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Giulia Bocchio dialoga con Fabio Pusterla

Fabio Pusterla, foto di Dino Ignani

La poesia, mai come oggi, vive d’un tranello che somiglia a quella descrizione che Nietzsche fece del suo Zarathustra ovvero: «un libro per tutti e per nessuno». La poesia è per tutti e per nessuno.
È divenuta una presenza stoica sugli scaffali delle librerie, una presenza più dovuta che davvero bramata, lettura prediletta di chi è poeta a sua volta, di chi coltiva una curiosità letteraria che è frutto dei classici e che insegue il lampo fugace della parola, o la rima come perimetro di un’ombra che in pochi versi racconta più storie di un’antologia. Per tutti e per nessuno, l’unica forma d’arte autoreferenziale che ha la generosità dell’universale.
E allora perché oggi la poesia sembra intrappolata fra la dissoluzione della sua antica grandezza e una rincorsa al verso-citazione? A un verso che possa bastare per un tweet.
Lecito dissentire, certo, ma va anche osservato un altro fatto: un’editoria che spesso non aiuta e non si lascia ispirare, un’editoria generalista che non dialoga con gli autori, ma che incentiva innumerevoli proposte poetiche e uscite di titoli che si dissolvono, si perdono, sfuggono. Il ricambio in libreria è vorticoso e il web è uno strumento alleato ma anche dispersivo.
Tuttavia, in questo variegato universo di parole e carta, non mancano i grandi pilastri, i grandi fari della letteratura odierna che con passione e dedizione dedicano ancora tempo e spazio alla bellezza della poesia e al senso della scrittura: Fabio Pusterla spicca certamente fra questi.
Poeta, traduttore ma anche insegnante, nato a Mendrisio, in Svizzera, ingloba in sé una certa tradizione ticinese ma anche un legame fortissimo con l’Italia e con l’impronta di poeti del calibro di Vittorio Sereni e Giorgio Orelli. In oltre trent’anni di riconosciuta e premiata carriera letteraria è oggi uno dei poeti più stimati e riconoscibili: da Concessioni all’inverno a Corpo stellare, sino a Cenere, o terra, solo per citare alcune delle sue preziose raccolte.
E c’è il suo intuito anche dietro le pubblicazioni della casa editrice milanese Marcos y Marcos: la scelta è precisa, tre libri l’anno, tre libri che possano scuotere i lettori e dare nuovo respiro alla poesia.

Fabio bentrovato. La tua poesia è legata tanto allo spazio umano quanto al tempo, un concetto che è stratificazione di altri tempi che potrebbero anche non avere memoria; in questo senso la poesia dilata la coscienza del poeta…

Prima di provare a risponderti, vorrei ringraziarti per l’invito e per la lusinghiera presentazione; in cui, devo subito aggiungere, fatico davvero a riconoscermi. Non lo dico per falsa modestia o per vezzo; posso riconoscere che tanti anni di dedizione alla parola e di ricerca espressiva abbiano prodotto qualcosa, una forma di identità poetica e, speriamo, umana; tuttavia ciò che prevale in me è piuttosto il dubbio. Un dubbio che ha a che vedere con il futuro, più che con il passato: come continuare, in quale direzione dirigersi, verso quale orizzonte orientare la parola?
Per cercare di risponderti, direi che senz’altro per me la nozione di “tempo” è complessa e multiforme; esiste, naturalmente, il tempo soggettivo, in cui si vive e si cresce, e già in questo tempo non è difficile avvertire una forma di vertigine, quella dell’Infinito leopardiano, per intenderci. Ho incontrato anni fa un’immagine di Luigi Meneghello che mi ha molto colpito: una fila di bambini “in rango”, come si diceva una volta nelle palestre scolastiche. Il primo rappresenta noi, la nostra generazione; il secondo quella dei nostri genitori; il terzo i nonni. Dove si arriva alla fine del rango? Dove mi avrebbe condotto Nicolino, che alle elementari era il bambino più piccolo, e che chiudeva il rango? Forse «ai tempi prima di Roma», nella «selva ungulata e feroce» di cui parla una splendida poesia dei Bartolo Cattafi (La strada)? Werner Herzog, in uno straordinario documentario (La caverna dei sogni) ci conduce all’interno di un vasto complesso di grotte, nell’Ardèche, in cui sono stati scoperti alcuni decenni or sono antichissime incisioni rupestri e raffigurazioni animali. La voce fuori campo spiega che tra i più antichi e i più recenti di quei disegni corrono secondo gli esperti 5000 anni. E poi, come intuendo lo stupore dello spettatore, commenta: certo, vi sembra uno spazio temporale pressoché inconcepibile; il fatto è che “noi siamo prigionieri della storia; loro, no”.
Ma accanto alla vertigine del tempo umano, c’è poi la coscienza di altri tempi: i tempi biologici, non solo umani, e quelli addirittura geologici, che solo in rare circostanze si fanno quasi visibili, nella conformazione di una roccia, nell’affioramento di un fossile, nel mistero di una pietra. «Un sasso, ci spiegano,/ non è così semplice come pare», diceva Vittorio Sereni. Quindi sì, penso che ascoltare le varie dimensioni del tempo possa aiutarci ad ampliare la nostra coscienza di noi e del mondo, di noi nel mondo e del mondo dentro di noi.

