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Bustine di zucchero #53: Giorgios Seferis

In una poesia – in ogni poesia – si scopre sempre un verso capace di imprimersi nella mente del lettore con particolare singolarità e immediatezza. Pur amando una poesia nella sua totalità, il lettore troverà un verso cui si legherà la sua coscienza e che lo accompagnerà nella memoria; il verso sarà soggettivato e anche quando la percezione della poesia cambierà nel tempo, la memoria del verso ne resterà quasi immutata (o almeno si spera). Pertanto nel nostro contenitore mentale conserviamo tanti versi, estrapolati da poesie lette in precedenza, riportati, con un meccanismo proustiano, alla superficie attraverso un gesto, un profumo, un sapore, contribuendo in tal senso a far emergere il momento epifanico per eccellenza. Perché ispirarsi alle bustine di zucchero? Nei bar è ormai abitudine zuccherare un caffè con le bustine monodose che riportano spesso una citazione. Per un puro atto spontaneo, non si va a pescare la bustina con la citazione che faccia al proprio caso, è innaturale; si preferisce allora fare affidamento all’azzardo per scoprire la ‘frase del giorno’ a noi riservata. Alla stessa maniera, quando alcuni versi risalgono in un balenio alla nostra coscienza, non li prendiamo preventivamente dal cassettino della memoria. Sono loro a riaffiorare, da un punto remoto, nella loro imprevista e spontanea vividezza. (D.Z.)

Ci troviamo nell’Isola di Poros nell’ottobre del 1946. Il poeta Seferis è finalmente tornato in Grecia già dal 1944, alla fine del conflitto – dopo un esilio che lo ha portato in diversi luoghi, fino a giungere in Italia, a Cava de’ Tirreni – e poco prima degli scontri interni che sfoceranno nella futura guerra civile greca. Seferis, un Ulisse sofferente, dallo stato d’animo demoralizzato, ma animato da un forte travaglio interiore, lui che, come pochi poeti, interpreta magistralmente il mare quale grande simbolo del viaggio esistenziale dell’uomo, scrive un poema in cui la proiezione nell’antichità classica trova riflesso e sgomento nella storia contemporanea in un rimando fra passato e presente, come due voci che si compenetrano per il tono elegiaco. Nel poema Il Tordo, scritto durante una vacanza sull’isola, il nodo tragico prende ispirazione dall’osservazione di un piccolo vapore, chiamato appunto il «Tordo», affondato dai tedeschi nel 1941 e la cui carcassa emerge dalle acque di Poros. Ecco che l’eco della storia antica e mediterranea raggiunge l’orecchio interiore di Seferis e la poesia diventa, per lui, una finestra da dove recuperare, grazie a un meraviglioso profluvio di versi, i motivi universali fonte di esasperata ricerca, ovverosia il ritorno a casa proprio come nell’Odissea, l’amore e la sensualità; temi accompagnati tuttavia da un profondo senso di solitudine e di morte. Pontani, il quale ricorda nell’edizione del ’63 che pochi poeti come Seferis sono stati capaci di interpretare in versi il viaggio di Ulisse, sottolinea l’ambivalenza del poema, in cui predomina il «doppio volto del reale» per cui la luce, che risplende sul vascello affondato, implica la tenebra e l’esistenza stessa la morte. Antica tragedia e tragedia umana si fondono. Ma se la scrittura seferiana pone l’accento su una storia incarnata nell’uomo moderno che cerca il ricongiungimento con la terra e l’amore («domani ami chi mai hai amato» è il verso latino tratto dalla Veglia di Venere) e trova l’avverso destino della guerra e della dispersione – e in questo possiamo avvicinarlo a Eliot –, pur vi si coglie in essa quella necessità, per Seferis impellente, di fare della poesia il vero faro che illumina la vita di bellezza, declinata in verità, concezione non lontana dall’ideale di Keats per cui bellezza è verità e verità bellezza, ed è ciò che abbiamo bisogno di sapere su questa terra.

 


Bibliografia in bustina
G. Seferis, Poesie (a cura di F.M. Pontani), Milano, Mondadori, 1963.
G. Seferis, Le poesie (a cura di N. Crocetti), Milano, Crocetti, 2020.

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