è un grande scrittore di letteratura e di musica, e culturalmente è un combattente, tanto che all’inizio del romanzo ci offre uno spassoso attacco a Breton e Aragon e a tutto il movimento surrealista (“Noi non perdiamo tempo a polemizzare con quei pedanti tromboni dell’Humanité!”), in un caffè di Montmartre popolato “di papponi e troie”. Molti brani de I due stendardi sono preziosi per chiunque voglia scrivere o fare arte o comunque godere di letteratura e di musica e di pittura; non a caso Michel Croz è un aspirante scrittore, un artista.

Il titolo del romanzo, è risaputo, si deve a un brano degli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio, svelato da Michel nel diciassettesimo capitolo: “Di due stendardi, uno di Gesù Cristo, nostro Capo supremo e signore, l’altro di Lucifero, nemico mortale della nostra natura umana.” Molte pagine dopo lo stesso Michel affermerà, in una delle frasi più emblematiche del libro: “Non c’è più grandezza nella rivolta di quanta ce ne sia nella fede”, avvicinando dunque uno “stendardo” all’altro, la bandiera e la scelta della rivolta e la bandiera e la scelta della fede. I due stendardi di fatto è un’opera che può piacere sia ai preti che ai bestemmiatori, un grande romanzo polifonico e filosofico e narrativo che può far bestemmiare i preti e amare Dio (o la possibilità di Dio) ai bestemmiatori. È anche un libro d’amore, naturalmente, e di sesso. “È sull’amore che saremo giudicati il giorno della nostra morte” dice a un certo punto il mistico Régis. Quanto a Michel, dopo aver finalmente abbandonato e rinnegato il Dio di Régis, comincia a cercare ragazze e a scopare e a masturbarsi a più non posso, come rivoltandosi non soltanto a Dio ma al suo stesso corpo, al suo stato umano e animale, benché non riesca a smettere di amare perdutamente e segretamente Anne-Marie. “Un’ora più tardi usciva dalle lenzuola come dal letame” scrive Rebatet, dopo che il suo eroe ha fatto l’amore con una donna che non ama, sempre pensando a Anne-Marie. Ma le cose sono destinate a cambiare.

Se Rebatet fosse stato ucciso alla Liberazione, I due stendardi non sarebbe stato scritto. È altresì vero che se Rebatet non fosse stato imprigionato per anni a Clairvaux probabilmente non sarebbe riuscito a finire un’opera di tale portata. Come Michel Croz, Rebatet è in effetti un caso di “precocità ritardata al possibile”, per rifarci a un’espressione che Leonardo Sciascia usava per definire i talenti sbocciati tardivamente, come Stendhal – e proprio a Stendhal si raffronta il non più giovanissimo Michel: “A quell’età Shelley, Byron, Chateaubriand, Poe e Nerval si erano già forniti delle prove del loro genio. Baudelaire, Balzac, Flaubert e Dostoevskij erano già preda dei loro fermenti. Ma gli esempi di Rousseau, di Stendhal e di tanti altri sono dei più rassicuranti.” Nella prima metà della sua vita Rebatet ha sempre procrastinato la sua opera totale, il grande romanzo, che la prigionia gli ha dato modo di concludere; il primo Rebatet si disperdeva in articoli e in polemiche e nel dandismo della giovinezza, come a tratti lo stesso Michel Croz: l’opera sarebbe venuta più tardi, con la maturità e la galera.

Michel Houellebecq ha detto una volta, in un film tratto dal suo Rester vivant, che gli artisti si dividono in rivoluzionari e in decoratori, e che lui è un decoratore. Per Rebatet vale la stessa cosa: I due stendardi non è né vuole essere un romanzo “rivoluzionario”; è piuttosto un grande affresco narrativo, un’immensa “decorazione” che prende fin dai primi capitoli un passo da romanzo ottocentesco, classico, a tratti perfino da feuilleton, giacché il grande modello di Rebatet è Stendhal. (“Fabrizio del Dongo era un collaborazionista” chiosa ridacchiando il terribile Rebatet nell’intervista di Radioscopie, come per legare il proprio destino a quello di Stendhal. “La certosa di Parma è una storia di collaborazionismo…”).