La tua origine, legata alla Svizzera e all’Italia, è una cornice geografica e paesaggistica che è divenuta immagine fedele delle tue poesie. Quanto è importante per te e per la tua scrittura il rapporto fra natura e sensi?

Possiamo parlare di “natura”, certo, ma in un senso molto diverso rispetto al passato; che la natura esista lo dimostrano paradossalmente i lunghi mesi di questo anno terribile, in cui siamo ostaggi di un microrganismo. Nello stesso tempo, però, dovrebbe essere evidente a tutti che la natura non può ormai esistere se non nel suo rapporto con l’uomo, con gli effetti che la vita umana produce: virus compresi. Da tempo si parla in questo senso di antropocene. In ogni modo, la percezione dell’elemento naturale passa senz’altro, almeno per me, attraverso i sensi: la mano che si posa su di un tronco, l’olfatto che sente il richiamo dell’erba appena tagliata passando accanto a un prato, magari in mezzo alla città; e così via. Tra tutti questi sensi, quello che mi sembra avere un rapporto più stretto con la scrittura è per me la vista, che immagazzina le immagini, destinate poi a muovere la parola. È forse soprattutto con gli occhi (o forse è fin troppo facile dire questo, sottovalutando l’effetto più segreto dell’olfatto o dell’udito, e il rapporto di quest’ultimo con il ritmo) che istintivamente cerco gli elementi essenziali, per me essenziali, del visibile, in cui forse si coagulano, come in sostanze elementari, quei paesaggi a cui tu fai riferimento, e che posso ritrovare un po’ ovunque, anche al di fuori dei territori geografici in cui più comunemente mi muovo: luce, acqua, terra, polvere, legno, pietra, e le loro varie combinazioni, affermazioni e negazioni. Forse posso ancora aggiungere che queste sostanze elementari attirano la mia attenzione soprattutto quando si trovano in una specie di terra di mezzo: non nei luoghi sublimi in cui possiamo ancora illuderci di guardare l’antica natura onnipossente, ma nelle intersezioni, negli interstizi: periferie, irruzioni umane, zone di contatto e di devastazione.

Gli interrogativi che animano l’uomo e la sua costante ricerca di un senso passano anche attraverso la lettura di luoghi fisici che nascondono un senso emotivo latente. Leggere le tue poesie, nel corso degli anni, ha permesso di rileggerti come uomo?

Lo spero; se così non fosse l’esercizio della scrittura sarebbe un esercizio un po’ sterile. La poesia, questo ogni tanto riesco a pensare, può entro certi limiti orientare la vita, suggerirle una direzione, illuminarne a ritroso il percorso. Poi la vita, cioè il mio concreto essere dentro l’esistente e dentro i miei limiti, va dove può andare, dove riesce ad andare, e non credo possa mai raggiungere quell’orizzonte indicato dalla parola poetica. Come mi ha detto una volta un amico fraterno, il poeta Francesco Scarabicchi, «noi saremo sempre inferiori a ciò che tentiamo di scrivere».

