In una poesia – in ogni poesia – si scopre sempre un verso capace di imprimersi nella mente del lettore con particolare singolarità e immediatezza. Pur amando una poesia nella sua totalità, il lettore troverà un verso cui si legherà la sua coscienza e che lo accompagnerà nella memoria; il verso sarà soggettivato e anche quando la percezione della poesia cambierà nel tempo, la memoria del verso ne resterà quasi immutata (o almeno si spera). Pertanto nel nostro contenitore mentale conserviamo tanti versi, estrapolati da poesie lette in precedenza, riportati, con un meccanismo proustiano, alla superficie attraverso un gesto, un profumo, un sapore, contribuendo in tal senso a far emergere il momento epifanico per eccellenza. Perché ispirarsi alle bustine di zucchero? Nei bar è ormai abitudine zuccherare un caffè con le bustine monodose che riportano spesso una citazione. Per un puro atto spontaneo, non si va a pescare la bustina con la citazione che faccia al proprio caso, è innaturale; si preferisce allora fare affidamento all’azzardo per scoprire la ‘frase del giorno’ a noi riservata. Alla stessa maniera, quando alcuni versi risalgono in un balenio alla nostra coscienza, non li prendiamo preventivamente dal cassettino della memoria. Sono loro a riaffiorare, da un punto remoto, nella loro imprevista e spontanea vividezza. (D.Z.)
Sebbene Henri Michaux avesse sempre tentato di tenersi distante dalla scena letteraria – rare le apparizioni in pubblico, fra cui una al Collège de France nel 1983 per assistere alla conferenza del suo amico Jorge Luis Borges –, la sua poetica non passava inosservata per quelle ragioni che per lui sottintendono l’opera come campo di sperimentazione, lavoro della coscienza e rinnovamento della lingua. Tale visione è correlata a un evidente rifiuto della forma fissa, e questo per riconoscere alla poesia una voce ben superiore alle forme letterarie note. Inizialmente nei pressi del Surrealismo senza farne parte e anzi criticando il movimento, Michaux si avvicinò in seguito all’Esistenzialismo, tenendosi comunque lontano da quella che poteva rappresentare una fastidiosa classificazione in gruppi o etichette. La poesia rappresenta, per Michaux, un multiverso in cui fondere i generi letterari; come per Edmond Jabès, il suo stile mescola le frontiere degli stessi generi, con una particolare disposizione sulla pagina – aforisma, prosa, poemi in versi liberi, estratti. L’amalgama delle varie forme poetiche pare suggerire un sentiero perpetuo in cui l’unica norma consentita alla libertà è non aver una forma precostituita e immutabile. A ciò si aggiunga un’incessante e irriducibile tendenza del poeta a un linguaggio «immediato, semplice, mimico» e un uso sperimentale ispirato al Coup de dés di Mallarmé e ai Calligrammes di Apollinaire. Il libretto intitolato Ombre per l’eternità, che riunisce i testi poetici scritti nell’estate del 1967, ossia Linee, Luoghi, Momenti, Traversate nel tempo e Ombre per l’eternità, è un viatico molto breve ma utile per avventurarsi nel mondo della parola-segno: non o non solo parola, ma lettera, puro segno, «linee tracciate a caso sul foglio» non escluse da un senso, una direzione colta nelle «anfrattuosità, sinuosità» delle medesime linee. Liberandole da una gabbia pre-concettuale, le parole dischiudono un panorama sul segno non riconducibile a una lingua precisa, il segno è «senza appartenenza, senza filiazione» che vive una dimensione in continua estensione e un «momento piuttosto errante». La linea, allora, attraversa il tempo e si costituisce ombra di qualcosa di più grande, un linguaggio in potenza che, pur soltanto con il significante, il suono a precedere il significato, si fa già presenza nel mondo, esplorazione nella e della pagina: scrittura.
Bibliografia in bustina
H. Michaux, Ombre per l’eternità (trad. di Diana Grange Fiori), Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1973