Stendhal, dunque, e di certo non Céline (se non per qualche breve pastiche) né tantomeno Proust (se non per il capitolo Le pipistrelle) né in fondo André Gide. Nella prima metà del Novecento I due stendardi potrebbe essere avvicinato a Schiavo d’amore, di William Somerset Maugham, che è anch’esso un grande romanzo a un tempo classico e novecentesco. E tuttavia Rebatet è Rebatet, ovvero un fascista, un pamphlettista, un uomo condannato a morte e poi graziato, uno scrittore che auspicava, nel primo capitolo de Les Décombres, che lo Stato francese “fucilasse qualche migliaio di ebrei e di massoni e ne deportasse altrettanti”; Rebatet è un uomo pericolosoe le sue opere, compreso I due stendardi, sono sempre state circondate da un’aura maledetta. Non si è mai pentito dei propri scritti politici, minimizzando il proprio antisemitismo, affermando, come molti collaboratori dei nazisti (primo fra tutti Céline), che nasceva da un pacifismo a oltranza, poiché negli anni Trenta gli ebrei erano favorevoli alla guerra, e raffrontando Les Décombres a una granata distruttiva che doveva essere il più possibile piena di “materiale esplosivo”, cioè di odio. Anche dopo il crollo del fascismo Rebatet è rimasto uno scrittore fascista, e il suo mancato pentimento – il suo essere uno “sconfitto” – non piaceva a molti. Pascal Ory, autore di diversi libri sul collaborazionismo francese, ha ricordato più volte la difficile accoglienza di un romanzo quale I due stendardi, che a René Étiemble, per esempio, costò il posto ne Les temps modernes; il potente Sartre non sopportò il suo elogio al romanzo “fascista” di Rebatet, cacciandolo dalla redazione della rivista. Un paragrafo di Étiemble è stampato sul dorso del secondo volume dell’edizione italiana de I due stendardi, insieme a due righe di un altro scrittore maledetto tuttora vivente, Marc-Édouard Nabe; Étiemble avvicina I due stendardi a La montagna incantata di Thomas Mann, mentre Nabe afferma che è il più grande romanzo francese dai tempi di Morte a credito, di Céline. “Rebatet non beneficia di alcun romanticismo legato al suo nome o alla sua persona” scrive ancora Nabe, in Au régal des vermines, libro che Rebatet avrebbe amato. “È il Bastardo inespiabile, la Feccia, il Traditore per eccellenza: che sogno! I più maledetti fanno, al suo fianco, una figura da accademici.”

Rebatet sarà letto per sempre come uno scrittore maledetto. I due stendardi non dovrebbe essere un libro “maledetto”, però l’esistenza e la reputazione del suo autore lo fanno apparire tale. È invece un grande romanzo moderno, un’avventura umana, sentimentale e artistica che si legge con diletto e passione e si conclude con malinconia. Nella bella introduzione del romanzo, Stenio Solinas racconta la travagliata storia della traduzione italiana, che passa da un editore padre (Pino Grillo) a un editore figlio (Manuel Grillo). Il lavorio di traduzione di Marco Settimini è notevole, e i non troppi refusi del testo, che in francese si chiamano “coquilles” (conchiglie), rendono il doppio volume ancora più affascinante, come se si trattasse di una traduzione “viva”, di un’operazione culturale avanguardista e necessaria, la prima traduzione italiana di uno dei maggiori romanzi del secondo Novecento europeo: I due stendardi, il capolavoro di Lucien Rebatet, fascista indimenticato. Che i lettori più attenti, i lettori avidi di storie e di arte e di personaggi e di fabulazioni e incanti, non se lo lascino scappare.

4 risposte a ““Finalmente Rebatet!” Edoardo Pisani racconta un maledetto”

    • Infatti penso sia “fascista” non scrivere di un “fascista” perché si ha paura di apparire “fascista” di fronte a chi dei “fascisti” non scrive; grazie per il commento.

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  1. Insisto. L’antifascismo e’ un valore ed e’ lontano da questi giochini verbali.
    C’è gente che è morta per questo straccio di libertà e andrebbe rispettata.
    Non si può essere tolleranti con l’intolleranza. Il nazifascismo e’ l’intolleranza ed e’ il male assoluto, al pari di ogni autoritarismo e di ogni esercizio di potere.

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    • Quali “giochini verbali”? Non vedo dove sia l’intolleranza, ne I due stendardi, come non vedo dove sia la mancanza di rispetto per l’antifascismo – o per il fascismo – nel mio pezzo (che non è un pezzo politico). Rebatet ha scritto un grande romanzo e credo che letterariamente questo gli vada riconosciuto; le ricordo che Albert Camus, di certo non un fascista, considerava I due stendardi un romanzo molto riuscito.

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