La pandemia e il lockdown hanno messo molte persone di fronte a uno stop forzato; un momento difficile per il mondo della cultura, ma anche una sorta di sospensione in cui i libri si sono dimostrati pilastri e alleati. Pensi che tutto questo abbia (ri)avvicinato alla lettura quel bacino di lettori immersi in una routine sempre più vorticosa e veloce…

Non saprei rispondere. Può darsi che questo sia capitato, almeno per alcuni; e può darsi il contrario. Difficile sperare che chi comunemente non legge nulla abbia cominciato a farlo nella solitudine coatta; temo sia più potente Netflix. D’altra parte, proprio agli inizi della pandemia, ho incontrato per strada una mia conoscente, che mi ha detto, sorprendendomi: “eh, ci vorrebbe più poesia”. Ho riflettuto a lungo su quelle parole, che non mi erano parse di circostanza o dette tanto per dire. Credo intendessero questo: che per non lasciarci schiacciare completamente dal peso della realtà così com’è, abbiamo bisogno di un linguaggio simbolico, capace di andare oltre, di ricordare e progettare, di custodire e sperare. In sostanza, è lo stesso linguaggio simbolico che accompagna il genere umano da almeno quarantacinquemila anni (a tanto risalgono al momento i più antichi graffiti rupestri; ma è verosimile credere che in futuro nuovi ritrovamenti arretreranno ancora la data). Tra quei lontani e misteriosi graffiti e il nostro tentativo di scrivere o dipingere non c’è, a mio avviso una differenza sostanziale. Il linguaggio simbolico, visto in quest’ottica, non è né inutile né decorativo: rappresenta forse la più straordinaria riserva di energia umana, e proprio per questo non è mai scomparso, neppure nelle epoche peggiori e più difficili. Ecco perché possiamo ancora sperare, nonostante tutto. E può darsi che i mesi di solitudine e di apprensione abbiamo indotto un certo numero di persone a capire, o forse anche solo ad intuire, qualcosa del genere. Vedremo se e fino a che punto questa eventuale intuizione potrà resistere e fruttificare non appena le maglie dell’emergenza si allargheranno, e la potente spirale di produzione e consumo tornerà a vorticare a pieno regime…

Che tipo di momento storico sta vivendo l’editoria oggi…

Non posso esprimermi sulle conseguenze del lockdown: non ho dati in proposito. Il rischio che la chiusura delle librerie e il venir meno di moltissime attività pubbliche legate al libro penalizzi gli editori e avvantaggi invece le grandi catene distributive online è probabilmente un rischio reale. Anche da questo punto di vista, la pandemia non fa che accelerare e aggravare derive già in opera da tempo.
Ma, pandemia a parte, direi che negli ultimi cinquant’anni abbiamo assistito a una profonda trasformazione editoriale; mentre i grandi editori si sono sempre più consegnati all’industria dell’entertainement e ai calcoli di marketing, attenuando o addirittura dimenticando la loro originaria vocazione culturale, sono cresciuti i piccoli e medi editori, a cui principalmente si deve la salvaguardia della letteratura e della poesia in particolare. È un processo ancora in corso e dall’esito assai incerto. Il rischio che, come avviene ormai allegramente nel campo televisivo e forse cinematografico, il successo materiale, quantitativo, prenda il posto del valore culturale, è forte o fortissimo. Non siamo ancora a Farenheit 451, ma neppure lontanissimi; naturalmente non è vietato leggere, semmai è sconsigliato leggere cose di valore, cose difficili, cose che non vendono abbastanza per essere definite significative. Ed è sempre più difficile trovare libri del genere nelle librerie. Eppure la letteratura che merita questo nome, come la poesia, continuano ad esistere, come un diverso livello di realtà, proprio come esistono i loro lettori appassionati.

Per la casa editrice Marcos y Marcos curi la collana di poesia selezionando tre opere l’anno. Una scelta coraggiosa e consapevole, atta a dare il giusto respiro a ogni pubblicazione. Quale sensibilità e quale estetica muove le tue scelte e il tuo dialogo con gli altri poeti?

