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Tre racconti di Lorenzo Pisaneschi

Da una tela di Alfeo Bertin, senza titolo (1970)

Millimetri

Lui l’accolse giungendo le mani, come quando si prega, o si controlla sospettosi di non essere padroni di fastidiose asimmetrie, e lei gli sorrise distesa, inclinando leggermente il capo verso destra. Gli disse Roberto, che casa, Roberto, e fu lui allora a sorriderle zitto, tacendo un misto d’orgoglio e di angoscia. Le disse te la mostro se vuoi, e lei disse certo, e quello fu il primo dialogo di cui si fecero interpreti, attori senza lavoro in comune da un anno e due mesi. Passarono le stanze, il soggiorno, la cucina, il bagno, la camera da letto, e lui non le disse altro che ecco il soggiorno, la cucina, il bagno, la mia stanza, e lei sorrideva e diceva solo che bello, che bella, che bello, si vede che è tua, ti somiglia. Si sedettero sul letto e si guardarono zitti, indagando, ognuno in segreto, il tempo trascorso sul volto dell’altro, scoprendosi uguali all’immagine che ancora la loro memoria teneva, e allora un senso come di nausea, un rigurgito di pietà si affacciò nella gola di entrambi. Per farlo tacere, per non farlo notare, lui la baciò e lei gli si strinse. Si spogliarono in fretta, senza guardarsi, che già sapevano quei corpi a memoria, ognuno il corpo dell’altro a memoria, e fecero l’amore seguendo, quasi senza rendersene conto, lo stesso schematismo, il medesimo susseguirsi di posizioni che un anno e due mesi prima aveva fatto loro dire basta, siamo logori, basta. Una volta finito, lei come sempre si appoggiò sul suo petto, e lui l’abbracciò, le sue dita che quasi si intrecciavano sulla schiena di lei che si alzava e abbassava, che si alzava e abbassava. Se non avesse tenuto gli occhi chiusi, in quel momento si sarebbe forse accorto che l’indice della destra era, anche se di poco, chiaramente più lungo del suo corrispettivo mancino. Ma aveva gli occhi chiusi, e continuò ad abbracciarla, quasi incrociando le dita, ignorandone il segreto, quasi come si fa quando si spera qualcosa.

 

Il nostro piccolo segreto

Ma non potevo dimenticare quelle foto, e allora solo me ne uscii per la strada. Entrai in un bar e cercai di pregare. Ma non potevo non pensare a quelle foto, ed ordinai da bere e pensai a quelle foto e a lui che era morto e che ero stato io che gli avevo regalato quelle foto, quelle foto che adesso dovevano stare a casa sua, nella sua stanza, certo, nella sua stanza, da qualche parte nella sua stanza, quelle foto che gli avevo regalato io. E adesso era morto. Mi trovai davanti il bicchiere e lo guardai, e cercai di pregare, ma non potevo non ricordare quel giorno, quei giorni, molti giorni dentro casa mia, io e lui, e quelle foto che avevo scattato io e che gli avevo regalato io, e adesso era morto, e quelle foto ancora intatte, forse ancora intatte, da qualche parte, nella sua stanza. Guardai il bicchiere e mi dissi stupido stupido che hai scattato quelle foto e stupido stupido due dieci cento mille volte stupido che gli hai regalato quelle foto e poi perché mai perché mai gli avevo regalato quelle foto mi dissi. Sollevai il bicchiere e lo guardai da vicino, e cercai di specchiarmi, e non mi vidi, e lo rimisi giù e mi dissi che era stato per arroganza. Ricordai quel giorno, ed i vestiti, piccoli, e gli scatti veloci e poi quelli lenti, di lontano, col timer che tintinnava ed io e lui di fronte, e adesso era morto, e quelle foto ancora intatte da qualche parte nella sua stanza. Era stato per arroganza, mi dissi. Per altro le scattai certo per altro scattai quelle foto adesso da qualche parte nella sua stanza, la stanza di lui che era morto, ma per cosa gliele misi tra le mani, mi dissi. Stupido stupido due dieci cento mille volte stupido che gli sussurrai pure sarà il nostro piccolo segreto, e lui disse sì, e le strinse ed io lo guardai e mi sentii come dio, ed adesso era morto, morto impiccato nella sua stanza con le foto, le foto che scattai io e che gli regalai io, quelle foto ancora intatte, forse nascoste, da qualche parte nella sua stanza. Altre due volte lo vidi, solo due volte, e non una foto, solo i vestiti, piccoli, tolti di fretta e ammucchiati di fretta da qualche parte della mia stanza, ed il padre di fuori, e la macchina accesa di fuori, e adesso era morto, morto impiccato trovato dal padre. Presi di nuovo il bicchiere tra le mani e cercai di pregare e quasi riuscii a pregare ma non potevo, non potevo dimenticare quelle foto e allora misi giù il bicchiere e pensai a quel giorno, quei giorni, molti giorni dentro casa mia e lui che adesso era morto che continuava a portare i soldi, a porgermi i soldi, e io gli dicevo no no questi tienili tu che stupido stupido che gli dicevo sarà il nostro piccolo segreto ed il padre dopo due ore di fuori, ad aspettarlo di fuori, lì fuori di fronte casa mia. Guardai di nuovo il bicchiere, dall’alto, e mi dissi che il padre doveva aver molto sofferto, doveva aver certo sofferto come certo soffriva tuttora, e forse non aveva ancora cercato, forse non aveva ancora avuto la forza o la lucidità che è poi la stessa cosa, non aveva ancora trovato la lucidità per mettere via le cose del figlio, i giochi ed i libri del figlio, e non le aveva ancora trovate le foto, quelle foto che avevo scattato io e che gli avevo regalato io come fossi impazzito, per arroganza, per il brivido nero che mi corse di dentro come gli dissi, gli sussurrai ecco, sarà il nostro piccolo segreto e lui disse sì e io gli dissi guardale pure quando ti tocchi. Stupido stupido due dieci cento mille volte stupido mi dissi guardando il bicchiere dall’alto. Cercai di pregare, ma non potevo scordare quelle foto ed il padre che lo portava e dopo due ore tornava, tornava a prendere lui che adesso era morto, morto impiccato trovato dal padre, lui che ancora portava quei soldi per le ripetizioni, ed io gli dicevo no no no e non potevo ignorare che il padre, il padre che lo portava e dopo due ore tornava e che poi lo aveva trovato morto impiccato nella sua stanza, le avrebbe trovate, le foto, le foto di lui che adesso era morto e le foto di lui che adesso era morto e di me che ancora era vivo e i vestiti, piccoli e grandi vestiti, tolti di fretta e ammucchiati di lato. Presi il bicchiere e lo bevvi di colpo, e cercai di pregare, ma non ci riuscii, e allora pensai che era morto, morto impiccato, una morte che io non credevo possibile, una morte col cappio, tra i giochi ed i libri in una stanza che immaginavo piccolissima, piccolissima stanza dove dormiva e studiava e forse una due dieci cento mille volte si era toccato guardando le foto, quelle foto che gli avevo scattato io, che ci avevo scattato io, e che poi gli avevo messo tra le mani dicendogli toccati pure quando le guardi e adesso era morto, trovato dal padre morto impiccato nella sua stanza, le foto ancora spero nascoste nella sua stanza. Ordinai di nuovo da bere e cercai di pregare ma non potevo ignorare le foto, ed il padre, e le foto e pensai al padre che puntuale dopo due ore tornava e lo aspettava in macchina mentre io gli dicevo no no questi soldini tienili tu sarà il nostro piccolo segreto, come le foto, le foto che gli avevo scattato e che ci avevo scattato io per libidine pura, e che gli avevo regalato per arroganza, per il brivido nero di dirgli sarà il nostro piccolo segreto e lui disse sì ed io gli dissi toccati pure quando le guardi, e il padre le avrebbe trovate di certo le foto, quelle foto, che anche in due giorni o in due anni le avrebbe trovate se pure nascoste, una volta sbollito il dolore, avrebbe trovato la forza e le avrebbe trovate le foto perché non potevo dimenticare quelle foto e allora pensai a lui che adesso era morto, morto impiccato trovato dal padre e forse si era toccato tenendole accanto, guardandole fisso, e mi eccitai duro ed ebbi paura, e cercai di pregare, ma non potevo ignorare le foto, ed il padre, e allora solo me ne uscii per la strada e cercai di pregare, mentre guardavo le macchine che correvano veloci.

 

Brutalità

La brutalità del vivere la investì come una scoperta da tempo rimandata un lunedì di maggio.
Si era preparata molto. Da quando nell’ultimo compito in classe aveva riportato a casa un quattro, la madre l’aveva costretta a studiare notte e giorno. Quella mattina era nervosa. Si era alzata alle cinque per ripassare sotto l’occhio attento della vecchia donna che, seduta sul divano, l’ascoltava in silenzio ripetere le fasi salienti delle guerre puniche. L’interrogazione era stata programmata da più di una settimana. Non poteva fallire. Lei, in ogni caso, non glielo avrebbe permesso. Se ti fai rimandare a storia… le ripeteva in quei giorni senza mai concludere la frase.
Quando la professoressa chiamò il suo nome, si alzò lentamente dal banco per poi sedersi sulla sedia di fianco alla cattedra, in perfetto silenzio. Rispose in modo assai preciso alla prima domanda, così come alla seconda. Dopo venti minuti, tornò al banco con un nove in tasca. Nessuno, nella sua classe, era mai riuscito a prendere un voto tanto alto. Lei ce l’aveva fatta. Sua madre, pensò, sarebbe stata per una volta contenta. Sorrideva piano, come per non farsi notare, guardandosi attorno come chi, raggiunta la meta, attende solo che arrivi qualcuno a fargli compagnia. Aspettò la campanella delle tredici come mai aveva fatto e, una volta in strada, accese il cellulare per chiamarla. Trovò invece un messaggio: Siamo in ospedale. Edoardo è caduto. Vieni. La tristezza la pervase. Poi, sull’autobus diretto verso l’ospedale, subentrò la rabbia. La madre l’aveva chiamata: le aveva detto che i medici ancora non si erano espressi, che probabilmente il suo fratellino aveva qualcosa di grave. Vieni subito!
Guardando fuori dal finestrino, si strinse lo zaino al petto come per soffocare un dolore. Speriamo muoia – si disse tra sé per poi pentirsene subito dopo.

 

 

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