La Marcos y Marcos ha preso questa bella e coraggiosa decisione, in apparente controtendenza: proprio nel momento in cui molte collane di poesia scompaiono o sono in difficoltà, ecco un editore indipendente che dice: proviamoci. L’idea è quella di pubblicare libri importanti e veri, indipendentemente dalla posizione del loro autore nella buona società letteraria. Non i libri degli amici degli amici, per intenderci, non i libri scelti in funzione del blasone di chi li ha scritti o del vantaggio che potrebbe avere chi li pubblica. Non ci sono particolari preclusioni stilistiche; si cercano e si scelgono opere che provano con forza a pronunciare qualche aspetto del mondo, del rapporto tra noi e il mondo. Dunque, una poesia cosciente del dibattito sviluppatosi negli ultimi cinquant’anni, cosciente cioè dei propri limiti, del proprio rapporto complesso e non lineare con la tradizione che abbiamo alle spalle; una poesia non ingenua, da questo punto di vista. E che però abbia deciso, senza dimenticare nulla di questa coscienza, di non arrendersi, di non consegnarsi alle secche dell’autoreferenzialità, della pura e semplice negazione di sé, del gioco fine a sé stesso: e che provi ancora a parlare, senza enfasi inutile, senza paludamenti, senza atteggiamenti.
Posso aggiungere che da molti anni collaboro con Franco Buffoni alla notevole impresa dei Quaderni di poesia contemporanea, che mi consentono di avere un rapporto piuttosto intenso con ciò che si va facendo oggi in Italia da parte degli autori giovani e talvolta giovanissimi. Questo, dei Quaderni, è senz’altro un osservatorio prezioso, e in qualche caso uno dei serbatoi a cui attingere. Poi, uno almeno dei tre libri che appaiono ogni anno è dedicato a “maestri in ombra”, che in altri tempi sarebbero stati pubblicati da collane prestigiose, e che oggi sono rimasti abbandonati e a volte dimenticati.

A proposito di pubblicazioni, il tuo progetto Figurine d’antenati, una plaquette composta da nove testi inediti, è un lavoro ancora in fieri, vorresti raccontarci dove affondano le radici queste immagini e queste parole che sanno di reminiscenza…

Le Figurine sono uno scampolo della ricerca in corso, pubblicate in una piccola edizione grazie a due amici, Giampaolo Cereghetti e Mauro Valsangiacomo. Durante gli ultimi anni, ho scritto parecchie cose, ancora in via di decantazione e sistemazione, che ruotano attorno ad alcuni nuclei ricorrenti. Uno è quello delle sbarre, che per ragioni non del tutto a me note mi ha colpito e ossessionato a lungo. In questa fase della ricerca, ho incontrato in un libro di storia la figura di Truganini, ricordata come l’ultima aborigena tasmaniana, morta verso la fine dell’800 dopo lo sterminio del suo popolo. Sarà stato il nome, sarà stata una fotografia che la ritrae orrendamente agghindata all’occidentale; sarà stato qualcosa di più profondo che sto ancora cercando di chiarire a me stesso: fatto sta che per molto tempo Truganini ha guidato, se così posso dire, la scrittura. Ad un certo punto ho immaginato che questa donna potesse conservare dentro di sé la memoria dei suoi compagni trucidati e scomparsi; poi, che questa memoria potesse anche essere rappresentata da qualche cosa di materiale: statuette, maschere, oggetti di questa natura. Le Figurine sono nate così: come immagini memoriali di Truganini, o meglio della Truganini che vive dentro di me.

Chi è per te oggi un artista; come descriveresti questo termine, che ha assunto un significato sempre più poliedrico?

Non saprei proprio rispondere a una simile domanda. Un po’ troppo spesso chi si proclama “artista” adotta dei comportamenti che dovrebbero essere “artistici” e spesso risultano poi patetici. A me quello che sempre importante non è né la definizione in sé, né l’atteggiamento esteriore; piuttosto, la profondità e la costanza della ricerca espressiva. Qualunque sia il linguaggio artistico che uno sceglie di affrontare, vale sempre, mi sembra, il motto caustico di Bobi Bazlen: «Un tizio vive e fa bei versi. Ma se un tizio non vive per fare dei bei versi, come sono brutti i bei versi del tizio che non vive per fare bei versi». Questo però significa che perseguire un ideale artistico ha un prezzo molto alto. E che il risultato non è mai pienamente raggiunto, è sempre oltre, più in là, che ci chiama. Che ci chiede di abbandonare tutto, e rimetterci in cammino.

 

© Giulia Bocchio

Una replica a “Giulia Bocchio dialoga con Fabio Pusterla”